Ricordo di Salvator Gotta
Ho vissuto diversi incontri, più o meno intensi, con
scrittori di fama. Tra tutti vorrei ricordarne uno, non perché sia tra i più
significativi in termini di apprendistato da parte mia, ma per l’atmosfera che
da tale incontro promana.
Salvator Gotta (uno scrittore di cui ho fruito solo
antologicamente dato che non lo sento vicino alla mia sensibilità) lo incontrai
in svariate occasioni, anche perché con lui mia madre aveva amici comuni.
Quando andammo a trovarlo, mia madre e io, a Villa degli
Aranci, la sua casa di Portofino, io avevo quindici anni, perciò i ricordi che
mi sono rimasti non possono certo dirsi esaustivi: sono solo medaglioni e come
tali li proporrò.
Lo rammento alto, imponente, un poco instabile e vivacemente
perso nei ricordi che si snodavano quando visitammo con lui la sua galleria di
fotografie autografate, che lo ritraevano con numerosi personaggi della cultura
del suo tempo (ricordo, fra tutti, Irma ed Emma Gramatica). Al nostro plauso,
lo sento schermirsi: “No, non ho tante cose e tanti riconoscimenti perché sono
bravo, ma perché ho vissuto a lungo.”
In un altro medaglione lo vedo alzarsi, appoggiandosi al
braccio di mia madre e pregandola di accompagnarlo in giardino: voleva infatti
mostrarci la villa di fronte alla sua, nella quale era vissuto il pittore
Giuseppe Amisani, morto d’infarto durante una gita a Camogli in compagnia - tra
gli altri - del giornalista Giulio De Benedetti e dello stesso Gotta. Era stato
proprio quest’ultimo ad indurre l’amico pittore ad acquistare la villa che
fronteggiava la sua. In una pubblicazione
uscita per la commemorazione del trentesimo anniversario della morte di
Amisani, Gotta spiega: “Solo un breve tratto di giardino ci separava. Cosicché
– specie nei mesi d’estate – si viveva una vita quasi comune, parlandoci dalle
finestre, attraverso il giardino.”
Amo profondamente Amisani, soprattutto l’Amisani
ritrattista: sono la vivacità dei suoi ritratti, la vita che da essi sembra
balzare, i colori dati a campiture sapienti che mi colgono; è, inoltre, e come
la definì lo stesso Gotta, “la sua tecnica nervosa e squillante” che mi
affascina. Uno dei quadri che prediligo è Marichette
concerto, olio su legno, che, appartenendo alla collezione privata di
amici, m’incanto ad osservare ogni volta che vado a trovarli. È come un rito
per me: salgo le scale della loro casa secentesca, attraverso il lungo
corridoio gettando uno sguardo agli affreschi del soffitto, sosto nel salone
della musica e poi mi accomodo nel salotto che ha le pareti coperte di Amisani.
Marichette si fa osservare: non
guarda chi la guarda, perduta dietro una chimera, ma offre la sua giovinezza
allo sguardo di chi vuole penetrare il suo segreto.
Ricordo ha chiamato ricordo e mi sono permessa una
divagazione. Ora torno a Gotta.
In un terzo medaglione lo sento accennare alle sue opere di
cui rammento solo il suo citare la saga dei Vela.
In un ultimo medaglione ci vedo chiacchierare anche con la
signora Mirella, la governante dello scrittore, donna pratica e assai cortese.
Ricordo perfettamente che, quando dicemmo a lei e a Gotta che avevamo
incontrato poche settimane prima suo figlio, il dottor Massimo, in occasione di
una manifestazione avvenuta presso il circolo culturale fondato dagli amici che
mia madre aveva in comune con lo scrittore, quest’ultimo sembrò animarsi
particolarmente, facendosi prendere da una sorta di ansia febbrile, come se il
figlio fosse arrivato qualche istante prima e stesse per entrare in casa. E mi
intenerisce quanto il figlio stesso ebbe a dirci: quando il padre, benché
famoso, vedeva il suo nome stampato, ne era felice come un bambino.
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