Ad un pastore errante… per la Brianza

Poco verde autunnale, sparso intorno ad un nodo di strade di intenso traffico. Almeno mezza dozzina che si dipartono a raggiera per ogni direzione, compresa una linea tranviaria.

E frenesia di ogni fine settimana: i laghi vicini attendono gli automobilisti impazienti.

Eppure un grosso gregge pascola in un appezzamento incolto, appena al di là di un coltivo, oltre la scarpata. Un gregge folto: duecento o più individui, penso. Un piano ondulato proteiforme di morbide groppe, dal colore indefinibile e peculiare.

Il compito di rompere la monotonia è affidato a due grossi cani e a due asini, quattro macchie scure e mobili.

I due ciuchi carichi trasportano le coperte arrotolate, un paio di pentole capovolte, legate alla sommità del basto e gli agnellini neonati, candidi, teneramente belanti che sporgono la piccola testa triangolare dalle ampie tasche cucite nel telone impermeabile. È un quadro che colpisce come una estemporaneità quasi mitologica, quanto meno anacronistica.

Due uomini spiccano sul lago d’animali; si appoggiano ad un bastone e attendono a che le bestie non sconfinino nel campo di grano che nulla separa dalle stoppie del granoturco ove, ormai, la gramigna, l’agropiro, e la laelia maturi, marezzano un poco squallidi, nascondendo il suolo bruno già intriso del novembre imminente.

Mi avvicino chiedendo il permesso di porre alcune domande, ad uno degli uomini che fuma una sigaretta, assente; è il più vicino; l’altro è lassù al confine superiore del campo.

Il mio interlocutore è un uomo alto e di media età, dal viso reticolato da rughe profonde e dalla pelle molto scura, propria di chi vive prevalentemente all’aperto; potrebbe passare per un lupo di mare.

Ha due occhi straordinariamente celesti, ma seri dove il sorriso pare giungere di rado.

Risponde gentilmente e disinvoltamente ad ogni mia domanda con proprietà di linguaggio pur senza aggiungere nulla di sua spontanea volontà, in un tranquillo riserbo.

Abita a Clusone, ma conosce la campagna a nord-ovest di Milano altrettanto bene che le sue valli. Si potrebbe considerarlo un pendolare stagionale, perché da quarant’anni compie queste migrazioni invariabili.

- Avevo appena finito la quinta elementare quando iniziai a seguire mio padre in questo lavoro, - mi spiega. - Gran brutto lavoro. Nessuno più lo fa oggi, tra i giovani. Ed hanno ragione. Gran brutto lavoro. Da maggio a settembre saliamo all’alpeggio in Val di Scalve, sull’Alpe Veria; da ottobre a maggio, veniamo in pianura, sempre in questa zona. -

Ci penso un attimo.

- Da ottobre a maggio, dice? -

- Sì. -

- Allora c’è dentro la neve, pioggia, nebbie, ghiaccio. -

- Certamente. -

- Dove trovano riparo lei, il suo compagno e i suoi animali? -

- Nessun riparo. Si dorme dove capita. In terra naturalmente. La neve non dà molto fastidio. Più terribile è la pioggia. Ci è capitato di doverci alzare di notte perché durante un acquazzone l’acqua s’era incanalata proprio sotto di noi. Ci si cambia qualcosa, ma chiaramente non possiamo portarci appresso molti indumenti o coperte. Così può capitare di restare con gli indumenti bagnati addosso per più giorni. Un mestieraccio. -

- Noto che i suoi abiti sono puliti. -

- Sì. Ogni settimana, a turno, andiamo a casa per portare la roba sporca e per prendere quella pulita. -

- E la sua famiglia? Non la vede quasi mai. -

- Infatti. Gliel’ho detto: è un lavoro bruttissimo. -

- Ha figli? -

- Una ragazza di ventidue anni. -

- E per il mangiare come fa? -

- Si mangia quasi sempre al sacco. Raramente, quando siamo comodi, ceniamo al ristorante, ma con i prezzi che corrono non si può farlo molto spesso. Bruna! -

È un richiamo alla grossa cagna che si alza decisa e corre verso un punto ben definito. Un montone ha sconfinato e sta pascendosi allegramente delle piccole piantine di grano. Non c’è bisogno che Bruna si scalmani molto: è bastato questo nome pronunciato con quel tono particolare di voce, dal padrone, perché l’animale ribelle si precipiti nel branco. Lo faccio notare al pastore e chiedo se i cani hanno molta importanza nel suo lavoro.

- Moltissima, - assicura. - Se non avessimo i cani sarebbe impossibile controllare un gregge come questo: trecento animali. -

- Qui vedo due cani. Come vengono addestrati? -

- Questi due sono maschio e femmina. Li addestriamo noi allevando i cuccioli, i quali vedono i genitori lavorare e subito imparano il mestiere. -

Pongo ancora domande cui il pastore risponde sempre distaccato e gentile. Abbiamo detto che il gregge è composto di trecento animali tra maschi e femmine; molti maschi verranno castrati. Il "quando" di questa operazione è assai importante.

- Non so nemmeno io il motivo di questa credenza. Ma i nostri vecchi hanno sempre ritenuto indispensabile che si fosse in luna calante e che fosse di venerdì. È una superstizione senza dubbio, ma non c’è ragione perché noi la rompiamo. -

- Sono ancora in molti a praticare la pastorizia? -

- Abbastanza. Una cinquantina tra Val Brembana e Val Seriana. -

- Cammina solo attraverso i campi o usufruisce anche delle strade? -

- Evitiamo le strade; però, quando è necessario attraversarle lo facciamo tranquillamente; anche quelle molto importanti. Gli automobilisti si fermano; non esiste ancora una legge che vieti di attraversare le strade o le città.

- Anche le città? -

- Si capisce. Bergamo la attraversiamo due volte all’anno. Naturalmente lo facciamo di notte. -

Immagino questo fiume vivo e palpitante che si incanala per le vie della città, nel silenzio illuminato dai lampioni. I due asini con il garzone, davanti, il pastore proprietario con i cani a retroguardia.

Città dormiente, ma efficace espressione d’una "vita normale" inserita nel contesto d’una società tentatrice. Deludente, magari, dopo la convivenza, ma pur sempre consorzio costituitosi in obbedienza a fondamentali leggi naturali. Con quale spirito i "miei pastori" se la lasciano alle spalle per immergersi in una solitudine che non è tebaide scelta?

Pensieri miei, che non gli propongo. Invece chiedo:

- Deve avere un grande recinto a Clusone per racchiudervi tutto il gregge. -

- Non ho recinti, né grandi né piccoli. Come le ho detto: d’estate l’alpeggio, d’inverno la pianura. Questi animali non conoscono la stalla. -

Di domanda in domanda vengo a sapere che i pastori sono iscritti alla Federterra; che un gregge come questo può valere sui trenta milioni; che viene tosato due volte l'anno fruttando totalmente tre chili e mezzo di lana pro capite; che la vendita degli agnellini e dei castrati rende piuttosto bene.

- Ma c’è l’aiutante da pagare e da regolare con le assicurazioni. Aggiunga il mantenimento dei cani che non è poco. Gran parte del guadagno se ne va così. Ed è un guadagno molto basso se lei considera i sacrifici che ci costa questo mestieraccio! Una volta si andava meglio, anche se non potevamo permetterci l’asino, che è un grande aiuto come può immaginare. Sono venti anni che abbiamo l’asino. Vent’anni fa, anche quindici, bastava un gregge la metà di questo. Ci si piazzava in una fattoria per quindici giorni ove ci davano la paglia. L'interesse era reciproco: a loro restava il letame e noi, con i nostri animali, si dormiva bene. Poi si parlava con i contadini. Ci si sentiva amici. Alla fine delle due settimane si lasciava un agnellino per compenso. -

- E se lo allevavano loro l'agnellino? -

- Sì, è facile. Bastano quindici giorni di biberon. -

L’altro pastore ha già iniziato a spostarsi. Il "mio" consulta l’orologio.

- Ecco; ora ci incammineremo. Bruna! Alì! -

I due cani partono in direzioni opposte per accerchiare il gregge. Non ce n’è bisogno, come è avvenuto poco fa: già pecore e montoni si spostano verso il pastore che fa da guida.

Mi piacerebbe accarezzare gli agnellini, ma essi scappano impauriti. Così saluto il pastore e rimango un poco ad osservare le sue spalle curve e rassegnate sotto un grave peso.

Uno degli agnellini, sulla groppa dell’asino, bela insistente; il ciuco non ci fa caso e continua a spostarsi tranquillamente; ma la madre-pecora lo tallona, con il muso alzato, rispondendo di tanto in tanto al suo piccolo, in un belato rassicurante, mentre i frutti uncinati della bardana le si attaccano al vello, in un’economia universale della vita.