Il coraggio del pettirosso di Maurizio
Maggiani ‑ prima parte
Feltrinelli, 1995
Prima parte ‑
Seconda parte
Saverio
Pascale, un giovane figlio di immigrati ad Alessandria d'Egitto (dove egli
nasce), si trova quasi costretto a ricostruire la storia della sua famiglia.
Dal padre, acceso libertario e cultore della poesia
ungarettiana, trae spunto e forza per compiere questo viaggio a ritroso nel
tempo; in ciò aiutato dall'instancabile amico paterno, Ruben Battistini, da cui
verrà a conoscenza delle origini del loro paese: Carlomagno. Un paese creato
dalla fantasia di questi emigrati, ma con tutte le caratteristiche di una terra
cinquecentesca di vassallaggio, soffocata dalla miseria e dall'ignoranza nonché
soggetta alle distruzioni e ai massacri propri dell'epoca.
Il coraggio del pettirosso è un libro che impegna,
condotto in uno stile frizzante, da chi sa il mestiere; uno stile senza
sussulti sintattici che obblighino alla fatica dell'interpretazione; ancora:
un'opera dove l'amore del dettaglio, che ci fa camminare, mano nella mano, con
i suoi personaggi, è guida sicura. Per usare una parola sola: godibile.
Mi piace paragonare questo "romanzo di romanzi" ‑
come è stato lapidariamente e felicemente definito ‑ ad una circonferenza
incompleta, presentando essa ampie interruzioni qua e là, la maggiore delle
quali è dove dovrebbe venire la saldatura, che corrisponde cioè all'ultimo
reincontro di Saverio con Fatiha.
Fatiha, la donna del cuore, le cui esperienze di vita, così invasive,
devastanti, ne hanno fatto un meraviglioso frutto inquietante, assai difficile
da cogliere e da conservare. Un reincontro d'obbligo ché questo personaggio,
pur non occupando lo spazio che occupano, nella vicenda narrata, altri
personaggi, è di uno spessore tale che non avrebbe potuto uscire di scena alla
chetichella. Il loro nuovo avvicinarsi è fluido e dà vita ad un finale di
classe, dove ci è risparmiato l'offensivo "e tutti vissero felici e
contenti".
Un finale, tuttavia, che esercita su di noi un effetto
destabilizzante: il giovane protagonista, che pure è molto preso da questa
donna, riduce malinconicamente l'amore quasi soltanto al puro atto sessuale.
Una riduzione che convoglia tutto all'istinto di conservazione della specie:
"Gran bella cosa l'amore: è l'unica vera sosta dal vivere che l'umanità
conosca; è un attimo di pausa prezioso che ognuno può permettersi".
Una pausa da ripetere alla prima occasione, senza obblighi di continuità verso
nessun partner. Lui la sua pausa corroborante l'ha avuta ed ora la giovane è
libera di andarsene o di rimanere; non ha importanza nemmeno il conoscere se il
figlio che lei sta costruendo è suo o di qualcun altro.
La sfiducia nella vita è a tutto tondo, direi. Ogni ideale è
qualcosa da dimenticare, da debellare, anzi, perché troppo dura ‑ e
vanificata dal quel vento crudo che si chiama realtà ‑ è la lotta per
trovare la "propria parte di Dio o di anarchia".
Il coraggio del pettirosso ‑ romanzo intimista ‑
è un edificio dall'architettura imponente dove la valenza onirica gioca un
ruolo sostanziale. Difatti il tessuto connettivo di buona parte del libro è
l'immaginario sotto forma di sogni. Ma sono sogni particolari quelli del
protagonista, sogni che si potrebbero definire indotti ‑ più o meno
direttamente ‑ da un'embolia da risalita troppo veloce dal fondale
marino, dove più volte Saverio Pascale era sceso per ritrovare il
"suo" porto sepolto.
I sogni, si sa, si svolgono sempre con consequenzialità
d'azione ora logica ora irreale. Tuttavia in essi hanno grande peso gli
accadimenti del nostro vissuto. Così è anche per Saverio, che sogna una vera
storia a puntate, dove incontriamo il suo immaginario influenzato profondamente
dai vividi fantasiosi racconti dell'amico tipografo, coesi dalle nozioni
storiche e geografiche. Inoltre non incontriamo forse gli stessi nomi del suo
quotidiano? Difatti ecco Secondo, "l'iroso fabbro" di Carlomagno;
Ruben, padre di Sua; Xavier, che non è altro che la traduzione di Saverio; il
"prete spretato Guglielmo" che corrisponde al prete Villelmo.
L'attività onirica ha grande importanza, si è detto,
nell'opera di Maggiani, ma qui siamo ne Il libro di Pascal, dove Saverio
è ben sveglio. In queste pagine vediamo che l'uomo e la natura vivono ancora
gomito gomito. L'uomo la rispetta integralmente, non tanto per nobiltà di
sentire, ma perché istintivamente capisce che essa è una nutrice inesauribile e
indispensabile. Possiamo dire che quegli esseri non si sono ancora resi
completamente conto di fino a dove riesce a giungere la potenza del pollice
opponibile. Comunque diciamo che qui, più che altrove, incontriamo sprazzi di
commovente poesia. Due esempi: "Boschi di antichissimi faggi felpavano il
passo per una lega di blando cammino".
"[…] cespaie di cardo, alla cui vista il mulo illanguidiva di voglia e
scalciava di piacere."
Qui l'autore ci ha fatto uscire dall'atmosfera rarefatta dei
sogni fatti in ospedale, tuttavia sentiamo la presenza latente dell'onirico
nella forma di fantasiosi racconti o del comportamento di alcuni personaggi
principali. "Avere troppa memoria non deve essere una cosa riposante",
meglio dunque fantasticare piuttosto che ricordare. Il ricordo può essere
dolorosa nostalgia. Ruben ne è convinto perché poco prima ha dichiarato:
"Avere troppa memoria non fa star bene nessuno."
Saverio è un giovane che conduce una vita normale: svaghi,
ragazze quando capita, affetti, studio; tuttavia in lui c'è qualcosa che lo
spinge in una pulsione mai analizzata, verso una meta: "il porto
sepolto".
Un porto che deve esserci per forza dato che se ne sono
interessate "fior di missioni archeologiche […]: inglesi, francesi,
italiane. E il fiore dei tombaroli di tutto il Mediterraneo: greci, siriani,
ovviamente gli stessi egiziani. Il porto c'è, […] lo hanno giurato anche grandi
studiosi e illustri delinquenti internazionali."
Saverio non appartiene a nessuna di queste categorie; in lui
c'è solo la tensione verso un ideale mai ben identificato di cui il "porto
sepolto" diviene il simbolo tangibile. È un seguire le orme paterne.
Giovanni Pascale perseguì per tutta la vita, pagando di persona, l'ideale
libertario; ma il figlio non può farlo suo, metabolizzarlo; gli servirà però da
catalizzatore.
L'opera di Maggiani è tutto un intreccio di accadimenti e di
tematiche dove agiscono personaggi di grande spessore, sbalzati incisivamente
talvolta con poche parole in un gioco di felice creatività: "senza peli
sulla lingua e senza un briciolo di letteratura per la testa";
"sembrava più vecchio di un sasso";
"non era alta, ma ogni parte del suo corpo era fatta per spingerla in
alto, all'altezza di chiunque le si parasse davanti."
E così via.
Un intreccio corposo, dunque, abbiamo detto, dove le
scansioni temporali e logistiche che fanno da pavimento all'edificio un poco
rallentano la lettura, ma mai fanno nascere il desiderio di demordere dal
proseguire, facciata dopo facciata, con convinzione.
In genere, quando ci si accinge a leggere un romanzo, ci si
chiede in quale misura sia presente l'elemento autobiografico, poiché nessun
autore può essere totalmente esente dall'autobiografismo. A giustificare tale
interrogativo c'è poi la tecnica adottata da Maggiani ‑ ben sapendo
peraltro che essa non fa garanzia ‑ la quale è quella dell'io narrante.
Nel caso specifico però c'è anche la presentazione anagrafica che lo scrittore
fa di sé, puntuale come una dichiarazione burocratica. La quale ha un'eco: fa
sì che l'approccio acquisti un sapore amicale, piacevole, anche se siamo consci
della sua ininfluenza sul valore dell'opera. Uscendo dai nudi dati anagrafici,
l'autore amplia le informazioni personali portandoci con sé in modo
accattivante.
I suoi genitori ‑ al tempo degli eventi narrati la
madre era già morta da tempo, massacrata per un abbaglio durante i moti
studenteschi contro re Faruk ‑, assieme ad un gruppetto di compagni, si
rifugiarono ad Alessandria d'Egitto, dove il narratore nacque.
Tale gruppo perseguì per tutta l'esistenza, un'ideale di
libertà: l'utopia anarchica. Nell'estate del 1945 esso fu fatto scendere dalle
montagne, ove era salito nel 1943, con grande spiegamento di forze,
assolutamente superiore al bisogno, e dopo "un po' di galera […] via,
levarsi dai coglioni di corsa."
Tra parentesi diremo che Maggiani non si fa molto scrupolo
di ricorrere alle cosiddette parolacce ‑ del resto, quelle che usa, termini
italianissimi ‑ ma, considerato il non abuso si può ammettere che esse
non creano disturbo in chi legge.
Dunque quel gruppetto di libertari era indesiderato anche
dalla neonata democrazia? Forse perché era di Carlomagno, un "paese di
gente strampalata, fatta a modo suo, insomma […]. È una tana di anarchici, di
presuntuosoni e attaccabrighe."
Così dirà Ruben Battistini, il più profondo e loquace del
gruppo, a Saverio, per istruirlo sul loro paese d'origine, dato che il padre
del ragazzo non ne parlò mai. Carlomagno, dove chi se n'è andato non può più
tornare e vive qua e là, sparso per il mondo tormentato dalla nostalgia. Voglia
di protagonismo da parte del tipografo Battistini? Desiderio, meglio, bisogno
di consolidare ricordi forse un po' troppo liberamente rielaborati con passione
partigiana, per mantenere vivo il senso di origini ben saldate a radici certe?
È lecito pensarlo, poiché il ritratto morale che egli fa dei suoi compaesani in
genere e dei suoi compagni di fede in specie, si attaglia ad un anarchico
insofferente di ogni autorità costituita; ma oramai non più a quegli innocui
individui che vivono tra El Meskin e il Diwan Nabil, tutto sommato bene
inseriti nel nuovo contesto sociale. Caso mai poveri leoni che hanno perso
artigli e criniera però orgogliosi e memori di averli posseduti.
Ruben e il fratello Amos, tipografo anche lui, sono quelli
più vicini al protagonista, pronti a consigliarlo per il meglio, a proteggerlo.
Tra i due, Ruben, di un bel pacchetto d'anni maggiore di
Saverio e sognatore incallito, è quello che si fa un punto d'onore di informare
e istruire il giovane forzandolo a credere nella sacralità della loro
condizione di conterranei: lunghe dissertazioni accalorate, convinte, su quel
borgo fantomatico che vive tagliato fuori dal resto del mondo dalla "Via
Romana", lo spartiacque inesorabile che fa di Carlomagno un borgo
dimenticato, chiuso in se stesso, magari un po' ottusamente, ma conscio di una
dignità da mantenere alta, premio sufficiente ad ogni rinuncia. Carlomagno che
venne distrutto dalla furia imperialistica dell'antica Roma, ma che si riprese
per quei due o tre sciagurati sopravvissuti, non si sa bene come, i quali poi
si moltiplicarono.
Ma in seguito quel borgo disgraziato venne offeso
tragicamente anche dal terremoto della Controriforma nonostante la caparbia,
ingenua, mai discussa fede nel "signor Cristo", veduto sempre nel suo
rassicurante ruolo di salvatore e consolatore, sia pure in un modo ingenuo ed
istintivo, proprio del debole, del miserabile.
Dunque papà Giovanni non parlò mai di Carlomagno; parlò
invece continuamente dell'anarchia a cui il tempo trascorso, le vicende
susseguitesi non riuscirono mai ad appannare la lucentezza. Per corroborare la
forza apologetica del suo dire, corredava la favoletta del piccolo, tenace,
furbo pettirosso con un dogmatico: "Noi siamo pettirossi, Saverio."
Se non la causa precipua, le istanze dell'amico Ruben e del
padre saranno almeno una tessera importante nel mosaico del fastidioso stato
conflittuale di cui il giovane avverte vagamente la presenza.
In fin dei conti che cos'è quest'anarchia? "Una zia
lontana e buona"
È ancora il tempo delle domande-aborto che però preludono a qualcosa di più
serio. Più avanti farà dire al monaco etiope Azena "magro come una
cavalletta prima della stagione verde": "L'anarchia non è altro che
Dio con qualche problema di identità."
Dichiarazione inquietante a dir poco, che lascia il suo segno. Il monaco Azena:
altro personaggio che ben si inserisce nella ricca galleria. Con lui Saverio
passerà più di trenta giorni, ospite del monastero di Abu Makar nel deserto.
Vuole lumi sul documento che lo tormenta sempre. Purtroppo, nonostante la sua
incredibile cultura, nemmeno il giovane monaco riuscirà a soddisfare le
esigenze di Pascal.
Un brutto giorno il padre di Saverio viene a mancare, rubato
proprio da quel mare che il giovane ama sopra ogni cosa. Quel mare immergendosi
nelle cui acque si sente veramente libero da ogni soma, così come quando
ascolta la musica: "musica e nuoto", azioni cataboliche che lo rendono
sereno: "Io non so stancarmi del nuoto: è la felicità del mio corpo […]. E
ho l'orecchio sempre intasato di musiche […]; onde che schizzano spuma da tutte
le parti."
Al padre era bastato il quartiere del porto, quello cioè di
tutti "i transfughi del mondo" e il "caffè dei compagni",
assieme al suo lavoro di fornaio. Saverio invece trova un buon appagamento nel
mare, che non è solo nuoto, è anche immersioni reiterate alla ricerca del
famoso "porto sepolto". A sua insaputa qualcosa lo spinge a ricercare
di quel luogo arcano, da cui si aspetta la spiegazione del senso della vita.
Il padre dunque non c'è più e Saverio, con l'aiuto degli
amici, riesce a vendere il forno acquistando in tal modo quell'indipendenza
economica che gli permetterà di compiere il viaggio in Italia, tanto
caldeggiato da Ruben che vuole avere notizie di Carlomagno.
Meglio una volta vedere che cento sentire, canta un
proverbio russo. Giusto: quando avesse potuto vedere con i propri occhi quel
luogo pieno di stranezze avrebbe avuto la possibilità di decidere da sé se
continuare a lasciarsi invadere la coscienza da un'eredità così ingombrante o
liberarsene. Eredità il cui ingombro viene accresciuto, in un prosieguo di
tempo, da un ritrovamento carico di significato, anzi, sconvolgente. Nel
mettere mano alle carte di suo padre gli capita di trovarvi un "libro non
grande né spesso". Si tratta de Il porto sepolto di Giuseppe
Ungaretti.
Come, suo padre che leggeva poesie, ma soprattutto le poesie
di "quello là"?! E forse le lesse anche sua madre.
Saverio è basito. Dopo qualche giorno dal ritrovamento, si
porta il libro incriminato sulla spiaggia. La sensazione a quel contatto è di
schifo e lo butterebbe "tra le dune se non avesse implicato qualcosa di
mio padre e del mio amore per lui. […] Nell'aprirlo la prima occhiata mi era
andata a sbattere sulla firma di Benito Mussolini […]; c'era un saluto del capo
del fascismo al poeta."
D'altra parte se suo padre s'era tenuto per tanti anni quel libro nel cassetto
lui decide che può tenerlo "almeno in mano".
Perciò lo sfoglia, legge due o tre poesie e, suo malgrado,
viene preso da quell'afflato poetico che per ciascuno di noi ha un linguaggio
diverso, potremmo dire personalizzato, per usare un termine corrente e
inelegante. Così trova che la poesia "è carogna giocosa e ballerina,
dispettosa, aspra in bocca come datteri acerbi, e profumata come l'oleandro
rosa del deserto, insopportabile e leggera, cattiveria e nostalgia".
Non si può certo negare che il nostro autore abbia confezionato una definizione
originale della poesia.
Saverio in ogni modo sente una gran rabbia contro quello
sconosciuto ‑ "fascista per di più ‑ che con una trentina di
parole e anche meno si era permesso il lusso di schiavardarmi il cervello, o
magari l'anima, per strisciarmi nei pensieri e nei sentimenti come fosse casa
sua."
Però si accorge che tenersi quel libro in segreto gli pesa;
tuttavia, per rispetto, non ha il coraggio di disfarsene in malo modo. Alla
fine quel peso che lo inquieta tanto non è più sopportabile, per questo prende
la decisione di mostrare il corpo del reato ad Amos.
L'amico sfoglia il libro, lo trova buono, ma non ha la
stoffa per esprimere un giudizio: lo passerà quindi a Ruben.
Quest'ultimo ne conosce già il contenuto: ha letto quelle
poesie. Ciò che lo meraviglia è l'edizione rara: non l'aveva mai vista. Dopo
tali parole, rassicura Saverio: in fin dei conti perché Giovanni Pascale non
avrebbe dovuto leggere poesie?
Il giovane non si convince facilmente e ribatte: "Ma
quello lì era un fascista, Ruben. Me lo avete detto voi. Mio padre, figurati,
non voleva nemmeno sentir dire la parola. Non credo ci capisse di poesia da
fare dei distinguo."
Distinguo, termine che, in questo caso, si può leggere nella
sua duplice valenza: come discernimento tra la poesia vera e la paccottiglia,
l'una; come riconoscimento dell'universalità dell'arte in genere, della poesia
nello specifico, che trascende le ideologie professate dall'artista il quale,
quando lo è veramente, si pone al di fuori e al di sopra di tutto il resto, l'altra.
Prescinderemo dal fatto che non è azione facile quella di
operare una scissione tra l'uomo e l'artista. Non sempre il comportamento
immorale, o anche solo amorale, di un artista riesce a non far capolino e ad
interporsi in modo negativizzante tra autore e fruitore.
Intanto Ruben, con il suo fare serio, quasi cattedratico,
spiega che il grande Ungaretti forse qualche volta andò a Carlomagno e Giovanni
Pascale magari lo conobbe, gli parlò nel suo modo semplice e schietto, così il
poeta gli fece regalo del libro, senza scrivere la dedica. E questo dono
conservato era il mezzo bastante all'amico Pascale per non dimenticare
Carlomagno; perciò non aveva mai sentito il bisogno di parlarne.
Anche il ritrovamento così conturbante del libro, dunque, è
legato a quel borgo carico di mistero: ormai Saverio non può più esimersi dal
partire per l'Italia.
È caduto cacio sugli gnocchi per il facondo Ruben che si
sente addirittura chiedere da Saverio di istruirlo un po' sulla terra di suo
padre. La lezione sarà lunghissima, interrotta da qualche pausa, la più ampia
delle quali è rappresentata dal tempo impiegato per consumare la cena nel
vicolo: loro due più Amos.
Tra l'altro, dunque, Saverio viene a sapere che "Era un
popolo quello Apuo che abitava la valle di un dolce grande fiume, […] un popolo
di bestie senza una città e senza una scrittura; per questa ragione non c'è mai
stato nulla in nessun luogo che parlasse di loro."
Roma intanto aveva messo gli occhi su Carlomagno, ma quella
gente, che non era fatta di "veri uomini, quanto piuttosto di mostri
selvatici e indecifrabili",
rifiutò di parlamentare, quindi non accettò il vassallaggio proposto. Fu un
peccato perché i romani procedettero "come di consueto in queste faccende
di insubordinazione."
Si fece terra bruciata nel vero senso della parola, cosicché "gli Apui si
fecero ancora più lupi di com'erano e si issarono sulle montagne più impervie e
resistettero. Durarono a guerreggiare duecentocinquant'anni",
ma alla fine
gli stolidi Apui, gli abominevoli rigettatori della clemenza
di Roma vennero debitamente sterminati. […] Ogni accorgimento fu approntato
perché non rimanesse nessuno, non un bambino, una puerpera, un vecchio che non
fosse stato toccato dalla mano della vendetta. Per chi ne uscì vivo fu
organizzato un convoglio in catene, per consegnarlo, possibilmente con ancora
un po' di fiato nell'anima alle miniere di rame nel Sannio, all'altro capo
dell'Italia […]. Eppure […] qualcuno era ancora rimasto. Gli storpi, qualche
canaglia di pelle dura inebetita e resa pazza dagli stenti, qualche donna
graziata dalle sue tenerezze a buon rendere.
Ruben continua:
Quel suo nome, Carlomagno, è venuto al paese ovviamente
molto dopo queste cose che ti ho detto, anche se il perché e il percome la
gente incastrata in quel borgo sciagurato potesse essersi invaghita di un nome
così pomposo non c'è scritto da nessuna parte.
Le lezioni tenute da Ruben a Saverio su Carlomagno, hanno
portato un cambiamento nell'intimo del giovane. Del resto, se non fosse stato
questo, sarebbe stato qualcos'altro tenendo buona la sua malinconica,
frustrante confessione, quando si paragona ad Amos ‑ e a molti altri come
lui ‑ che, anche se il mondo gli crolla addosso, non batte ciglio:
"C'è gente invece che non sa sopportare i più piccoli terremoti che la scuotono
dentro, gente che si abbandona alle sensazioni e alla fine è schiacciata sotto
il peso della sua sensibilità. […] Io appartengo a questa seconda
categoria[…]."
Sperando in una pacificazione di se stesso, Saverio pensa di
compiere un viaggio nel deserto; questo luogo così particolare, ostile, che
respinge ma attira allo stesso tempo come tutto ciò che contiene una latente o
patente sfida. Luogo che, nel caso del nostro protagonista, può avere poteri
catartici. Quindi noleggia un'asinella e parte tranquillo. Non è che sia un
fatto eccezionale da quelle parti un viaggio nel deserto; molti ci vanno.
"Fino a poco tempo fa per i giovani della religione copta era addirittura
obbligatorio."
"Il deserto è bello, un posto incredibilmente pulito e puro. Nulla ci può
marcire lì: se una cosa muore si mummifica immediatamente e si pietrifica. […]
E anche il sole è puro e mite, è un padre che insegna, dolcemente severo, a
rimanere nell'essenziale e a disperdere tutto il superfluo."
Durante il viaggio, senza una meta precisa, Saverio si gode
il silenzio e le fitte stelle notturne, le soste, i pasti e la compagnia della
sua cavalcatura, servizievole ma fiera, non bovinamente sottomessa, totalmente
conscia della sua "asinità". In queste condizioni si spinge fino a Siwa
dove si ferma qualche giorno, ma da cui parte molto scontento.
Ed ora eccolo di nuovo a casa irrequieto più che mai. Che
fare? Bene, È proprio arrivato il momento di partire per l'Italia, dove
finalmente potrà conoscere Carlomagno.
Saverio dunque parte, ma si fermerà a Roma senza poter
vedere Carlomagno. Nella capitale, per una di quelle incredibili coincidenze di
cui è piena la vita, incontra il poeta Ungaretti che gli passa un antico
documento concernente l'esecuzione capitale per rogo di un certo Pascal
"il quale era luterano perfido".
Saverio legge e rilegge il vecchio pezzo di carta, poche
righe. Il "bruciato" si chiama "Pascal con della roba sporca
dopo la l, una merda fossile di mosca, o la traccia di un'antica caccola
di scrivano, che impediva di capire se ci mancava qualcosa o finiva tutto lì.
Pascal, che averci il coraggio di grattare quella porcheria, poteva diventare
benissimo Pascale o rimanere Pascal; che era anche meglio, a ripetermelo in
cuor mio."
Oramai quest'uomo ("la cenere di detto non si ricolse
altrimenti")
ha imprigionato Saverio in tutte le sue fibre, perciò deve saperne di più
poiché non ha alcun dubbio che quello sia proprio un suo avo. Del resto il
poeta, nel biglietto che accompagnava il documento passatogli, fu più perentorio
che invitante; difatti aveva scritto: "Le allego qualcosa che ella spero
sappia usare più utilmente di me stesso."
Per queste ragioni unite, appena tornato ad Alessandria,
Saverio Pascale si mette a rovistare in molti archivi e in molte biblioteche;
purtroppo però non viene a capo di nulla. Compirà pure un viaggio nel deserto,
con un breve soggiorno in un monastero che gli frutterà il proficuo incontro
con il monaco Azena, già qui menzionato. Proficuo incontro ma non per quanto
riguarda il documento. Tuttavia, se non ricava nulla dal puntiglioso ricercare,
il suo immaginario che si concreta nei sogni tanto cari al dottor Modrian,
riuscirà a dar corpo ad un Pascal completo, affascinante nella sua imponente
figura, anche se deturpata, in certo qual modo, da una sottomissione che non
conosce manifeste ribellioni. Azione demiurgica, quella del giovane Pascale,
impostagli dal documento che gli brucia sempre addosso.
Pascale, a causa di quell'embolia, è sempre rinchiuso nella
clinica, affidato alle cure del dottor Modrian che lo sprona a scrivere con
esattezza tutto quello che sogna. Una terapia, secondo lui, che può solo
portargli giovamento.
Possiamo leggere una garbata parodia della cura
psicanalitica in cui il giovane non crede. Dopo mesi vuole andarsene da lì
constatando che non riscontra alcun miglioramento. La sua è un'"abulia
estrema"; rifiuta persino di ricevere i suoi due più cari amici, i
fratelli Battistini, che si recano in ospedale di tanto in tanto.
Ma ecco inaspettatamente il colpo di reni provvidenziale:
forse è la visita di Fatiha, che porta con sé il suo amore ambiguo, a farlo
decidere.
La robusta Remington, con la quale ha scritto
puntigliosamente tutti i sogni fatti, vola dalla finestra: primo colpo deciso
di vanga per smuovere una pericolosa posizione di stallo. Oramai ha deciso:
lascerà la clinica sotto lo sguardo grondante dispetto del dottor Modrian. Ma
se ha buttato la macchina per scrivere non si libererà di quanto ha scritto. Di
ciò che ha così diligentemente fissato sulla carta non può liberarsi perché lo
sente parte integrante della sua vita stessa, dato che in quei fogli
"tranquilli […] non si nasconde nessuna intenzione più nobile di quella di
sopravvivere."
Con questa cinica dichiarazione Saverio ripudia quella
"ventina di pagine scritte a macchina"
prima dell'incidente, in obbedienza all'invito o all'ordine, del poeta di fare
buon uso del documento passatogli. Oltre non ha saputo andare. Del resto che
cosa avrebbe potuto dire su Pascal che non era "niente di più della nota
spese della sua morte"?
Senza contare che lui non è altro che un "mezzo ingegnere e mezzo storico
degli incendi umani, mezzo egiziano e mezzo italiano, o, meglio, mezzo apuo e
mezzo niente."
Prima parte ‑
Seconda parte