Rosaria
– Ti prego, scrivi un libro sulla mia bambina, tu che sei
brava. –
– Ma no, che dici. Non sono in grado di scrivere un libro. –
– Non ti credo. È perché non vuoi aiutarmi: non sai quanto
conforto mi darebbe?! –
Il cuore mi diventava angosciosamente piccolo davanti a
questo dolore mugolante, oscuro, al di là dell'umano. Non osavo alzare lo
sguardo: ero sicura che quel volto, disfatto dalla disperazione, mi si sarebbe
sfaldato davanti per la mia incapacità di arrecare conforto. Vedevo in esso
un'accusa che non riuscivo, contro ogni logica, a non sentire meritata.
Rosi tornava alla carica ad ogni incontro, tenace,
martellante, ossessiva:
– Ti prego, scrivi un libro sulla mia bambina. –
– Vedi, cara, lo farei con tutta l'anima, credimi, ma per
scrivere un libro occorrono tanti elementi; proprio come tuo marito che, per
costruire un mobile ha bisogno, oltre che di capacità, anche di arnesi e di
legname. –
– È qui che ti sbagli. Tu non ci credi, ma la mia bambina,
anche se aveva solo quattro anni, ha lasciato dietro di sé tanto, tantissimo.
Era molto intelligente; lo dicevano tutti; ed era sensibilissima. Lei parlava e
pensava come un adulto. Ti potrei raccontare tante di quelle cose da riempire
altro che un libro! Le ho tutte qui e qui. – Si toccava la fronte e il cuore,
lei, profondissima credente, in un gesto ieratico, compreso, come a farsi il
segno della croce; una croce con due bracci soltanto, ma integra nel suo
straziante significato. Doveva sentirsi tanto vicina a Maria inginocchiata ai
piedi del Figlio.
– Hai capito? Potrei dirti tantissime cose. –
– Non lo metto in dubbio. Ma ammesso per assurdo che io
scriva un libro, chi lo pubblicherebbe poi? –
– Questo non conta. Tu scrivilo! Potresti anche scriverlo
solo per me. –
Fu una tragica fatalità di cui la vita è piena, purtroppo.
La sorella quattordicenne di Rosi aveva portato la nipotina a fare una
passeggiata in bicicletta, sul seggiolino. Il quale, per motivi che rimasero
inspiegati, ad un tratto si era ribaltato catapultando l'occupante a terra, proprio
nel momento in cui passava un carretto carico di blocchi di cemento. Rosaria
finì sotto la sua ruota da cui fu estratta già cadavere, ma con il corpicino
intatto. Come volesse lasciare un ricordo intatto di sé a tutti, compreso il
fratellino Efrem che doveva arrivare da un giorno all'altro.
La madre, come tutte le madri, non appena saputo dell'arrivo
di quest'ultimo, aveva predisposto il suo cuore in modo da fargli posto vicino
a Rosaria. Un amore da dividere in due (così come in venti, ma che sarebbe
sempre rimasto miracolosamente intero, immenso).
Ora però di Rosaria non rimaneva che quella grande
fotografia in bianco e nero, amorosamente incorniciata dal padre, in legno
chiaro, lavorato con le sue stesse mani. Dal riquadro, il musino della bimba,
minuto e spiritoso, seguiva chi lo guardava mediante due tondi occhi neri,
penetranti, vivi, in una specie di sfida. Sfidava la Vita o la Morte?
Infagottata in abiti invernali, a cavalcioni di un cavallo a dondolo, sorrideva
all'obiettivo, con un sorriso che le scavava una fossetta su ciascuna guancia.
Ma un sorriso, considerato a posteriori, il quale pareva raffrenato da qualcosa
che gli impediva di espandersi in una beatitudine incosciente, propria della
sua età: una piccola Monna Lisa.
Non saprei spiegare quale motivo mi spinga, dopo tre lunghi
decenni striati da tanti solchi dolorosi, a prendere la penna per scrivere, non
già un libro come mi venne chiesto con tanta accorata insistenza, ma solo poche
pagine. Forse voglio tacitare un rimorso che, sia pur larvatamente, mi ha
perseguitato durante tutto questo tempo.
Tanti ricordi sono ormai sbiaditi ma, praticamente, mi
accorgo che tutto si impernia su un'unica frase che Rosaria, ripetitiva,
pronunciava con tanta gravità. Una frase che, pronunciata da lei, tutta
effervescenza di vita, acutamente strideva.
Spesso, sempre più spesso, di mano in mano che la sua lingua
acquistava in speditezza e la sua mente in collegamenti dei pensieri, la bimba
soleva presentarsi alla madre con qualcosa in mano: ora un moccichino, ora una
boccetta, ora una scatolina. E presentando l'oggetto pregava: "Mamma,
riempilo di lacrime, per piacere."
Chi può dire che era soltanto una fantasia infantile? Per la
madre, dopo la sciagura, non poteva che essere una premonizione che veniva
dall'alto.
Intanto Efrem cresceva magnificamente, mentre Rosaria
guardava sempre dalle fotografie riprodotte in più esemplari e sparse nelle
stanze. Guardava e sorrideva in quel suo modo sibillino. Ma ecco che la madre
credette di poterlo finalmente decodificare. Esso voleva dire: "Io sono
Efrem e Efrem è me, anche se tu continuerai ad avere due figli."
Una spiegazione forse più sibillina del sorriso stesso, ma
le leggi dell'amore e del dolore sono diverse da quelle che regolano la
ragione.
Tratto da Celeste Chiappani
Loda, Nodo scorsoio