Intervista al calciatore Simone Boldini
13 agosto 2005
Il calciatore Simone Boldini, mio cugino in secondo grado,
ha acconsentito a rilasciarmi un'intervista.
Simone, si può dire che quanto ci accingiamo a fare è almeno
strano. Io, che intorno al calcio so soltanto che esiste un pallone il quale
deve essere calciato in una specie di gabbia aperta chiamata porta per far
segnare un punto a una delle due squadre che giocano, eccomi a formulare
domande riguardanti questo sport. Immagino che la realtà calcistica - come
tutte le realtà, del resto - sia molto complessa; vuoi per la rigorosa
disciplina indispensabile che regola gli allenamenti, vuoi per la tecnica del
gioco, vuoi per l'intreccio d'interessi che gli ruotano intorno. Ora passiamo
alle domande con la speranza di formularne di sensate. Iniziamo con la più
ovvia: quando ti è nata l'idea di intraprendere l'attività calcistica?
Durante la mia adolescenza - a cavallo degli anni '50-'60 ‑
i ragazzi giocavano al calcio, negli oratori soprattutto. Il tennis e lo sci
erano sport per vip, mentre la pallacanestro era solo agli inizi. Il pallone, a
quell'epoca, era un involucro contenente una camera d'aria gonfiabile, munito
di uno spacco tenuto da lacci, come fossero stringhe. Se si colpiva in quel
punto, il piede si gonfiava per l'impatto. Si giocava negli oratori, come ho
detto, ma anche in strada (non c'era certo il traffico che c'è adesso) o in
qualsiasi altro luogo che si prestasse, segnando le porte con i nostri
indumenti che ci toglievamo di dosso. Un talent scout mi scoprì e mi propose di
giocare nel Mairano (squadra di prima categoria). Accettai e lì sono rimasto
per due anni. Verso i quattordici anni, essendo tra i più bravi, feci dei
provini. Prima nel Brescia, poi nella Cremonese, nel Milan, nel Torino e nell'Atalanta.
Dato che il Milan offriva qualcosa in più, il mio allenatore mi cedette a
questa squadra.
Ti è capitato qualche volta di pentirti di avere scelto questa
carriera?
Mai; è una realtà nella quale ho creduto con tutto me stesso
e nella quale ancora mi identifico. Ci credo talmente tanto, che nella scala
dei valori la metto al pari della famiglia.
Hai ricevuto più delusioni o più soddisfazioni dalla tua
attività?
Un po' di delusioni senz'altro, ma sappiamo che in tutti i
lavori ci sono alti e bassi. Nel complesso direi che sono soddisfatto poiché,
oltre al resto, mi ha permesso di assicurare alla mia famiglia una certa
agiatezza.
Hai tre figlie, ma se avessi avuto un figlio l'avresti
incoraggiato ad intraprendere, o avresti desiderato che intraprendesse, la tua
carriera?
Indubbiamente un figlio che facesse il calciatore sarebbe
stato assai gradito: gli avrei passato la mia esperienza, il mio entusiasmo;
ora ci godremmo insieme le partite a cui assisteremmo. Purtroppo con nessuna
delle mie figlie posso fare questo; e nemmeno posso parlare di calcio!
In quali squadre hai giocato come professionista?
La Spezia (serie C), poi Como, Milan, Ascoli, Napoli,
Atalanta (tutte serie A).
Lo sport agonistico in genere ha fini di lucro. Secondo te
sarebbe possibile o auspicabile uno sport puramente amatoriale?
Uno sport solo a indirizzo amatoriale sarebbe impossibile.
Per fare veramente dello sport occorre avere a disposizione molto tempo per gli
allenamenti; e tale tempo, per forza di cose, deve essere retribuito.
Immagino che tra i calciatori di una stessa squadra, per forza
di gioco, debba crearsi un affiatamento profondo, quasi fosse un legame
d'amicizia, ma in ogni circostanza l'uomo rimane quello che è. Può capitare che
tra due o più calciatori nascano antipatie così forti da richiedere grande
sforzo per poterle vincere onde mantenere la compattezza indispensabile
all'interno della squadra?
Sì, può succedere proprio perché siamo esseri umani.
Quando dallo stadio si alza il boato dei tifosi per una rete
segnata, è tutta la squadra che gioisce o è un calciatore in particolare che si
sente protagonista?
Tutta la squadra si sente protagonista; persino chi è in
panchina viene coinvolto, anche se per costoro l'invidia per chi gioca, si fa
sentire.
Qualche ricordo particolarmente gradevole e particolarmente
sgradevole al di fuori delle vittorie e delle sconfitte.
Un ricordo piacevolissimo è quello che riguarda la
promozione del Como, nella cui squadra giocavo, in serie A. Quello
sgradevolissimo riguarda sempre il Como, quando è fallito.
Quando giocavi ti piaceva assistere ad una partita, disputata
naturalmente da altre squadre, come uno spettatore qualsiasi?
Sì, mi piaceva molto perché non ero personalmente coinvolto
nel gioco e potevo godermi quest'ultimo apprezzandone le qualità.
E adesso?
È la stessa cosa. Ho l'abbonamento SKY e scelgo sempre, tra
le partite che giocano, le migliori.
Si sa che per gli sportivi, per gli acrobati, per i ballerini,
la soglia di sopportazione del dolore fisico è più elevata di quella di una
persona qualsiasi. Esistono esercizi particolari per raggiungere questo
livello?
Non esistono esercizi; occorre una grande forza di volontà e
un grande spirito di sacrificio. A proposito di volontà aggiungo che io,
nonostante l'impegno sportivo, non volli abbandonare la scuola, così frequentai
le serali fino al conseguimento di un diploma di scuola media superiore. Gli
aspiranti sono sempre tanti in questo campo, ma moltissimi si perdono durante
il difficile percorso.
Credo che, restando nell'ambito dei professionisti elencati
sopra, costretti a dare prestazioni molto impegnative dal punto di vista
fisico, sia facile che si lascino tentare dalla possibilità di ricorrere alla
droga. Qualche volta ti ha sfiorato questo pensiero?
Ai miei tempi si facevano solo delle flebo a base di
zucchero nei cambi di stagione poiché allora si disputavano molte meno partite
di oggi, quindi lo stress era proporzionalmente minore, così non c'era bisogno
di altri aiuti.
Se fosse in tuo potere farlo, cambieresti qualcosa di ciò che
regola il mondo del calcio?
Cambierei molte cose poiché siamo arrivati ad un incredibile
livello di collasso delle squadre; le tifoserie prendono sempre più piede,
pretendono sempre di più e credono di avere il diritto di compiere ogni atto di
violenza.
A caldo, se ti è possibile, una risposta a coloro che
ritengono scandaloso lo stipendio o il costo di un calciatore.
È scandalosissimo. Bisognerebbe stabilire un tetto
ragionevole degli ingaggi e rispettarlo.
Senza la prospettiva di un lauto guadagno pensi che sarebbe
così alto il numero dei ragazzini che sognano di diventare calciatori di
professione?
Può darsi che i ragazzini non pensino soprattutto al
guadagno; secondo me è la maggior parte dei genitori che ci pensa.
In quale percentuale gli ex calciatori, superati i limiti di
età, diventano allenatori come te?
Diciamo intorno al trenta per cento. Fare l'allenatore è una
meta molto ambita, ma i posti sono limitati. In genere un possibile allenatore
viene scoperto ancora mentre gioca. Per potere poi raggiungere l'obiettivo
occorre conseguire tre tipi di patentini di abilitazione. Terza categoria: si
allena fino alla serie D; seconda categoria: si allenano le serie C1 e C2; per
la prima categoria, che è il massimo, bisogna frequentare un supercorso a Coverciano,
dopo di ciò si possono allenare le serie A e B.
Penso che il passaggio da calciatore ad allenatore rappresenti
un buon surrogato per coloro che hanno trascorso gli anni verdi della propria
vita dando anima e corpo al calcio. Oppure il continuo contatto con un mondo
che si è amato e che si è dovuto lasciare alle spalle è fonte di amaro
rimpianto?
Parlo per me, s'intende. Dirò che preferisco fare
l'allenatore piuttosto che il calciatore poiché lo considero una missione.
Oltre che insegnare la tecnica sul campo mi sforzo di trasmettere dei valori
morali utili per svolgere al meglio la professione di calciatore.