Lo Zen e il tiro con l'arco di Eugen Herrigel

Adelphi, 1984

È il 1948 la data di pubblicazione de Lo Zen e il tiro con l'arco, pubblicazione avvenuta dopo molti anni dal soggiorno in Giappone di Eugen Herrigel (1884-1955). Docente di filosofia a Heidelberg, Herrigel fu infatti invitato nel 1924 a tenere corsi all'Università Imperiale di Sendia.

Non siamo di fronte ad un libro sullo Zen speculativo. E neanche ad un manuale per apprendere la tecnica del tiro con l'arco. Non si tratta neppure del diario sentimentale di un'esperienza illuminante. Si tratta, invece, del cammino quinquennale di un abitatore dell'Occidente verso l'abbandono di se stesso, in una "tensione senza intenzione", per apprendere "l'arte senz'arte", per apprendere "un' 'arte inappresa', che sorge dall'inconscio."

Quando si parla di arte si intende una qualsiasi delle arti, trattate secondo la filosofia Zen: il tiro con l'arco, il tirare di spada, la cerimonia del tè, il disporre i fiori, la danza e le arti figurative. Non perché lo Zen sia la più efficace tecnica di apprendimento: anzi, esso aiuta a non apprendere, a scordare, a smemorarsi di se stessi perché per raggiungere l'obiettivo occorre dimenticare l'obiettivo.

Dunque la prima cosa che un allievo che si avvicina allo Zen deve fare, è quella di dimenticare ciò che sa sia dell'arte cui si sta accostando sia di se stesso.

Insomma, "dobbiamo ridiventare 'come bambini' attraverso lunghi anni di esercizio nell'arte di dimenticare se stessi." È Daisetz Teitaro Suzuki (colui al quale si deve l'introduzione dello Zen in Occidente) a parlare, nella sua illuminante introduzione al volumetto di Eugen Herrigel. "Quando l'uomo," egli continua, "ha raggiunto questo grado di sviluppo 'spirituale' è un maestro Zen della vita. Non ha bisogno, come il pittore, di tela, pennello e colori. Non ha bisogno, come l'arciere, di arco e freccia e bersaglio o di altri accessori. Ha le sue membra, il suo corpo, la testa e così via. La sua vita nello Zen si esprime attraverso tutti questi 'strumenti', che sono importanti come forme della sua manifestazione. Le sue mani e i suoi piedi sono i pennelli, e il mondo interno è la tela su cui dipingere la sua vita per settanta, ottanta, novanta anni. Tale quadro si chiama 'storia'."

È così che, nel caso del tiro con l'arco, non è l'arciere a scoccare la freccia, ma è la freccia che "si" scocca, cioè è il tiro che "si" tira. E quel "si" è un "si" spirituale. Perché il tiratore diventa il bersaglio e viceversa.

 

Abbiamo parlato di arti. Daisetz Teitaro Suzuki molto opportunamente ammonisce il lettore occidentale a non ingannarsi sull'essenza dell'arte: "le […] arti praticate in Giappone e probabilmente in altri paesi dell'Estremo Oriente […] non perseguono alcun fine pratico e neppure si propongono un piacere puramente estetico, ma rappresentano un tirocinio della coscienza e devono servire ad avvicinarla alla realtà ultima." A riprova di quanto ha appena spiegato, Suzuki sottolinea che "lo Zen non esce mai dalla nostra vita quotidiana" e che, "nonostante tutta la gamma delle sue applicazioni pratiche e tutta la sua concretezza, ha in sé qualcosa che lo pone al di fuori della contaminazione e del tumulto del teatro del mondo."

Eugen Herrigel stesso chiarisce: "Per tiro con l'arco in senso tradizionale, che gli stima come arte e onora come retaggio, il giapponese non intende uno sport, ma, per strano che possa apparire, un rito. E così per 'arte' del tiro con l'arco egli non intende una abilità sportiva raggiunta più o meno compiutamente attraverso un esercizio in prevalenza fisico, ma una capacità acquistata attraverso esercizi spirituali e che mira a colpire un bersaglio spirituale: così dunque che l'arciere, in fondo, prenda di mira e forse arrivi a cogliere se stesso."