La scintilla di Dio che c’è in ogni essere umano
Da una casa di morti di Leó Janácek in una splendida
edizione del Teatro Massimo di Palermo
Una
scena dal primo atto dell'opera Da una casa di morti.
©
Foto Studio Camera Palermo
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Z Mrtvého
Domu (Da
una casa di morti), concepita quasi nella consapevolezza di essere giunto
al termine del suo lavoro di compositore, è l’opera ultima di Leó Janácek. Singole frasi o
paragrafi del romanzo Memorie Da una casa di morti di Fëdor Mikhailovič
Dostoevskij, gli erano serviti per concepire il suo lavoro in tre atti, ma
senza pausa, da cui trasudava tutta l’attualità e la precognizione di
un’aspettativa di vita senza speranze per quei tanti esseri umani costretti a
vivere nel degrado di un gulag, di un lager o di un campo di concentramento:
luoghi di morte e dolore che hanno segnato tragicamente il destino di milioni
di nostri simili. E’ un’opera questa dove prevale la staticità, senza un vero e
proprio sviluppo drammatico perché non esiste evoluzione dei fatti, essendo la
condizione di recluso legata alla ripetitività dei momenti sempre uguali,
scanditi dagli ordini, dai soprusi, dalle vessazioni, dai ricordi laceranti,
dai litigi, dalla nostalgia e dove la novità sta unicamente racchiusa (ma solo
per pochi in quanto l’indifferenza per le sorti e per le storie degli altri
consimili è il sentimento che primeggia) nell’arrivo di un nuovo prigioniero o
nel ritrovamento di un’aquila ferita come avviene nel lavoro di Janácek. Eppure dalla diversità e dall’orrore che nascono
dalla visione di questa feccia umana composta da assassini e ladri, così come
dai loro sadici carcerieri, che vegeta in stato bestiale e priva di sentimenti
per via di un destino ormai segnato dalla consapevolezza che un domani diverso
non arriverà mai, l’opera del compositore ceco riesce a fare emergere un
profondo senso di pietà cristiana e di riflessione sulla crudeltà umana, sul
male, sull’espiazione della colpa. Lo stesso Janácek scrisse:
“Penetro nell’animo dei prigionieri e vi trovo la scintilla di Dio”. E’ anche
questa un’opera collettiva dove non esistono personaggi principali e le storie
che vengono raccontate sono indipendenti tra di loro servendo unicamente a
rendere ancor più aberrante il contesto del dramma che si sta vivendo. Non
esistono i rimorsi, non si intravede la redenzione, prevalgono unicamente
indifferenza, depressione, repressione e violenza salvo piccoli squarci di
pietà e comprensione umana come nel rapporto quasi paterno tra il colto
detenuto Petrovič Gorjančikov
ed il giovane e bello Aljeja. L’anelito verso la
libertà, simboleggiato dalla liberazione di un’aquila al termine dell’opera, è
solo un breve raggio di sole che accumuna tutti appena per un attimo, poi i
passi cadenzati della marcia con le catene ai piedi riportano alla ineluttabile
realtà quel microcosmo composto da esseri non ben definiti senza speranza e
senza futuro
Janácek aveva terminato l’8 luglio 1928 i primi due
atti dell’opera ma, il 12 agosto, prima di ultimare la bella copia del terzo,
morì lasciando incompiuta la stesura definitiva del lavoro. Il 12 aprile 1930,
al Teatro Nazionale di Brno, Da una casa
di morti ebbe la sua prima rappresentazione postuma con alcuni
rimaneggiamenti e revisioni nella partitura soprattutto rivolti al finale
pessimistico che venne sostituito con un’apoteosi della libertà. Dopo pochi
anni, a causa dell’avvento del Nazismo, l’opera fu messa completamente da
parte. Ripresa nel 1958 a
Praga, in un’edizione abbastanza rispettosa del libretto e del testo musicale
di Janácek con la regia di Jaroslav
Vogel, ha visto susseguirsi differenti allestimenti in tutta Europa. Nel 1974,
grazie all’edizione critica di Sir Charles Mackerras,
è stata integralmente recuperata la partitura originariamente approntata da Janácek ed, adesso, il lavoro che viene messo in scena nei
teatri del mondo rappresenta realmente il pensiero musicale ed il messaggio
simbolico del suo compositore.
Da una casa di morti: i prigionieri liberano l'aquila.
© Foto Studio Camera
Palermo
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La tensione, che si respira dall’inizio alla fine nei cento
minuti senza pause di Da una casa dei morti, rendono quest’opera,
apparentemente frammentaria per mancanza di collegamenti tra una scena e
l’altra, senza trama, senza protagonisti e con respiro musicale privo di motivi
predominanti ed uniformità di stile predeterminata se non legato
all’ossessività lacerante che emana da una condizione di vita frustrante che
conduce verso l’urlo infinito, un lavoro teatrale e musicale di un’unicità
estrema ed un capolavoro nello stesso tempo. Mantengono sempre viva la tensione
i tre brevi atti che si susseguono senza intervallo: tredici episodi distinti
tra di loro senza un filo logico se non quello di mostrare la miseria psichica
e fisica di detenuti ormai senza speranza, che moltiplicano l’attenzione del
pubblico fortemente immedesimato in un contesto così lontano dall’usuale
immaginario. Dall’arrivo del nuovo prigioniero che non desta alcuna
immedesimazione nei suoi consimili, alla scena della tortura che scivola via
con l’indifferenza dei compagni di sventura, alla non coscienza di sé stessi
tale da non distinguere la propria vita dalla morte, ai tre racconti di gesta
criminose senza intravvedere alcun rimorso, alla rassegnazione per la propria
condizione infima, alla grottesca sortita della messa in scena di due pantomime
in occasione del giorno festivo in una sorta di divertissement dominato dalla valenza negativa della passione
amorosa vista unicamente come pulsione erotica, sono tanti i motivi simbolici,
evidenziati da Janácek nel libretto, da lui stesso
composto, sino al messaggio finale rappresentato dall’aquila, incapace prima di
volare e poi libera in cielo, che simboleggia la nostalgia per la libertà. Ma
tutto dura solo per un attimo. La consueta quotidianità irrompe fatalmente e
riprende, con il tragico ritorno nell’uguale, la non vita di questi infelici
per i quali tutte le speranze di redenzione sono azzerate.
Il Teatro Massimo di Palermo ha il merito di aver messo in
scena per la prima volta in Italia l’opera nella versione scritta e voluta dal
suo compositore ed eseguita in lingua originale con sopratitoli in italiano.
L’allestimento, proveniente dalla Welsh National Opera di Cardiff, ( scene e
costumi di Maria Björnson) è fisso per tutti e tre
gli atti: una sorta di inferno dantesco simile ad una fossa comune, putrida e
orrenda, dove i reclusi stanno stretti, ammucchiati, sporchi e coperti di
stracci. Il potere, rappresentato dai carcerieri, domina dall’alto della fossa
così come la finzione del teatro, in cui si cimentano gli stessi detenuti, va
in scena nel livello superiore dove spiccano muri diroccati, tortuosi cunicoli,
squallide nicchie e grate messi in evidenza dall’appropriata cupezza delle luci
di Chris Ellis. La regia dell’inglese David Poutney punta sul realismo e tutti gli interpreti sono
sapientemente caratterizzati e crudelmente veri. Ottima la prova dell’Orchestra
del Teatro Massimo, guidata superbamente da Gabriele Ferro, che esalta la
crudezza della musica di Janácek nei cupi suoni e
negli acuti e lancinanti timbri della partitura. Il Coro Filarmonico di Praga,
diretto da Luká Vasilek,
interpreta magistralmente l’accozzaglia dei reclusi in un insieme che si frastaglia
in tanti esseri distinti, ognuno con le proprie fissazioni ed i propri
tormenti. Eccellenti anche gli interpreti (ben venti per ventitrè
ruoli) tra cui spiccano Kay Stiefermann (Alexandr Petrovič Gorjančikov),
Erik Stoklossa (Aljeja), Stefan Margita (Filka Morozov/Luka
Kusmič), Peter Straka
(Shuratov), Alan Oke (apkin) e Pavlo Hunka (iskov). Tra i
protagonisti in scena anche una poiana di Harris che apre le sue ali e spicca
il volo verso il cielo accompagnata dal grido di gioia dei prigionieri:
“Liberta! Bene estremo!”, a cui seguono, sconvolgenti, le note finali della
partitura caratterizzate dalla marcia ossessiva dei detenuti che riprendono il
loro orrendo cammino verso un’espiazione senza futuro.
Teatro Massimo 16,17,18,19,21,22 ottobre 2008
Opera in tre atti
Libretto di Leó Janácek dal racconto Memorie Da una casa di morti di Fëdor Mikhailovič
Dostoevskij
Musica di Leó Janácek
Edizione critica di Charles Mackerras
e John Tyrrell
Direttore
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Gabriele Ferro
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Regia
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David Pountney
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Scene e costumi
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Maria Björnson
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Lighting designer
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Chris Ellis
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Collaboratrice alla
regia
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Caroline Cleggs
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Alexandr Petrovič Gorjančikov
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Kay Stiefermann
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Aljeja
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Eric Stocklossa
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Filka Morozov/Luka Kusmič
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Stefan Margita
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Il grande
prigioniero
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Adrian Thompson
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Il piccolo
prigioniero
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Vladimir Chmelo
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Il comandante
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Richard Angas
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Il vecchissimo
prigioniero
|
Ernst Dieter Suttheimer
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Skuratov
|
Peter Straka
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Čekunov/Il pope
|
Manrico Signorini
|
Il prigioniero
ubriaco
|
Nicola Palmio
|
Il cuoco
|
Armando Caforio
|
Il fabbro
|
Carlo Di Cristoforo
|
Il giovane
prigioniero
|
Alberto Profeta
|
Una prostituta
|
Elena Borin
|
Un prigioniero
travestito da Don Giovanni
|
David Stout
|
Kedril/Una voce
|
Hubert Francis
|
apkin
|
Alan Oke
|
iskov
|
Pavlo Hunka
|
Čerevin
|
Roberto Gionfriddo
|
Una guardia
|
Nicolò Ceriani
|
Orchestra del Teatro Massimo
Praský Filharmonichý
Sbor (Coro Filarmonico di Praga)
Maestro del Coro Luká Vasilek
Allestimento della Welsh National Opera
Calzature Pedrazzoli (Milano)