Il comunista che mangiava i bambini
di David Grieco
Bompiani, 1994
Se
durante la lettura di un romanzo ci imbattiamo in date (giornomeseanno)
che delimitano accadimenti circostanziati, allora siamo messi con le spalle al
muro. E l'opera di David Grieco ci offre questo fin
dalle prime facciate – il 14 maggio del 1986 (pag. 13); il primo maggio del
1989 (pag. 34); la mattina del 24 novembre del 1989 (pag. 54) ‑ e così
fino alla fine.
Ecco allora la domanda inquietante: Questa quindi è la realtà
che supera la fantasia? Non è dunque una frase retorica pronunciata così, tanto
per dire.
Qui l'angoscia
ci prende la gola, lo stomaco, le viscere, ci imprigiona in un senso di
disperata impotenza di fronte all'ineluttabilità della condizione umana. Ma
vilmente siamo presti a fare almeno un tentativo per trovare il modo di
svicolare, di defilarci sia pure ingannando noi stessi. Ecco l'alternativa:
vestirci da struzzi e correre a ficcare la testa sotto la sabbia. Dopotutto
ognuno ha diritto all'autodifesa.
Io scelgo questa
via con la piena coscienza della levità della sabbia che mi deve servire da
rifugio. Rena a grana finissima, asciutta quindi così leggera che un refolo di
vento ne può fare scempio lasciandomi totalmente esposta. È il vento della
ragione, delle esperienze negative lasciate alle spalle e mai dimenticate, del
vissuto quotidiano. Nonostante tutto, però, io insisto a mantenere la mia
postura prona, senza nemmeno accampare scusanti pretestuose. Imperterrita mi
ostino a considerare David Grieco uno scrittore dalla
fantasia accesa, che tutto ha inventato, o che, tutt'al più, si è sbizzarrito
intorno ad un esile nucleo di realtà raccontando a ruota libera.
Per questo…
Un titolo metaforico: questo è il primo pensiero che si
affaccia alla mente, così che l’inquietudine, anzi, l’orrore, non ci accappona
la pelle nell’immediato. A salvaguardarci dai brividi di raccapriccio, invero,
c’è anche il viso campeggiante in copertina che, automaticamente, leghiamo al
titolo. Un viso tutto giocato su varie tonalità di azzurro che non dà certo l’idea
di un efferato assassino seriale. Al contrario, più lo si guarda e più ci
attestiamo sull’impressione di trovarci di fronte all’effige di un povero
sprovveduto capace solo di abbozzare in ogni circostanza; con un sorriso poco
meno che ebete che gli stira le labbra. Con tale sorriso il poveraccio pare pietire un po’ di simpatia; pare chiedere a chi gli sta
accanto di accettarlo nella sua vulnerabilità.
Ci inganniamo: o alla figura non si è voluto affidare alcun
valore fotografico o la nostra interpretazione è totalmente errata. Difatti
durante la lettura scopriremo che il diabolico personaggio che incontriamo per
primo, ossia il mangiatore di bambini, sempre sì armato di sorriso, ma
"osceno", "spaventoso", "famoso"(meglio sarebbe
dire famigerato) che è una "smorfia oscena".
Il titolo non è una metafora; la realtà letteraria è proprio
questa: Andrej Romanovic Evilenko
mangia realmente le sue vittime (ben cinquantatré –
verrà corretto nelle ultime pagine il presunto numero di cinquantacinque
iniziale), quasi tutti bambini – maschi e femmine indifferentemente. Non tutto
il corpo mangiava,ma solo le parti che lo interessavano quando erano ancora
vive.
Un romanzo dell’orrore questo, dunque, frutto di una
fantasia a tutto tondo. È acclarato e, quindi, su
tale scorta ci piacerebbe poter dire che David Grieco
ha sfatato con il suo lavoro la credenza che vuole la realtà superiore alla
fantasia.
Purtroppo non è così. Le cronache, meno raramente di quanto
sarebbe auspicabile, ci deliziano con fatti analoghi. I quali differiscono nel
numero delle vittime, magari, nella modalità dell’azione, nel movente
non-movente, ma combaciano nel terribile potere destabilizzante, nella pulsione
che subito scatta dentro di noi per spingerci al rifiuto caparbio di accettare
simili mostruosità.
Ma prima di giungere a questo bisogna dire che un secondo
pensiero sorge nella mente leggendo il titolo piuttosto peregrino. Un pensiero
che fiorisce da un ricordo in coloro che già da molto tempo hanno smesso di
contarsi i capelli bianchi. Ossia il ricordo della propaganda anticomunista
scatenatasi in Italia dopo il 1945, con un bombardamento a tappeto senza andare
tanto per il sottile circa le armi usate. Ossia, i compagni russi, trinaricciuti (termine coniato da Guareschi e dintorni),
oltre ad essere scandalosamente immorali ammettendo il libero amore, oltre ad
essere così retrogradi da portare la sveglia attaccata al collo perché non
avevano capito che si potevano produrre orologi da tasca o da polso, mangiavano
i bambini. Propaganda strombazzata dai pulpiti e nelle piazze che, in un clima
rovente di ideali, di entusiasmi, di privilegi da salvaguardare ad ogni costo,
di legittime aspirazioni e illusorie aspettative agevolmente attecchiva. Da una
parte gli anti, dall’altra i pro URSS. E più gli avversari erano in buona fede,
maggiore era l’accanimento delle diatribe. Si sa che è facile credere ciò che
si vuol credere cosicché i primi prendevano, senza prove, tutto il male
raccontato come oro fuso; gli altri facevano altrettanto con il bene
raccontato. La verità? Be', la verità non è mai una sola, così che non possiamo
avere un parametro confortevolmente certo su cui basare le nostre scelte. I
sofisti ce l’hanno insegnato riempiendoci di confusione, per non dire di paura,
più di duemila anni fa.
Tirando le somme dobbiamo dire che entrambe le
interpretazioni date al titolo in questione non hanno colto nel segno. L’opera
si incentra su uno schizofrenico, un malato di mente, un soggetto freudiano o
chissà che cos’altro. Già perché sappiamo che questo è un campo con moltissimi
lati oscuri, inesplorati… o inesplorabili.
Uno dei personaggi, Aron Richter,
psicanalista (o psicoanalista come preferisce qualcuno), ebreo, frocio ma di
grande rettitudine, non certo ben visto dal Partito e conosciuto alla polizia
per le sue tendenze sessuali, dirà all’investigatore Vadim Timurovic
Lesiev che nega la scientificità di questa branca
della medicina: "Non so se sia una scienza o no. Questo non l’ho mai
capito neanch’io. Ma le assicuro che è sempre esistita."
(pag. 104)
L’investigatore rimane colpito da questo che ode, mentre
nota che il piccolo ebreo, nello studio dove lo ha ricevuto, ha in mostra solo
il ritratto di Freud. Mancano Lenin e Marx, effigi
d’obbligo nei luoghi pubblici; assai consigliate nello studio di un medico come
Richter. "Lei è comunista, e il comunismo nega l’esistenza d’un mondo
interiore." (pag. 95), continua il medico. "Lo schizofrenico vive nel
nulla. Sto parlando di un grande nulla, un nulla totale, universale. […].
Quando ai genitori si sostituisce lo Stato, agli amici i compagni e all’amore
il dovere diventiamo potenzialmente schizofrenici. Ecco perché le sto dicendo
che dopo questo assassino ne verranno degli altri. E le posso garantire fin da
ora che saranno sempre più forti, sempre più pericolosi, sempre più
inafferrabili." (pagg. 96-97)
Lesiev rimane affascinato da
questa faccia della realtà a lui totalmente sconosciuta. Da buon compagno
dovrebbe rifiutarla, invece leggerà per la prima volta Il Dottor Jekyll e Mister Hyde
su suggerimento del piccolo ebreo. A questo punto un’idea gli balena nella
mente che per lui si può dire una scoperta: capisce che Richter potrebbe
diventare un ottimo collaboratore, naturalmente all’insaputa di tutti.
È ciò che accadrà perché tra i due si instaura una fiducia
reciproca anche se non spontanea; anzi forzata da un piccolo ricatto da parte
di Lesiev che minaccia Richter di trovare un falso
testimone "disposto a testimoniare che lei lo ha molestato, in un cinema,
in un giardino, o magari, perché no?, in un bosco." (pag. 91)
Crudele ed estremo l' accenno al bosco poiché esso è il
luogo dove il mostro conduce e massacra la quasi totalità delle sue vittime.
Dunque Andrej Romanovic Evilenko è affetto da una malattia che lo
"costringe", a strappare dai corpi delle sue prede ancora vive alcune
parti per mangiarsele, contemporaneamente affondando le mani nel loro sangue.
Un uomo enormemente cresciuto dal punto di vista fisico, ma rimasto bambino; un
essere primordiale che vive nel suo mondo: "Il paese del Nulla. La regione
del silenzio dei silenzi. Un mondo meno lontano di quanto si possa
immaginare." (pag. 203)
Tuttavia, nel nulla di quest'essere diabolicamente aberrante
esiste un amore senza confini, viscerale, esclusivo, su cui la ragione non ha
alcun potere: l'amore verso il Partito. Una ideologia che è l'unica sua realtà
e di cui la sua mente malata non può accettare la fine.
Ecco quello che dice ad un gruppo di fermati come lui in una
stazione di polizia: "A noi non ci fanno impressione i morti, compagno.
Non si contano i morti. Si contano gli aerei caduti. Stalin ci ha insegnato a
non aver paura del sangue. Il sangue degli uomini è l'inchiostro della
storia." (pag. 68)
Un comunista monolitico, inossidabile che vive il
cambiamento di rotta della linea politica come un incubo spaventoso, da
combattere con ogni mezzo. Così tempesterà di lettere tutta la nomenklatura.
[…] i tempi stavano cambiando. C'era qualcosa nell'aria.
Qualcosa che tutti chiamavano Gorbaciov. Nessuno sapeva esattamente che cosa
sarebbe accaduto, né quando, né come. Si aspettava un segno del destino.
L'arcobaleno o la tempesta. La fine di tutto o l'inizio di qualcosa.
Ed Evilenko scrive anche a
Gorbaciov:
[…] forse non hai valutato attentamente le conseguenze della
tua avventura politica. Di questo passo, tutto ciò per cui abbiamo lottato
andrà irrimediabilmente distrutto. Chi ti scrive è un compagno che ha dedicato
la sua vita al Partito.
Un siffatto elemento non può passare inosservato agli occhi
vigili del KGB. Quindi, come un falco, esso calerà sulla preda e se ne
impadronirà per usarla. È facile immaginare quanto zelo Evilenko
ponga nel lavoro, non certo limpido,che gli verrà affidato e quanta
soddisfazione ne ricavi. Ma ne sarà abbondantemente ricompensato. Per un oscuro
do ut des che ha cementato queste due espansioni del male nei
suoi svariati aspetti, quando ormai il mostro è preso, processato, condannato,
pronto per ricevere il colpo fatale alla nuca, un membro del KGB lo salverà in
modo rocambolesco, rimettendolo in circolazione.
Tuttavia non è l'amore per il Partito la molla che spinge
questo essere inqualificabile a delinquere nella maniera che sappiamo; casomai
il suo fanatismo morboso è anch'esso un effetto di quella causa che è alla
radice del suo modus operandi
inconcepibilmente efferato.
È grande, è forte, è feroce. [...]. È esattamente un uomo
adulto che porta nel cuore un bambino morto. Questo adulto uccide i bambini
perché vuole cancellare il bambino che c'è in lui.
Lui ha una tecnica precisa, inconfondibile. Prima taglia.
Appena vede il sangue, morde. Poi stupra. Stupra e mangia allo stesso tempo. E
gode come una bestia.
Ecco dunque l'assassino seriale contro cui si è aperta una
caccia implacabile, soprattutto da parte dell'investigatore Lesiev
che il lettore incontrerà poco dopo la figura del mostro. L'assassino apre il
libro, il poliziotto lo chiude, ma entrambi sono sempre in scena,
coprotagonisti che recitano coscienziosamente i loro ruoli ben definiti, bene
scanditi nel tempo e nello spazio. Coprotagonisti interagenti in azioni dettate
da fantasia senza freni ma smorzata nei suoi toni dalla realtà storica
puntigliosamente annotata come che l'autore voglia dare ad essa valore di
corollario per rendere più solido tutto il suo impianto narrativo.
Su Lesiev cala il sipario di
questo grande palcoscenico metaforico ma non in modo definitivo poiché il
lettore avverte un forte disagio, è come si trovi immerso nella greve atmosfera
dell'insoluto, come senta pesargli sul cuore la profonda amarezza di una
sconfitta solo apparentemente ovattata dalla rassegnazione. Il male che l'uomo
sparge con la sua malvagità, intelligente o ottusa, non potrà mai essere
cancellato, anche perché si autogenera continuamente
spandendo intorno a sé una terribile proliferazione di spore contro cui ogni
antigene risulta impotente. Questo è lo stato d'animo che noi condividiamo con
l'investigatore alla parola fine.
Ci si chiede come mai nessuno riesca a mettere le mani su
questo assassino; come mai le sue vittime siano nella quasi totalità, trovate
nelle Strisce di bosco varie piuttosto distanti dal centro abitato. Come le
porta lui fin lì che non possiede un mezzo di trasporto proprio ove potrebbero
essere nascoste, magari imbavagliate o narcotizzate secondo i canoni propri dei
polizieschi e dei thriller? Nessuno è
mai stato testimone di scene di ribellione, di tentativi di fuggire da un
pericolo incombente o di liberarsi da una presa micidiale, di bambini o
d'altri, nessuno ha mai udito grida di terrore, richieste disperate d'aiuto.
Il mistero ce lo svela l'autore in modo senz'altro
fantasioso ma che si inserisce bene nella dinamica dell'intera vicenda:
l'assassino ipnotizza le sue vittime con i suoi "grandi occhi
bianchi", anche se protetti da lenti molto spesse. Pure la voce e le parole
che sussurra sono suasive, ma questo è soltanto un valore aggiunto, per nulla
determinante. I "grandi occhi bianchi" bastano da soli a fugare ogni
eventuale sospetto, a neutralizzare ogni facoltà difensiva nelle vittime
scelte; le quali, quando si accorgono della trappola infernale in cui sono
cadute, non hanno più alcuna via di scampo e incontreranno solo una fine
orrenda.
I due personaggi principali sono entrambi comunisti sinceri,
macerati nella loro fede: lo stesso prodotto in due contenitori diversi. Al
contrario di Evilenko Lesiev
è comunista nonostante tutto, per convinzione raggiunta dopo probabili
ragionamenti, riflessioni, speranza ragionevole in un mondo migliore.
Nonostante tutto, abbiamo detto, perché, appartenente alla popolazione degli
Ingusci, Stalin ha totalmente distrutto la sua famiglia, esclusa la sorella Maja, maggiore di lui, che gli farà da madre.
David Grieco ci fa assistere
all'incontro-scontro di questi due compagni dove l'assassino sa dell'altro,
mentre il poliziotto nutre solo sospetti, anche se corposi, ma sospetti e
basta. Durante questo faccia faccia Evilenko, sollecitato da Lesiev,
gli illustra i motivi per i quali è stata stroncata la propria carriera: da
insegnante di lettere a semplice impiegato delle ferrovie. Sono stati i
"nuovi barbari" a costringerlo ad abbandonare la scuola.
"E chi sarebbero?"
"Quelli della perestrojka."
"[…] Cerca di
essere più preciso…"
"Se tu fossi un bravo comunista avresti già capito di
cosa sto parlando. Comunque, se non lo sai, ti informo che siamo in guerra,
compagno. È ora di decidere da che parte stare."
[…]
"Io sto dalla parte della legge, Evilenko.
E faccio la guerra ai criminali."
"Senza il comunismo non esiste legge. Senza il
comunismo siamo tutti criminali."
Due uomini che una fede a valenza biunivoca dovrebbe unire,
rendere simili per quella forte coesione che viene ad instaurarsi tra cultori
di uno medesimo ideale. Ma qui non siamo sullo stesso piano. Una considerazione
che da parte nostra deve essere subito posta in atto, pena il rischio di sentirci
confusi, destabilizzati.
Ci stiamo avvicinando alla fine della lettura dove ci
attende un finale a sorpresa, con una sua pregnanza, anche se troppo costruito.
Ciò, del resto, è nella natura della narrativa scioccante. L’autore ha creduto
opportuno chiudere il cerchio, rinsaldare le due estremità del filo contorto
che teneva tra le mani agganciandosi all’apocalittica profezia del piccolo
ebreo: "Lo schizofrenico vive nel nulla. Sto parlando di un grande nulla,
un nulla totale, universale. Questo nulla è l’assenza di qualcosa o di
qualcuno. [...] il comunismo ha creato le condizioni per farci finire tutti nel
nulla." (pag. 96)
Lesiev è critico, intelligente,
non rigetta in rifiuto aprioristico questa teoria, anche perché vi trova amari
riscontri nella realtà del momento, così che giunge a sentirsi d’accordo su
alcuni punti evidenziati dal mostro di Rostov quando si scaglia contro la linea
politica che la Russia ha intrapreso. "L’investigatore aveva modo di
verificare, giorno dopo giorno, nei lunghi colloqui con Evilenko,
il colossale fallimento dell’esperienza comunista." (pag. 177)
Il poliziotto medita seriamente benché l’assassino dall’io
totalmente dilacerato cada in una eclatante contraddizione; la quale tuttavia è
forse solo apparente. Il defenestrato Gorbaciov ha avuto ciò che si è meritato,
mentre "Eltsin mi piace. Si vede subito che è un bravo compagno."
L’investigatore sbalordito: "Ma cosa dici? Eltsin odia i comunisti!"
"È inutile. Tu non conosci la storia. E non capisci niente di
politica." (pag. 184)
Incongruenza d’una mente malata o visione lucida priva di
mistificazioni pregiudizievoli? Pur senza far ricorso a chissà quale dialettica
credo si possa costruire un semplice ragionamento logico. Il comunismo è una
dittatura, come dittatura può essere quella d’un tiranno, quella d’un monarca
assoluto e via elencando. Eltsin odia i comunisti. Sappiamo che l’odio, come
l’amore, è un sentimento estremo che prende in toto chi lo nutre
condizionandolo. Se chi odia è un essere così potente da poterlo fare si sentirà
addirittura in dovere di instaurare una sua dittatura diversa dalla precedente
solo di nome, magari con la pretestuosa spiegazione che solo così si potranno
combattere e debellare i "nemici". Forse Evilenko,
conoscendo la storia, dà per scontata, inevitabile una simile svolta degli
ultimi accadimenti politici. E a lui una simile situazione calza perfettamente,
poiché una dittatura purchessia non lascia spazio al libero pensiero, può
diventare un punto di riferimento rassicurante per uno schizofrenico come lui;
un monolito nel quale ravvisare il suo mondo interiore, l’unico esistente, mai
sospettando che quel monolito è parte integrante del mondo esterno, reale di
cui non conosce o non vuole accettare l’esistenza.
Una teoria valida come qualunque altra quando si brancola
nell’arcano a occhi bendati. Ma se quella espressa sopra è solo una teoria che
mai troverà riscontro nella prassi ben più realistico è il rimprovero che
l’assassino muove a Lesiev quando gli dice che non
capisce niente di politica. Vero, per che ragiona in linea retta non è facile
seguire (e accettare) gli zig-zag della politica.
Come già detto ci incamminiamo a passo svelto verso la
parola fine. E come accade ogni qualvolta finisce una lettura che ci ha
trasportati in una dimensione diversa dal nostro quotidiano in modo sentito,
anche se a livello subliminale, siamo spinti verso la riflessione nel tentativo
arduo di trasporre le vicende che abbiamo seguito sul nostro vissuto in modo da
poterlo circoscrivere per comprenderlo e giustificarlo laddove non ci appaghi.
L’ideale – o gli ideali – (grandi occhi bianchi) che si sono
nutriti della nostra linfa vitale illudendoci, ipnotizzandoci durante la
giovinezza e talvolta maturità, ci lasciano alla fine in un doloroso disincantamento, nella devastante consapevolezza di essere
impantanati nel tragico punto di non ritorno, ove è inutile sbracciarsi,
divincolarsi, urlare (Striscia di bosco).
Tutto questo groviglio di sentimenti, di sensazioni, di
convinzioni prende forma di parabola: Davide-bene contro
Golia-male. Ma purtroppo è tardi: il disincanta mento
è tale da farci subito riconoscere la favola con il suo inutile portato.
Lesiev aveva vinto il primo
incontro nella lotta intrapresa con tanto accanimento. Ma una battaglia non è
la guerra e già avvertiva che qualcosa stava cedendo in lui. Non si sentiva
ancora del tutto sconfitto, però "Non aveva più rinnovato la tessera del
Partito comunista. Adesso ce l’avevano in pochi. Ma diventavano sempre di più.
Poiché adesso c’era un dittatore democratico che faceva sognare la
rivoluzione." (pag. 212)
Ed ecco la "storia" citata da Evilenko.
Quindi un primo cedere più o meno sofferto, per questo
compagno onesto e senza paraocchi. Ma poi arriva la mazzata: si tratta della
scoperta di un nuovo delitto – è proprio lui a farla – che porta
l’inconfondibile firma del mostro. Che pure, dopo tanta fatica non scevra di
rischio, era riuscito ad assicurare alla giustizia. Golia ha liberato il demone
a sua insaputa.
Ultima scena orrorosa, forzata
senza meno,tuttavia coerente con il genere di narrativa scelto. Quando Lesiev guarda più attentamente, pure ancora incredulo deve
proprio ammettere che ciò che vede è la testa di un bambino tra le fauci d’un
cane famelico. L’uomo dovrà lottare con l’animale ignaro per strappargli il
bottino. Ci riesce alla fine… e "Proprio in quel momento, cominciava a
piovere." (pag. 214)
Quelle sono le ultime parole del libro. Perché questa
chiusura? Non si può dare alla pioggia un compito purificatore. Per due motivi:
nulla è risolto; il Male, che ha migliaia di volti, rimane sempre una forza
ineluttabile, primo; secondo, la pioggia stessa è materialmente corrotta,
satura di veleni. O forse l’autore vuol significare che la Natura continuerà il
suo corso meccanicamente, inesorabilmente? Anche se l’uomo, incline a
delinquere, ha rovinato il pianeta zappandosi con immensa dissennatezza i
piedi, il globo continuerà a ruotare, arrancando dolorosamente mutilato,
magari, ma trascinandoci inevitabilmente nella sua rovina.
Si può pensare anche che la frase di chiusura non si presti
ad alcuna decodificazione: una chiusura qualsiasi di cui non si sarebbe sentita
la mancanza. Questo solo l’autore potrebbe spiegarcelo, ma ormai il suo
prodotto appartiene a tutti coloro che vogliono usufruirne.
Lo stile di David Grieco è pulito,
essenziale, dove la nostra lingua è ben trattata. Si può parlare di linguaggio
giornalistico ad alto livello. Qui la passione sottintesa, la partecipazione
emotiva, trascende il ritmo tipico della cronaca. Anche se le vicende si
susseguono in modo serrato c’è sempre spazio per farci capire che il Grieco conosce l’essere umano e la vita.
Una lettura godibile, dunque, che fa meditare. Godibile ma
forse non per coloro che cercano nella lettura di evadere verso mondi rosati.