Il coraggio del pettirosso di Maurizio
Maggiani ‑ seconda parte
Feltrinelli, 1995
Prima parte ‑
seconda parte
Vediamo
qui tutta l'angoscia che ci prende quando scaviamo nel nostro profondo
rapportandoci al vivere e possiamo così specchiarci nella nostra totale,
desolante inutilità. Forse è per costruirsi un salvagente che il giovane
disilluso fa del vecchio poeta un simbolo, vincendo l'originaria ripulsa. Il
simbolo che raccoglie in sé tutti coloro che hanno interiorizzato, per poi
esteriorizzare, la poesia vera, la quale rappresenta per molti l'unico mezzo
possibile per tenersi agganciati all'esistenza.
Finalmente quindi Saverio, dopo aver infagottato i suoi
fogli dattiloscritti, il documento di identità egiziano e la cartella di cuoio
regalata da Azena che contiene la carta di Pascal, esce dal cancello
dell'ospedale.
Le gambe sono malferme ma non si sente di andare
direttamente a casa; arriverà invece al mercato copto dove c'è "il ben di
dio del contrabbando".
Qui trova quello che cercava: una macchina per scrivere di
cui non riesce a leggere la marca perché scritta in caratteri cirillici; però i
tasti sono in caratteri latini, quindi è tutto a posto. Per dare il nome al
nuovo acquisto userà il termine Matrioska: "l'unica parola in russo che mi
viene in mente".
Si può pensare che il nome dei mezzi meccanici usati per
scrivere quest'opera ‑ Olivetti, Remington, Matrioska ‑ riportati
in ordine cronologico, abbiano il compito di aiutare il lettore a rifare il
percorso esistenziale, tanto sofferto, del protagonista; aiutarlo a seguirne
ogni passo nella grande avventura che è l'esistenza.
Su questa nuova macchina batterà "il capitolo della […]
[sua] guarigione".
È un chiudere definitivamente la porta alle proprie spalle per aprire subito
quella che ci sta davanti. Dietro la porta chiusa dovrebbero rimanere anche i
sogni appartenenti ad un passato da affossare, ma essi reclamano ancora un
piccolo spazio dove far udire la loro eco.
In uno di essi, però, stavolta il protagonista non è Pascal
bensì Ungaretti. La figura del poeta ha un'importanza rilevante nella vita del
giovane, ma la sua si potrebbe dire una presenza-assenza: la prima volta che ne
sente parlare è in modo negativo; ne legge alcune poesie che lo coinvolgono emotivamente
anche se in modo confuso; lo incontra a Roma in maniera del tutto inaspettata,
e tale incontro sarà la causa della sua lunga avventura mentale; infine ne
apprenderà la morte dai giornali accorgendosi di provare dolore.
Sogna Ungaretti, si è detto, "il vecchio, il poeta.
Rideva, rideva, rideva, non smetteva mai [...], da vero ginn, nel sogno
lievitava qua e là nell'aria."
Già quando lo vide a Roma il Pascale usò un tale paragone nei confronti del
poeta. Ma questo spirito bivalente ha avuto influenza negativa o positiva su
Saverio? Quel riso inarrestabile e inquietante, forse malizioso se non proprio
maligno, può essere fine a se stesso? Saverio non sembra gradire
quell'esibizione goliardica: magari il poeta ride per lo scherzo che gli ha
fatto intrappolandolo con un antico documento.
Di mano in mano che i giorni trascorrono il giovane compie
un passo verso la guarigione fisica e psichica. Lo capisce perché si sente più
forte nel corpo, ma anche perché ha imparato ad attendere con pazienza che la
vita segua il suo corso, senza ansie anticipatrici o sussulti irrequieti. Non è
felice, questo no, ma non sente più la voglia di andarsene da Alessandria;
soprattutto il porto sepolto non lo attira più. Sa che c'è, come sa che esiste
Carlomagno, ma gli impulsi che lo avevano spinto alla ricerca dello
straordinario, se non proprio dell'eroico, hanno perso il loro vigore.
Si arriva così alla Festa del Montone e il nostro
protagonista si reca alla tipografia pensando che è passato tanto tempo
dall'ultima volta che vi mise piede.
Porta con sé, assieme alla pecorella da lui stesso tanto
laboriosamente cucinata, il suo dattiloscritto. Sì, perché non ha dimenticato
"Pascal, mio fratello Pascal, mio bisnonno Pascale; l'ombra che mi ha per
tanto tempo gravato sul petto, l'incendiato che ha reso misteriosamente vive le
mie notti d'ospedale."
A El Meskin, quando Saverio vi mette piede, trova che nulla
è cambiato ed è molto facile riagganciare là dove si era interrotto il legame;
quel legame di fratellanza che, ora più che mai, gli sembra tanto prezioso.
Il giovane passa all'amico Ruben il suo dattiloscritto
chiedendo di tenerlo in custodia. È incapace di disfarsene e "c'è una
bella differenza tra buttare via una cosa e farne un regalo".
Dopo qualche tempo c'è l'invito perentorio di Ruben:
"Ci vediamo tra di noi, vieni",
gli dice.
E Saverio va al Diwan Nabil, rimanendo sorpreso per la
presenza di tutta quella gente: "un'assemblea plenaria di cui non sa
spiegarsi la ragione". È sempre l'instancabile Ruben che lo saluta:
"Finalmente anche tu sei arrivato."
Tiene in mano dei fogli ed è "preoccupante il suo sorriso, […] [lo stesso]
sorriso del dottor Modrian quando si è visto arrivare il paziente abbastanza
credulone e remissivo da poter finalmente sperimentare le sue pazze terapie."
Ad un certo punto Ruben confessa che si erano riuniti nei giorni passati e lui
aveva letto a tutti la storia di Pascal. Ne erano rimasti affascinati perché è
una storia bellissima, importante, appartenente a tutti loro.
Saverio non se l'aspettava, ne è elettrizzato e deve
confessare a se stesso di essere contento. Anche se è convito, più
realisticamente dell'amico Ruben, che alla maggior parte dei presenti lo
scritto non interessa e tantissimi non l'hanno nemmeno capito.
Purtroppo non finisce qui: quel "prete anarchico"
di Ruben ha qualcosa da chiedere, dice; tutti, anzi, hanno qualcosa da
chiedere: "[...] perché non l'hai finita 'sta faccenda? [...] Puoi anche
non dirci nulla, Saverio [...] ma per noi sarebbe un grande dolore. Dovremmo
rinunciare a qualcosa che appartiene ai nostri cuori, ormai."
Nessuna scusa che balbetti il malcapitato lo può salvare: la
storia deve avere un finale. Molti dei presenti lo si invita, lo si prega,
toccando le corde del cuore, di proseguire quella storia meravigliosa. Quasi
tutti si fanno propositivi e persuasivi.
Il poveretto è intrappolato. Oramai c'è dell'agitazione tra
i presenti; si inizia a farlo bere mettendogli in mano un bicchiere di
"liquore di zibibbo". Nel frattempo lo incitano, lo pregano: se non
ha saputo scrivere il resto della storia che almeno la racconti.
Per accontentare i postulanti incomincia a rispondere alla
domanda: perché Sua non è rimasta incinta. La risposta è che lei, per il
momento, voleva imparare a scrivere e a disegnare, e poi voleva stampare lei
stessa un libro sulla storia della sua gente.
"E poi?" L'interesse dei presenti è al culmine,
non gli lascia tregua. Gli mettono in mano un bicchiere di birra, poi un altro…
Lui beve quasi automaticamente fino ad ubriacarsi. In questo stato pensa che è
facile andare avanti. Se a quella gente piace così perché non accontentarla?
Per Saverio è un momentaneo regresso non voluto: l'alcool fa da allucinogeno,
mentre gli amici si sono calati nelle vesti del dottor Modrian con le "sue
pazze terapie". E lui si trova a proseguire i "sogni". Ecco
allora crearsi un mondo dove gli amici vengono trascinati. Non è un mondo di
favole liete, è sempre quel mondo brutale dove regna l'uomo lupo all'uomo; ma a
quella gente che non ha mai deposto l'ideale libertario, convinta però di non
dover mai perdere di vista la realtà, le favole non servono.
Saverio prosegue: Pascal, un soldato ormai non più giovane,
rotto ad ogni fatica, quasi incapace di provare una qualsiasi emozione, ci
stupisce vedendolo intenerirsi davanti alla giovanissima e intelligente moglie
Sua. Ella è divorata dalla sete di conoscenza e per accontentarla l'uomo
getterà alle ortiche il senso della più elementare prudenza, regalandole un
almanacco illustrato, avuto molto tempo addietro ‑ non ricorda più nemmeno
come ‑ ma sempre tenuto rigorosamente nascosto. Del resto la follia più
grande lui l'ha commessa sposando Sua, "pazza, come tutti gli altri, come
Furnà, come il pievano, come suo padre e sua madre. Anche di più, forse, perché
aveva una forza interiore tremenda, ed era meravigliosamente bella."
Per Sua il dono dell'almanacco è olio sul fuoco: non si
stanca mai di sfogliarlo, di osservarne le figure. Attraverso di esse immagina
che oltre i confini di Carlomagno vi sia un mondo vastissimo da scoprire, aiutata
in questo immaginare dall'esperienza del suo uomo di cui la fa partecipe. Ma
oltre alle figure, la ragazza vuole anche che il marito ‑ sa leggere ‑
le spieghi il significato di ogni singolo segno posto su quei dodici fogli.
Purtroppo l'uomo è consapevole che "il gusto di leggere
e ragionare [...] [sono] cose che uccidono: chi poteva saperlo meglio di lui,
che per queste cose aveva ammazzato dalle Fiandre al Pinerolo?"
Poco prima Pascal, forse investito da quella saggezza che sopraggiunge con
l'età avanzata, la quale ci fa capire che ogni eccesso partigiano è almeno
inutile quando non è delittuoso, dirà a Sua: "Ma la pace, la grande pace
di un popolo intero e di un intero paese non l'ho mai vista".
Sua è sempre più divorata dalla febbre di sapere; quei pochi
fogli ormai non le bastano più. È come che la sua mente si allarghi ogni giorno
un po'; si chiede quanto possa essere grande il mondo e quanti libri possano
esistere.
Ed ecco come Pascal si trovi a mettersi in viaggio con il
suo mulo Baes. Un viaggio lungo, faticoso soprattutto perché siamo nel pieno
dell'inverno. Ma vuole compierlo da solo quel viaggio, perciò rifiuta la
compagnia dello strambo formaggiaro Furnà che insiste per accompagnarlo. Quel
vecchio che fu l'unico a dimostrargli simpatia quando tutti quelli di
Carlomagno lo isolavano non potendo sopportare un balivo, venuto da chissà
dove, tra di loro. Fu proprio quell'originalone di Furnà a sentenziare, rivolto
a Pascal, per dimostrargli la sua solidarietà: "[…] un uomo dolente, nell'anima
o nel corpo, non deve stare troppo solo."
Quel viaggio così gravoso dovrà portare il balivo dal suo
padrone, il marchese di Bramapane per chiedergli dei libri. "No. Sono
andati persi, li ho bruciati, sono marciti. Impossibile",
risponde con veemenza, dove agevolmente leggiamo il terrore, quell'uomo.
Pascal insiste: "Forse un libro d'ore, un piccolo
vangelo […], un almanacco, un bestiario";
ma il marchese rifiuta sempre: "Una ragazzetta di quel paese di mezze
bestie che vuole le si leggano libri. Non ci credo. [...] Sciocchezze. Non ti
ho nemmeno sentito."
Ma "Pascal era un testardo e sapeva che al marchese
dispiacevano di più gli irresoluti dei caparbi."
Il marchese, ad un certo punto, guarda dritto in faccia il
visitatore e gli comunica in tono grave, carico di drammaticità, che è venuto
da lui "un tale Xavier, uno di Castiglia, un ragazzotto. Prete per di più,
uno dei preti di quell'altro pazzo di Loyola, il basco. [...] Verrà anche a
Carlomagno [...] ed è bene che non trovi gente troppo istruita: ci rimarrebbe
male."
Pascal non può non capire, ma ancora insiste chiedendo
"almeno una Bibbia. Finito di leggerla, la brucerò se è meglio così."
Il marchese alla fine cede dichiarando che se la prende
"sarà un pensiero di meno per casa mia, ma un pensiero di più per
te." Il balivo
rassicura il suo padrone: "l'avrò trovata in un sacco lasciato per
strada".
"Giusto, ma non una strada delle mie."
Dialogo svelto, essenziale, carico di tutto il dramma che
comportano le circostanze e che inchioda uno dei tanti "olocausti" di
cui l'uomo ha saputo seminare la sua storia.
Intanto, con qualche pausa e molti incitamenti, la storia di
Pascal continuava a fluire dalla fantasia di Saverio; fantasia però che mai
distoglieva un occhio attento a verità storiche e geografiche.
Durante l'inverno e la primavera, incalzato dalle domande di
Sua che non si stancava mai di ascoltare, conoscere, scoprire, Pascal non le
aveva insegnato a leggere ma "semplicemente, le aveva raccontato quello
che sapeva sulla scrittura dei libri".
E la ragazza si convinse che ne avrebbe potuto stampare uno anche lei: sarebbe
bastato avere a disposizione ciò che serve al caso. "Poi, lei e la sua
gente, i suoi monti e i suoi lupi, i suoi fiori e i suoi ruscelli, i suoi
uccelli canterini e i suoi pensieri, avrebbero avuto il loro Libro."
È facile tradurre "la loro Bibbia" tenendo conto
del significato semantico del termine, il modello sul quale dipanare
l'esistenza, tuttavia sempre tenendo per buoni i loro parametri difficilmente
adattabili ad altri; ossia di gente semiselvaggia che ha della propria
indipendenza un altissimo concetto.
A questo punto Sua decide che bisogna mettersi in viaggio
alla ricerca del materiale per poter stampare. Pascal accetta…
Qui Saverio, stanchissimo di bere, inventare e raccontare,
spera in una scappatoia dichiarando che si trova davanti ad un mistero che non
sa risolvere.
"Quale mistero? […] Te lo risolviamo noi se non ce la
fai da te."
"Dategli da bere, non vedete che ha la bocca asciutta?"
I compagni sono troppo avidi di conoscere qualcosa su quel
loro paese abbandonato per sempre con ogni probabilità, ma non dimenticato.
Nostalgia e bisogno di evasione: due forze concomitanti le quali trasportano il
gruppo di idealisti in un mondo che non esitano a calare in una realtà loro
assai congeniale, al punto che sembra logico diventare protagonisti della
storia risolvendo l'inghippo del mistero di cui Saverio non sa sciogliere il
nodo.
"Perché Pascal ha accettato di seguire Sua in questa
pazzia del libro e del pellegrinaggio?"
"Era innamorato…",
è la prima risposta, la più logica: esiste una forza più potente dell'amore?
Ma Saverio non si accontenta: è più smaliziato e vuole
andare oltre. "Forse. Ma vi dimenticate chi era Pascal, vi scordate della
sua vita. […]. Perché allora è partito con Sua? Io non lo so e non posso andare
avanti nella storia."
Difatti proprio l'amore, quell'amore ambiguo, inafferrabile,
intervenne, con scopi risolutori, riuscendo a disincagliare l'impiccio.
Fatiha aveva parlato, quindi era presente, e se era presente
significava che non aveva scordato Saverio nonostante si fosse negata per lungo
tempo.
Il giovane, "a sentire quella voce la sbornia […] [gli]
si è liquefatta, e adesso […] [gli] colava giù dal cervello in rivoli
gelidi."
Ecco la spiegazione che la ragazza aveva dato per il
comportamento di Pascal: "I vecchi gatti intelligenti sanno quando arriva
il momento che devono finire di vivere. E allora, come ci si aspetterebbe da
loro, fanno la cosa più saggia per quella circostanza, la cosa che altrimenti
sembrerebbe più stupida: scendono sulla pista della loro ultima caccia per
spendere bene le energie che sanno di avere ancora."
Ora Saverio può continuare. Dunque Pascal accetta di
accompagnare Sua in quella pazzia perché è un "vecchio gatto intelligente",
dirigendosi prima a ponente e poi verso nord. "E ancora più su […]. Lì ci
sono valli a ridosso dell'antica via per il lago di Lemano dove praticamente in
ogni villaggio c'è una piccola officina di stampa […]. Quelle valli sono la
culla ben protetta delle peggiori eresie, ed è da quei villaggi che si
propagano per le terre cattoliche le stampe che l'imperatore e il papa non si
stancano di maledire e d'incendiare. Stampe e stampatori, s'intende."
Naturalmente per quelli di Carlomagno, che li approvano con
tutto il cuore, Pascal e Sua, con il mulo Baes, vanno in pellegrinaggio, fino
"alla navicella di san Giacomo, quella che aveva portato il cugino del
signor Cristo e Maria di Magdala",
per chiedere la grazia di un figlio. Sua ha giocato bene le proprie carte: la
sterilità di una coppia è ritenuta una sciagura per la gente del suo paese; da
dove è impossibile andarsene senza una causa molto molto seria. Così,
scegliendo il pellegrinaggio finalizzato alla procreazione, è riuscita ad avere
l'appoggio affettuoso di tutti, i quali accompagnano i partenti per un tratto.
Il viaggio è lunghissimo e molti, o la totalità, pensano che
i due non riusciranno più a fare ritorno.
Sopportando grandi fatiche, tuttavia, Pascal e Sua riescono
a reperire il materiale per stampare, dopo di che si accingono a tornare al
paese.
Purtroppo "a poco meno di un giorno di cammino da
Carlomagno, incontrano il prete Villelmo."
Il poveretto è ridotto in uno stato pietoso: ha i piedi nudi ed è malamente
coperto dalla casacca gialla, "il segno che gli eretici colti nel fallo
della loro eresia dovevano portare per penitenza."
Pascal e Sua interrogano il pievano, ma egli non ha più la
testa a posto e, ad ogni domanda, non fa che "blaterare nel dialetto della
sua teologia".
Maggiani, in queste pagine fosche di tragedia, riesce a
trasmetterci tutto il terrore da cui vengono paralizzati i personaggi. Essi ci
appaiono esattamente per quello che sono: vittime già destinate ad essere
ghermite da ingranaggi che solo l'efferata insensatezza umana può concepire.
Per Pascal è chiaro ciò che è accaduto. Allora, assieme a
Sua e al povero pievano, "salgono lungo il crinale che porta alle cave di
marmo più alte",
dove trovano rifugio in una grotta ben nascosta che Furnà aveva indicato al
balivo durante i suoi giri fatti nello svolgimento della sua funzione.
Nonostante una folle paura lo faccia tremare, pure l'uomo
non dimentica il sogno della moglie: chiudendo in una sacca il materiale per
stampare che erano riusciti a procurarsi, prende Sua ed assieme vanno a
nasconderlo in un pozzo di cava. Ora bisogna pensare ad allontanarsi il più
possibile da quei luoghi.
E qui sentiamo l'afrore emanato dalla feroce caccia
all'uomo. Afrore che ci investe facendoci rabbrividire di raccapriccio, poiché
in questo caso non si tratta di caccia all'uomo per difendere se stessi o una
società, ma solo dell'aberrante cieco fanatismo, armato dalle armi più crudeli,
che impazza, spinto in avanti da una bieca follia che si sostituisce al buon
senso. Bastano anche le poche nozioni che tutti abbiamo sulla Controriforma e
la sua campagna contro gli eretici per capire i brividi di paura che scuotono
Pascal in questo frangente.
Mentre cerca ogni mezzo per salvare se stesso, la moglie e
magari il pievano, gli sovviene che ha dimenticato a casa il famoso almanacco
incriminabile, la paura si fa terrore, pure non ne fa parola con la ragazza.
Ritornando dal pozzo al loro rifugio trovano che Villelmo
s'è ripreso: ora li riconosce e scoppia a piangere. È divorato dalla febbre e
risente ancora, in tutto il fisico, delle torture subite; però può fare il
resoconto di quello che avvenne a Carlomagno durante la loro assenza. Xavier
era entrato nel borgo "con una vasto seguito di soldati e notai, una cassa
di bolle e patenti e il coro di certi pretazzi".
Una dozzina di villani scalmanati li aveva dati a prestito il marchese venendo
meno al giuramento, fatto due anni prima, di difendere Carlomagno in cambio del
vassallaggio. Il povero Villelmo, interrogato per primo, aveva
"spontaneamente ammesso le sue mancanze in fatto di dottrina e di
morale". Ma non
c'era stato verso di far ragionare il prete castigliano, il quale poi passò a
interrogare i capi famiglia. "[…] cercava di farli ragionare di cose che
non conoscevano, cercava di strappargli parole che nemmeno sapevano dire. Le
dicevano alla fine, storpiate, buttate giù ad ogni giro di ruota, a ogni
passata di fune."
I padri, riuniti in consiglio, per porre fine a quei tormenti, ed evitare che
venissero coinvolti persino i bambini, decisero: "Abiuriamo le nostre
sante leggende, sputiamo sulle nostre canzoni, confessiamo ogni cosa che farà
loro piacere […]. Poi si vedrà."
E quando gli scabini trovarono, nella stanza di Pascal, carte "grandemente
eretiche", quei poveracci non esitarono ad accusarlo assicurando che era
stato proprio il balivo a corromperli. L'autore pare che metta il punto su
quest'accusa, ma chi si sente di condannare quei poveretti nella loro
limitatezza umana? Hanno tradito ma non ne vanno fieri se sentono il bisogno di
mettere a tacere quel filino di rimorso, che forse fa capolino, con una
speranza che non è del tutto infondata: con ogni probabilità quei due non
sarebbero mai tornati.
E mentre il pievano spiega tutto questo, piange
disperatamente per il rimorso di non aver saputo lottare abbastanza in favore
del balivo; e chiede perdono con una contrizione profonda, poi aggiunge che
solo il vecchio Furnà si era battuto per difendere Pascal e lo aveva fatto nel
suo modo stravagante; ossia tagliandosi le ultime due dita rimaste (le altre se
le era fatte saltare, ad una ad una, ogniqualvolta mancava al giuramento
d'amore eterno verso una donna). Ora Villelmo sapeva che il vecchio
formaggiaro, dopo questa dimostrazione, era stato incatenato in casa sua e
lasciato morire.
Nelle azioni di Furnà vediamo una forma di autopunizione che
non è facile capire; un senso morale assai particolare, il quale però bene si
inserisce in quella comunità chiusa ad ogni presenza estranea, fiera della sua
storia, che però nessuno scrisse mai.
Naturalmente Pascal non rimprovera il pievano né la gente di
Carlomagno. Capisce. Ora porterà il prete in un punto dove potrà riprendere il
cammino in cerca di un'eventuale nuova pievania. Spera anche che potrà
abbandonare presto la sua casacca gialla "perché sa che fino ad allora gli
sarà difficile anche solo poter avere qualcosa da mangiare nel mondo dei buoni
cristiani."
Pascal e Sua, con il mulo, cercano di fuggire ma vengono
presi dopo appena due giorni.
L'uomo si arrende: sa che ormai il "suo" tempo è
scaduto. Consegna la patente di balivo al prete Xavier, come riconoscimento
d'identità. Il castigliano se la ficca in tasca senza nemmeno guardarla. In ciò
si vede la boriosa sicurezza del predatore che sa come la preda ormai sia in
suo potere.
Non c'è alcuno scambio di parole, né con la moglie né con il
prete né con gli scagnozzi che l'accompagnano. Questi ultimi sono tutti di
Carlomagno, gente esperta dei luoghi che può individuare senza fatica la via
presa dai fuggiaschi. Soltanto Sua,"annichilita dallo stupore", cerca
di avvicinare i compaesani, ma essi non si sentono completamente a posto e
"procuravano di starle il più possibile alla larga".
Poche parole che servono a descrivere un intimo dramma.
Quindi "non una parola tra i due, non una parola tra tutti su quella costa
rocciosa in un limpido mattino di montagna."
Una chiusura di paragrafo, quella di Maggiani, che fa
misurare tutta la nostra miseria d'uomini, immersi nel tempo, entità
immateriale, che scorre sulla materia che ci circonda superba della sua
indifferenza.
Pascal tuttavia pensa alla sua donna; cerca di sfiorarle
almeno la mano mentre tornano verso Carlomagno, ma non ci riuscirà e sarà
l'ultima cosa che lega i due sposi. Del resto il balivo lo
"pronosticava".
A Carlomagno vengono separati, imprigionati in due luoghi
diversi.
Pascal venne poi condotto a Roma "a piedi, in un
viaggio estenuante che durò quasi un mese",
nonostante avessero potuto farlo arrivare a Roma, via mare, in cinque giorni.
Quella fu proprio una tortura inutile.
Nella capitale, dopo altri due mesi di interrogatorio e di
torture viene condannato ad essere arso vivo.
Saverio non ne può più e spera che gli ascoltatori si
accontentino di quello che ha raccontato fino ad ora così da poter finalmente
riposare.
Ma ecco che Fatiha chiede di Sua. Qualche
"pappagallo" le fa eco.
Il poveretto dapprima dice che non sa niente della ragazza;
poi, vista l'insistenza, per soddisfare quegli incontentabili, decide di
ricorrere alla magia. Scelta non del tutto gratuita, in fondo: le arti magiche
ben s'addicono alla gente di Carlomagno. Cerina, madre di Sua, "la
levatrice, la medicona, l'imbalsamatrice e la profetessa, la cantatrice, riesce
anche a volare e a scardinare i catenacci. Così Sua se n'è andata la seconda
notte in groppa a sua madre".
Dal suo posto di prigionia Pascal non può vedere che la
moglie è stata liberata dai poteri magici della madre; però all'indomani
qualcuno trova il modo di dargli la notizia e lui ne è felice perché sa che la
ragazza non avrebbe potuto sopportare quello che le sarebbe toccato.
Da quel momento la ragazza visse nella palude con i
genitori. Il padre Ruben, "decano della palude", ne è profondo
conoscitore e lì sono al sicuro: "nessuno ha voglia di andare [in quei
luoghi], nemmeno in nome di Dio".
Si cibano di pesce crudo, di miglio selvatico e dormono "sul sacco delle
proprie robe".
Allo scadere dell'anno Sua diede alla luce un bambino cui fu
imposto il nome di Pascal; lo battezzò il nonno con l'acqua pura di una gora.
Così dunque Sua era incinta prima dell'arresto. Pur sapendolo già durante il
viaggio di ritorno per Carlomagno, non l'aveva rivelato al marito non volendo
"intenerirlo troppo".
Passò così un altro anno dopo di che la giovane andò a
riprendere, con gran fatica, il materiale per stampare, nel pozzo dove
l'avevano nascosto. Il viaggio di ritorno da quel luogo fu ancora più faticoso
per via del peso recuperato; ma ci voleva ben altro per far recedere Sua dai
suoi propositi.
Nel frattempo Ruben, il padre della ragazza, decise che
ormai avrebbero potuto tornare tutti e quattro alla loro casa senza pericolo.
Così fu fatto. Ma Sua preferì lasciar passare un altro anno e, dopo tale tempo,
iniziò a darsi da fare affinché il suo sogno si realizzasse. Dalle lenzuola
ricavò carta, come le avevano insegnato, mentre Ruben fabbricava un torchio. In
tali impegni trascorse l'autunno, venne il gelo e poi il disgelo. Ed il decano
della palude, che sapeva parlare alle rane e a tutti gli esseri acquatici,
cantò la canzone dell'amore degli alcioni; canzone che a Carlomagno annunciava
l'arrivo dell'"estate del martin pescatore".
Allora Sua prese il bambino tra le braccia e pianse un poco
nascosta tra la sua tenera carne [...]. Pianse solo il tempo necessario perché
la nostalgia del suo uomo, [...] che si era preso il primo giorno degli amori
degli alcioni di tre inverni passati, la smettesse di continuare a bruciarla.
Questo passo del racconto di Saverio ci ricorda che la
natura, nella sua ineluttabilità, pretende dai suoi figli la perpetuazione
della specie: la vita, nel suo perenne divenire, non deve presentare vuoti.
Tutti noi, a fianco di un tappeto semovente, siamo chiamati a provvedere a
questa continuità senza soluzioni.
Anche Sua ha compiuto il proprio dovere verso la vita ed ora
può dedicarsi al suo sogno. Durante una notte, al lume della lanterna cieca,
pescò nel sacchetto dei caratteri e "Prima del mattino c'erano sulla forma
già parecchie righe di piccoli segni che brillavano debolmente sotto la luce.
Provò a rileggere, e faceva una gran fatica".
In caratteri gotici Sua si accinge a scrivere la storia di
Carlomagno facendola partire dall'avvento del "signor Cristo", amico
dei derelitti, degli oppressi. Questo è l'inizio: "Per mano dei servi di
Roma il signor Cristo patì sul Golgota un grande tormento […]",
continuando per poche righe ancora, sempre in uno stile adeguato.
Saverio stavolta, è chiaro per tutti, ha proprio finito la
sua storia, ed i presenti si sentono orfani, orbati di una evasione benefica,
corroborante. Qualche sospiro si leva all'intorno e poi la frase colma di amarezza:
"Hai proprio finito Saverio, puttana Eva."
Sì, Saverio ha finito. Anche per lui ormai è finita ogni
evasione: un incidente grave dapprima, una grande fatica fisico-mentale in
seguito hanno dato alla sua esistenza uno scopo, forse addirittura una giustificazione.
Dopo queste pause il districare la mente dal torpore catartico e riproiettarci
nella piattezza del quotidiano punteggiata della paura del vivere, richiede
sforzo. Saverio riemerge ‑ e ci fa riemergere ‑ con una delle tante
immagini poetiche usate nel suo percorso narrativo: "Dalle finestre
spalancate la luce biancocammello del primo mattino risucchiava i vapori densi
della sala, così che il Diwan Nabil stava riprendendo un aspetto terreno."
Dopo i voli lirici nel mitico fantasioso si ritorna
malinconicamente nella realtà. Forse occorre essere ginn ‑ come lo
fu il poeta Ungaretti la cui dipartita ha lasciato un vuoto insospettato in
Saverio ‑ per trovare la strada giusta da percorrere. Ma qual è la strada
giusta: quella che ha intrapreso chi "non c'è più o quella di chi è sempre
stato "un pettirosso da combattimento"?
Quattro parole queste di grande suggestione con le quali si
chiude il lungo racconto di Saverio Pascale. Racconto che è lo spaccato d'una
vita trascorsa nel tormento dell'inquietudine, della ricerca, delle
disillusioni proprie di coloro che non si rassegnano a "viver come
bruti". Ma i "pettirossi", si sa, sono destinati a morire sul
campo di battaglia senza mai nemmeno sfiorare la palma della vittoria.
Prima parte ‑
seconda parte