"Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la
Poesia." Lontani studi sul Leopardi che tornano in mente portandomi a
rivisitare tale suo pensiero. Un pensiero che fu preso come tema e che mi fu
sparato così, ex abrupto, durante i
verdi anni di studentessa e sul quale, ricordo, sudai parecchio per
confezionare uno svolgimento da sufficienza. Non rammento ciò che scrissi
allora, ma questo non ha importanza perché, appunto in seguito alle nuove
riflessioni, di cui ho appena detto, ho trovato una chiave decodificante che
soddisfa le mie esigenze attuali.
Ed è questa: la Poesia, da Omero in poi, non si è
perfezionata per il fatto che non è perfezionabile. Mutò molte volte livrea,
questo sì, nel senso che mutò tematiche e linguaggio per adeguarsi ai gusti che
cambiano con il trascorrere del tempo; ma la Poesia, nella sua essenza, è
sempre uguale a se stessa. Questa la mia conclusione-tesi che ora dimostrerò
rispondendo a due domande sulle quali farò poggiare il seguente elaborato: Che
cos'è la Poesia? Serve essa? La prima domanda come elemento portante, la
seconda come corollario.
Per la prima risposta agevolmente mi soccorre una
definizione che si trova in una vecchia edizione del Melzi Linguistico. Al lemma Poesia si legge: "Alta e nobile
forma della letteratura che esprime i fantasmi splendenti nel pensiero e i
sentimenti ond'è caldo il cuore, avendo per caratteristica quella musicalità e
armonia onde l'unione delle parole è sottoposta alle leggi speciali della
metrica e della ritmica."
Felice definizione che può esemplificare un momento, un
afflato poetico, quindi la Poesia stessa nella sua impalpabile eppure
consistente realtà. Ma a quanto dice il Melzi
aggiungerei che la Poesia è analisi e sintesi di ogni emozione; è spontanea
espansione dell'anima quando questa è sollecitata dalla gioia, dal dolore,
dall'angoscia, dalla pietà, dall'amore; o quando vuol tentare di risalire dagli
inferi.
Ora veniamo alla seconda domanda: serve la Poesia? A rigor
di termini tutto quanto non procura all'uomo ciò che soddisfa i suoi bisogni
primari può essere considerato inutile. "Carmina non dant panem." Infatti, salvo alcuni casi di
mecenatismo nel passato, non mi risulta che esistano poeti che campino la vita
vendendo soltanto i loro versi – Fondazione Bacchelli a parte. Da tale
considerazione ecco l'interrogativo: come mai, malgrado l'improbabile o
impossibile inserimento dell'attività poetica nell'equazione tempo +
forza-lavoro = denaro, ci sono sempre persone che sentono il bisogno di
poetare, magari in modo ingenuo, sgrammaticato addirittura? Ed allo stesso modo
ci si può chiedere il motivo per il quale c'è sempre qualcuno che legge tali
scritti, non perché obbligato ma perché ne sente la necessità.
Ecco, io chiamerei i primi "Poeti attivi", ed i
secondi "Poeti passivi"; due gruppi uniti saldamente da un
denominatore comune: bisogno di Poesia. Questo che ho detto dunque, anche se
applicabile ad una minoranza, è la risposta alla seconda domanda. Sì, la Poesia
serve.
Qui arrivati vorrei operare un distinguo, diciamo pure a
titolo di disquisizione. Nel primo momento la Poesia – come ogni opera d'arte –
è sola con il suo creatore; il suo cerchio vitale è quindi compiuto, ma
limitato; tuttavia, non appena il poeta (l'artista) pensa la parola
"fine", ecco che la creazione diventa patrimonio comune a cui tutti
possono attingere a piene mani senza depauperarla. Dunque sia per il creatore
sia per il fruitore la Poesia può essere considerata un salvagente o un
viatico, anche se debole, lo riconosco, con il quale affrontare la belletta, i
liquami pestiferi ruscellanti lungo la strada a binario unico che siamo
costretti a percorrere. Debole ma sempre salvagente o viatico. Non si ricorre
infatti anche al palliativo quando manca lo specifico?
A tutti sono chiare le condizioni di vita dell'uomo moderno.
Tengo a precisare, a questo proposito, che non sono portata a demonizzare il
presente perché "sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del
mio tempo". Semplicemente mi limiterò a ribadire ciò che tutti sappiamo:
l'umanità, almeno nei Paesi industrializzati, sta vivendo l'era – o l'ora –
della macchina; l'era – o l'ora – della tecnologia, dell'automatismo più feroce
dove il rumore, tra l'altro, ha soppiantato il suono come armonia appagante,
godibile. Non humus quindi ma
pietraia per l'attecchire della Poesia. Eppure essa sopravvive.
Per mio piacere o bisogno, a suo tempo, imparai a memoria
molto di Dante, di Leopardi, di Foscolo e di tanti altri, compresi gli
ermetici, perciò ora non mi serve altro che un piccolo sforzo di concentrazione
per procurarmi una sottile gioia sempre nuova, recitando mentalmente quanto
appresi. Chi può negare le suggestioni, lo struggimento del "Lasciate ogni
speranza voi ch'entrate", delle "chiare, fresche e dolci acque",
di "qual fia ristoro a' dì perduti un sasso", o all'udire
"l'urlo nero / della madre", o nell'immergersi in un "meriggiare
pallido e assorto", o pensare all'angoscioso "si sta come d'autunno /
sugli alberi le foglie"? Naturalmente questi non sono che esempi
ridicolmente scarsi di tutto ciò che i Poeti ci hanno lasciato come patrimonio
inalienabile.
Bene, concluderò con T.S. Eliot che dice: Il poeta è il più
primitivo come il più civilizzato dei contemporanei.
Questo intervento venne letto dall'Autrice sia in apertura
della cerimonia di una delle edizioni del Concorso
Amisani, di cui ella fu per anni membro di giuria, sia durante una serata
di presentazione di alcune opere edite e inedite dell'Autrice medesima, presso
la Biblioteca di Ghedi.