Intervista al giornalista
Alessandro Stajano
6 ottobre 2008
Alessandro Stajano, moderatore durante la presentazione
del libro di Gloria Chiappani Rodichevski
L'Effimero in posa a Borgo Cardigliano di Specchia (Lecce) il 25 luglio 2008.
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Foto Alexandre Rodichevski
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Giornalista salentino e dottore in
Beni culturali, con esperienze come conduttore televisivo e attore. Iniziamo
dal quarto potere. Mi vuoi raccontare i tuoi coinvolgimenti più significativi?
Di significativo, in realtà, c’è una grande passione per il
mondo dello spettacolo, scaturita dalla presenza nella mia famiglia di un
“personaggio” che, pur tra luci e ombre, mi ha dato quell’imprinting necessario
a desiderare di calcare le scene. Sto parlando di Giò
Stajano, lo zio paterno che nell’82 imparai a chiamare zia, dopo l’intervento
integrale a Casablanca che diede a “lei” nuova vita e a me un’irresistibile
voglia di comunicare. Avevo esattamente 10 anni all’epoca e, improvvisando
balletti improbabili per mia nonna Fanny, abbigliato di lustrini e boa di
struzzo di zia Giò, decisi che un giorno o l’altro
avrei fatto l’attore. Le risate dolci e imbarazzate di mia nonna, figlia del
braccio destro di Mussolini, Achille Starace, mi
fecero comprendere il potere catartico dell’ironia. Fu proprio Giò, peraltro, a farmi ammalare di cinema raccontandomi
delle sue amicizie romane con Pierpaolo Pasolini, Novella Parigini, Rock Udson, Federico Fellini e tanti altri che non sono bastati tre
romanzi a ricordarle tutte. Soprattutto il fascino e l’avventura della “dolce
vita” capitolina. Ad ogni modo lei stessa mi volle lontano dall’Accademia
d’Arte drammatica perché secondo la sua personale esperienza quello di allora
era un mondo lercio e senza scrupoli perché un ragazzo a modo come me potesse
frequentarlo. Così, non appena mi fu possibile, tentai con l’animazione
turistica. Prima scenografo, poi cabarettista; così è iniziato tutto. Non l’ho
mai fatto seriamente però. Intendo con la prospettiva di una professione. Anche
in questo sono simile a Giò: eclettico in ogni
sfaccettatura dell’estro creativo. Adoro l’arte, la letteratura e lo
spettacolo. Per cui cerco di immergermi ora nell’una, ora nell’atra. Poi una
serie sconfinata di “comparsate” in fiction e film per il grande schermo, spot
televisivi e conduzioni di programmi culturali sulle emittenti locali che vanno
avanti ancora oggi. Tra le esperienze più recenti, e divertenti, quelle in Liberate i Pesci di Cristina Comencini; Il Giudice Mastrangelo
di Enrico Oldoini; Nassirya, ecc. Lo scorso giugno
ho fatto un provino per il prossimo film di Eduardo Winspeare,
argomento per ora top secret, per il quale ho preso parte anche a un
cortometraggio pubblicitario che è appena uscito a Parigi per la maison Louis
Vuitton.
La conservazione del patrimonio artistico-culturale
in Italia: punti di forza e criticità.
Argomento assai delicato quest’ultimo. La mia formazione
universitaria coincide, in buona sostanza, con un’educazione all’arte e alle
implicazioni intimamente connesse all’opera e al modo in cui essa viene calata
nel contesto sociale e urbano. Mi riferisco, in particolare, alla destinazione
dell’opera: se si tratta di una committenza privata o pubblica e se, peraltro,
l’opera è contemporanea o appartiene ad altre epoche. Caso, questo, che
comporta le maggiori precauzioni, specialmente se il bene culturale è un
edificio religioso o civile, una scultura esposta agli agenti atmosferici e
inquinanti e via dicendo. Ancora si dibatte, a questo proposito, su come agire nei
confronti di determinati prospetti eretti con materiali lapidei particolarmente
soggetti a degrado ed erosione da parte delle intemperie come le calcariniti (la pietra leccese e i carpari
per esempio). Gli anni ’80 e ’90 furono quelli in cui si fecero più danni che
altro. Le iniezioni indiscriminate di cemento e l’uso spropositato di
consolidanti risolsero momentaneamente il problema. Ma non si tenne conto del
lungo periodo. Soprattutto si sorvolò sulla regola principale di ogni
intervento di restauro: ovvero che l’intervento dev’essere
innanzi tutto conservativo, evidente e reversibile. Intere facciate di palazzi,
prospetti di chiese e templi sono stati irrimediabilmente compromessi da stuoli
di neo-architetti e ingegneri il cui unico pensiero era di appaltare e
concludere rapidamente i lavori assegnati da amministrazioni compiacenti e
ignoranti. Tutto questo senza tenere in alcun conto le singole specificità
tecniche e costruttive delle opere e le diverse reazioni dei materiali
utilizzati su di esse. Ciò detto, caste a parte, va sottolineato che dopo “la
grande illusione” Berlinguer, sulle possibili prospettive per i laureati in
Conservazione dei Beni Culturali in un’Italia troppo piena di tuttologi e
povera di specialisti, oggi si continua ad agire sulla scorta del minor costo
di una gara d’appalto. Le lobbie professionali che hanno contribuito ad
affondare noi conservatori, ancora privi di un Albo e paragonati ai laureati in
Lettere, imperversano senza pensieri. E, cosa temibile, senza quella sensibilità
culturale e formativa necessaria ad accostarsi alle opere d’arte. Palermo,
Lecce e molte altre città d’arte sono state “colpite” da interventi
neo-romantici sulla scorta delle teorie di Pugin, Ruskin e Morris i quali, a
cavallo tra Otto e Novecento, inculcarono la moda del ritorno all’antico
sventrando gli edifici per riportarli alla nudità delle superfici. Intonaci e
policromie, ormai scialbate da secoli d’incuria, sono stati rimossi. I
materiali da costruzione (mai esposti prima d’ora agli agenti esterni) ne
soffrono irreparabilmente. Risultato: oggi vediamo dei veri e propri falsi
storici. Non sono mai esistiti edifici a pietra vista. Gli antichi avevano
compreso, meglio di noi, che intonacare e decorare con stucchi e policromie
svolgeva anche una funzione di protezione, oltre che estetica.
Quali sono, secondo te, i criteri di una di promozione
turistica di sicuro successo?
Essere consapevoli della propria identità culturale è già un
buon punto di partenza. Oggi pare ci sia un sentimento d’appartenenza alla
propria terra meno radicato di quanto, in realtà, si voglia far credere. Ma ci
sono più risorse per le Amministrazioni e questo, ultimamente, sembra
coincidere con ottiche di sviluppo territoriale mirate proprio al recupero
delle tradizioni locali. Ci sono casi d’eccellenza che dovrebbero far meditare,
in primo luogo, i cittadini sul significato di identità e appartenenza come
avviene nel piccolo Comune di Melpignano, in
provincia di Lecce (sede dell’evento canoro di matrice popolare “La Notte della
Taranta”). Questi ultimi hanno poco o nulla a che
fare con l’invasione delle sagre che propinano ai turisti degustazioni di
prodotti tipici in località dove di tipico non è rimasto più nulla a causa
della speculazione edilizia in danno dell’ambiente e dello stesso contesto
storico-urbanistico d’origine. Per promuovere un territorio occorre conoscerne
approfonditamente la storia, i confini geografici e le peculiarità idro-morfo-geologiche; l’ecosistema e le emergenze
architettoniche e naturalistiche. Solo a questo punto, credo, si possa
procedere ponendosi degli obiettivi finalizzati alla fruizione sana e non
invasiva del territorio. Questo, però, a patto che il territorio (leggi la
pubblica amministrazione e i cittadini) sia disposto a fare ammenda e a porre
rimedio agli scempi passati: vedi Punta Perotti a
Bari, le ville dei camorristi alle pendici del Vesuvio o della mafia sotto
l’Etna; degli alberghi e delle residenze private lungo le spiagge più belle
d’Italia, o sulle scogliere soffocate dal cemento. Non parliamo dell’assurda
mancanza di una seria catalogazione del patrimonio artistico dei singoli Comuni
che, ancora oggi, accolgono i turisti con una segnaletica insufficiente e
troppe volte inesatta, nessun front-office
concretamente attivo e pronto a fornire materiale guida utile invece che
meramente autoreferenzialistico e pubblicitario e,
soprattutto, una puntuale conoscenza di ciò che di pregio artistico o culturale
insiste sul territorio. Insomma. Le cose vanno ancora molto male.
E se volessimo calare le tue osservazioni nel Salento?
Il Salento in particolare, e la Puglia in generale, stanno
vivendo un nuovo Rinascimento culturale. Da noi si sperimenta, senza dubbio, ma
si combatte per ri-conquistare quell’identità locale traviata da secoli e
secoli di dominazioni e influssi esterofili che, ad ogni buon conto, hanno
forgiato l’attuale matrice mediterranea di quest’estrema propaggine della
Penisola. Interi paesi della provincia si giovano del positivo insistere sul
territorio delle facoltà umanistiche. Il dipartimento di archeologia
dell’Università del Salento, diretto dal professor Francesco d’Andria, è il
maggiore dell’Italia centro-meridionale e sta realizzando interessanti progetti
tenuti in considerazione a livello internazionale. Uno tra tanti il “museo diffuso”
del Comune di Cavallino (in provincia di Lecce) che ha aperto la strada alla
costituzione degli eco-musei su tutto il territorio nazionale. Paradossalmente,
il Salento, è oggi più noto nel mondo non già per le bellezze paesaggistiche e
artistiche che da sempre lo contraddistinguono, quanto più per il Laboratorio
di Nanotecnologie che attrae ricercatori e docenti da ogni dove. Segno che il
territorio sta cambiando, cerca di migliorarsi e rispondere alla domanda locale
di formazione sempre crescente. La risposta è interessante: negli ultimi 10
anni si è sviluppata nel Salento un’interazione tra mondo accademico e
istituzionale, ma anche tra questi ultimi e i cittadini. Rapporto che oserei
definire di natura osmotica. Là dove si crea un’emergenza il mondo accademico è
pronto a rispondere apportando soluzioni innovative e a costi ragionevoli. Gli
interessi stanno mutando e, forse, anche le sensibilità. Le amministrazioni si
stanno lasciando dietro le spalle decenni di malagestione
e si arricchiscono di nuove risorse professionali in grado di leggere in
maniera più adeguata il territorio. C’è ancora molta strada da fare.
Oltre alle altre attività, conduci l’azienda agricola di
famiglia che produce olio extravergine d'oliva destinato alla vendita al
dettaglio. Quali soddisfazioni ti dà?
È come chiedere a una madre del proprio figlio: io sono
molto legato alla mia terra; non potrei fare a meno di sentirne l’odore, di
camminarci, di vederla crescere insieme a me. Gli alberi d’ulivo che compongono
la mia azienda sono in buona parte secolari. Ma ci sono quelli che furono
piantati il giorno della mia nascita da mio padre, insieme a mio nonno. Sono i
miei fratelli, e li amo. Produciamo olio da almeno 6 generazioni. I miei avi si
trasferirono nel Salento con l’arrivo, nella Corte di Napoli e poi in Puglia,
degli Spagnoli. D’allora si costituì un grande feudo confluito in quello ancora
più ingente della famiglia Briganti. I Conti Stajano-Briganti
hanno costituito un patrimonio fondiario di notevole interesse storico e sociale,
anche dal punto di vista dell’economia locale, dando lavoro a centinaia di
persone. Oggi dopo la morte di mio nonno, Riccardo Stajano, ultimo dei Conti,
le cose sono cambiate notevolmente. Siamo rimasti io e mio padre a portare
avanti l’azienda e a confezionare un olio extravergine di oliva monovarietale eccellente: “La Luisa Tenuta dei Conti
Stajano”. È, tuttavia, una produzione di nicchia che si è scelto di distribuire
localmente e porta a porta. Non ci interessa aggredire la grande distribuzione
perché questo comporterebbe un incremento crescente dei costi e,
inevitabilmente, un decremento della qualità del prodotto. Imbottigliare è
stata una scommessa difficile in una terra ormai satura di produttori. Ma
l’intuizione vincente è stata quella di puntare tutto su un olio monovarietale. A differenza di quanto comunemente si trova
sugli scaffali dei negozi e dei centri commerciali, infatti, il mio olio si
caratterizza per il fatto di essere costituito da una singola varietà di oliva.
La coratina, ad esempio, originaria del Barese, dà un olio eccezionale e
fruttato, ideale per condire carni alla brace e bruschette. Proprio quest’olio
è stato recentemente premiato dalla selezione nazionale organizzata da Il Sole 24ore. A giugno, inoltre, sono
stato citato nella prima guida regionale degli oli extravergini tra gli “extra
top”. Ne vado fiero, certo di portare avanti una tradizione di famiglia.
Restiamo in tema di agricoltura. Lo scorso anno hai condotto Gea, trasmissione
televisiva di agricoltura e gastronomia, patrocinata dalla Regione Puglia, che
mirava a far conoscere processi e prodotti del sistema agricolo, evidenziando i
meccanismi che regolano la filiera produttiva fino a giungere sulle tavole dei
consumatori.
Il format è stato una mia invenzione. Vivendo la
quotidianità da imprenditore agricolo, ma avendo una formazione umanistica
incrementata dalla passione per il giornalismo televisivo, ho ritenuto
opportuno offrire al pubblico un’informazione dedicata alle problematiche del
territorio e al nuovo modo di fare impresa. Oggi processi e prodotti risentono
fortemente delle variabili legate ai costi di produzione, al trasporto e allo
smaltimento degli scarti di lavorazione. Tutto questo impone un adeguamento e
una sensibilità che pochi anni addietro nessuno avrebbe valutato. Le stesse
forze dell’ordine hanno concentrato gli sforzi sulla repressione delle frodi in
campo alimentare e sugli illeciti che hanno attanagliato la Puglia per decenni.
A ciò si aggiunge l’indifferenza dei consumatori al prodotto che acquistano o,
per meglio dire, alla tracciabilità dello stesso. Proprio l’incidenza delle
malefatte criminali, ad ogni modo, ha fatto sì che la gente ne volesse sapere
di più per tutelarsi meglio e scegliere i prodotti in maniera consapevole. Le
filiere, messe a nudo, spiegano tutti i passaggi che un prodotto presente sugli
scaffali dei supermercati deve seguire e perché il suo costo è quello e non un
altro. Ma in molti casi le analisi effettuate hanno messo in evidenza che
troppe volte i rincari sui generi alimentari non sono assolutamente
giustificati in relazione alla qualità offerta o alle metodologie applicate. Mi
auguro che il ciclo di trasmissioni prosegua anche il prossimo anno, confortato
dai buoni dati auditel.
Vorrei intrattenerti su un tema che mi sta molto a cuore e di
cui ti sei occupato: la piaga del randagismo. Un paio d'anni fa hai, infatti,
condotto Vivere Insieme, una campagna
televisiva di sensibilizzazione in favore degli animali randagi, patrocinata
dalla Provincia di Lecce. Ci sono vari modi per arginare quella piaga, ad
esempio la sterilizzazione. Qual è la tua opinione in proposito?
In Italia le associazioni in difesa degli animali fanno
molto; ma non possono risolvere il problema atavico dell’abbandono. Questo
perché c’è ancora scarsa sensibilità sul tema. Del resto l’informazione, come
per altre problematiche di natura sociale, aiuta a rendere più chiari alcuni
aspetti che sono spesso il frutto di pregiudizi e cattiva educazione. Nella
trasmissione che ho realizzato con il supporto dell’Amministrazione provinciale
ho portato l’attenzione del pubblico sul fenomeno legato al mercato nero del
randagismo. Pochi controlli e malagestione delle
strutture di ricovero degli amici a quattro zampe, per lunghi anni, hanno
favorito l’insorgere di un “affaire randagismo”. Se ne sono occupati spesso
anche i miei amici Fabio e Mingo di Striscia
la Notizia, e proprio qui nel Salento hanno svelato il malaffare legato
agli introiti derivanti dai sussidi statali e/o regionali per il mantenimento
dei poveri animali. Molti comuni dell’hinterland leccese, intanto, hanno
aderito alla campagna di sensibilizzazione e si stanno muovendo sia in rete che
autonomamente per far progredire il senso civico attraverso la didattica mirata
alle scuole medie inferiori, la segnaletica stradale e l’inasprimento delle
sanzioni. Quasi sempre, quando ci sono, i risultati si devono all’iniziativa
privata. Poco tempo fa venni contattato da una telespettatrice decisa a
compiere un gesto concreto per arginare il fenomeno. Mi chiese se avrei potuto
metterla in contatto con il laboratorio di nanotecnologie dell’Università del
Salento perché avrebbe voluto sottoporre al preside un suo progetto. Espostomi
il quadro, ne ho subito sposato l’obiettivo e al laboratorio ne sono stati
entusiasti. In sintesi l’idea è di realizzare un transponder in grado di essere
autoalimentato e fornire al tempo stesso la localizzazione satellitare degli
animali e il loro stato di salute. Unico limite: i fondi per realizzare il
prototipo. In buona sostanza il progetto è valido e sarebbe una grande novità,
ma l’Università non si può accollare la spesa. Siamo tutt’ora in cerca di
sostegni esterni. Ma non dubito che ce la faremo. La sterilizzazione è un
sistema che non mi trova molto favorevole, pur avendo risultati apprezzabili.
Non vedo perché a pagare per la cattiva educazione degli umani debbano essere
gli animali. La natura è continuamente stravolta dall’azione antropica. Senza
dubbio non potremo andare avanti in questo modo. Meglio cercare alternative non
invasive e che tutelino la biodiversità. Sottolineo: prima di sterilizzare si
potrebbe educare e fare informazione, monitorare e gestire ad hoc le risorse
per il controllo del fenomeno come già inizia ad avvenire attraverso l’utilizzo
dei microchip e l’applicazione delle sanzioni pecuniarie nei confronti di chi
compie abusi sui nostri amici cani e gatti.
Chi è il vero animalista, secondo te?
Colui che ama la vita. Il rispetto del prossimo è il metro
di misura della civiltà, perché implica il rispetto degli altri e del dono più
grande, l’unico in verità, che ci appartenga davvero: la nostra stessa
esistenza. Amarci vuol dire amare gli altri. La natura è la nostra culla, in
fin dei conti. Comprendere che siamo l’unica specie vivente che distrugge il
proprio habitat dovrebbe dirla lunga sulla stupidità umana. Ecco perché gli
animali sono così importanti e complementari alla vita dell’uomo su questo
pianeta. Loro c’insegnano a coesistere, a non guardare alla specie ma
all’esigenza di sopravvivere in armonia. Molti animali ne adottano altri e li
allevano pur non facendo parte del loro gruppo, a volte addirittura della
stessa specie. Credo che in quanto ad amore e umanità, abbiamo ancora molto da
imparare dagli animali. Il vero animalista? Un cane randagio, ad esempio: ci
adotta come compagni di vita e ci resta fedeli. Eppure siamo di un’altra
specie. Non ci tradirà mai e resterà sempre al nostro fianco. In cambio chiede
solo di essere amato. È così strano? Beh, molti esseri umani non riescono a
dimostrarlo ai propri simili e, più volentieri, preferiscono farsi la guerra
piuttosto che apprezzare le differenze. Charles Darwin intuì la sua teoria
dell’evoluzione guardando alla capacità di adattamento di alcune specie. Forse
solo l’essere umano ne è realmente distante, perché il suo primordiale istinto
di sopravvivenza è mutato in un individualismo narcisistico. Continuare a
soddisfare i propri bisogni senza guardare al futuro ci porterà all’estinzione.
Loro, gli animali, ci sopravvivranno con maggiori probabilità e capacità di
adattamento. Sarà per questo che il Padreterno, oltre a Noè e alla sua
famiglia, volle salvare anche tutte le specie animali del pianeta?
Ed ora veniamo alle tue esperienze in campo cinematografico.
Hai lavorato, tra l'altro, e come tu stesso hai ricordato, sul set del film Dimenticare mio padre (2005), regia di
Giuseppe Antonio Miglietta, della fiction Il Giudice Mastrangelo
(2005), regia di Enrico Oldoini e del film Nassirya (2006),
regia di Michele Soavi. Mi vuoi raccontare questi tuoi impegni?
Devo dire che, pur avendo preso parte con piccole presenze a
produzioni importanti, sono molto affezionato alle esperienze compiute grazie
agli sforzi, e parlo di sforzi veri ed economie risicate, di registi miei
conterranei. Giuseppe Antonio Maglietta ha realizzato davvero un bel lavoro,
una storia intensa che si svolge nella terra salentina
nel pieno degli anni Settanta e che porta i protagonisti, dopo varie
vicissitudini a sciogliere i nodi di un’esistenza difficile e amara fino ai
giorni nostri. Io in questo mediometraggio
interpretavo un docente delle elementari, maestro della piccola protagonista i
cui unici ricordi belli dell’infanzia saranno legati proprio alla scuola. Del Giudice Mastrangelo
ricordo con grande simpatia la gentilezza di attori come Diego Abatantuono,
Amanda e Stefania Sandrelli, Ugo Conti tutti, allo stesso modo, cordiali e ben
disposti nei confronti delle “povere” comparse. Nassirya è stato un momento
particolarmente bello che ricorderò a lungo: ho visto un paese intero
trasformarsi nella cittadina estera. Gente, strade, contesti erano
perfettamente integrati alla storia. Truccato da uno dei soldati della milizia
che attaccò il contingente italiano ero credibile anch’io! Sono proprio nella
scena d’apertura e punto il mitra in faccia a Raoul Bova. L’aneddoto più
simpatico riguarda una scena in cui sono stato spostato dal regista perché ero
vicino a Bova e, secondo l’aiuto regista, gli somigliavo troppo. Così mi fecero
fare il cattivo abbronzandomi con la crema da scarpe.
I tre lavori che ho citato nella mia precedente domanda hanno
tutti a che fare con il Salento: tu salentino, come
li hai vissuti?
Ho compreso che i grandi nomi si rendono conto che un buon
lavoro dipende anche, a volte soprattutto, dal clima positivo che s’instaura
con chi partecipa anche solo marginalmente. Quello che mi ha reso
particolarmente orgoglioso è che, finalmente, si stia iniziando a parlare di
questa terra per quello che realmente rappresenta. Luoghi incantevoli e risorse
umane e paesaggistiche che non temono confronti e hanno davvero tanto da
offrire al cinema e a chi lo interpreta e lo produce. Forse il vero effetto di
destagionalizzazione lo si sta vivendo proprio grazie alle sempre nuove
produzioni cinematografiche che scelgono il Salento per raccontare nuove e vecchie
storie. Mi piacerebbe interpretare dei ruoli impegnati e chissà che non avvenga
presto.