“Emily Dick”

come talvolta amava firmarsi.[1] Una creatura eterodossa, un atipo. Ine?briante, se ci si lascia cogliere; totale. Tanto che si ha quasi l’impres?sione che la parola non abbia più ragione di esprimersi oltre Emily, perché ella ha già osservato tutto e comunicato tutto. Impressione di una barriera, la Dickinson, di un limite estremo, dell’ultima follia permessa prima che tutto s’inabissi.

Non è mia intenzione, qui, stilare una breve guida alla poetessa della Nuova Inghilterra, né imprigionare i suoi versi in un discorso critico. Desidero solo proporre alcuni frammenti della sua squisita sensibilità naturalistica per partecipare, assieme a lei e attraverso di lei, al palpito nascosto delle cose.

Partecipazione che troppo spesso tralasciamo per affondare nella prosaicità quotidiana, mentre dovremmo imparare a riemergerne ogni volta, in una, fuga purificatrice verso l’estensione e la perpetuità:

 

«Ebbra d’aria son io,
Ubriaca di rugiada —
Barcollo da taverne di blu fuso
Per giorni senza fine di estate.»

 

Mentre dovremmo apprendere a non tacitare richieste d’amore:

 

«Se quando i pettirossi torneranno
Io non fossi più viva,
Una briciola date in mia memoria
A quello che ha cravatta di vermiglio…»

 

e di sole:

 

«Portami il tramonto in una tazza…»

 

e di minuzie:

 

«Scrivimi… quanti passetti fa la tartaruga…»

 

Mentre dovremmo frantumare l’ovvietà per ricreare mondi minuti ed operosi:

 

«Fiori lucenti fendevano un calice,
Si libravan su uno stelo —
Bandiere contrastate,
Poi pienamente issate — aromi agli orli —»

 

e ancora:

 

«… ha l’erba… le farfalle da covare
E le api da spassare…»

 

e ancora:

 

«Un ragno cuciva
Di notte, senza lume,
Sopra un arco bianco…»

 

Operazioni — queste che dovremmo apprendere — le quali non si esauriscono in se stesse, ma che ci plasmano ad un nuovo sentire e ci spingono verso una disponibilità a percepire le cose del creato, ad amarle facendole profondamente nostre. Ed è proprio con questa luminosità che dobbiamo volerci per sostituire all’abulia la responsabilità, la lotta, la “forza di amare”.

Per concludere leggiamo ancora una volta Emily e facciamo nostra la sua meditazione per poter “salpare lasciandoci alle spalle un posto pulito”:

 

«Se potrò impedire ad un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano;
se potrò alleviare il dolore di una vita
o placare una pena,
o aiutare un pettirosso morente
a rientrare nel suo nido,
non avrò vissuto invano.»



[1] Emily Dickinson nacque il 10 dicembre 1830 ad Amherst, nel Massachusetts, un villaggio puritano del New England, e morì nello stesso villaggio il 16 maggio 1886.