Mio padre, ragazzo del '99

Quanti artisti si sono espressi con dolore, indignazione, sbalordimento, terrore contro la guerra? Tantissimi: penna e tavolozza contro questo inqualificabile comportamento umano, sempre esistito - uomo barbaramente contro uomo - di cui si ha notizia fin da quando si può attingere a documenti scritti. Al di là di ogni valore scientifico per i cristiani l'inizio è rappresentato dalla pietra fratricida nelle mani di Caino. Simbolo funesto a convalida di un incoercibile, inconcepibile, inaccettabile impulso che porterà sempre l'inferno sulla terra.

 

La guerra che verrà
non è la prima. Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell'ultima
c'erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
ugualmente.

Bertolt Brecht

 

FRATELLI

Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante nella notte

Foglia appena nata

Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli.

Giuseppe Ungaretti

 

Solo due nomi tra i poeti (tantissimi sono anche i prosatori) per introdurre uno scritto dedicato a mio padre che la prima grande guerra la visse al fronte; soffrendo poi i folli disagi, le folli paure della seconda, da civile stavolta. Così come ebbe a soffrirne la sottoscritta abitando in un luogo ritenuto notevole obiettivo militare, oltretutto intasato da tedeschi accampati in ogni dove, dentro e fuori l'abitato.

Il nonno di Celeste Chiappani Loda

Ero solo una bambina e di anni ne sono passati molti, ciononostante, pur essendone uscita fisicamente indenne, per rabbrividire di raccapriccio mi basta il ricordo del cupo rombo delle formazioni americane da bombardamento, con il loro luccichio d'argento seguito dalle spesse scie bianche lasciate dai reattori, se di giorno, o il rimbombo che faceva tremare l'aria, reso più agghiacciante dal buio totale, se di notte; oppure il ricordo delle guizzanti picchiate dei leggeri caccia dal muso rosso, sempre prodighi nel dispensare la morte con le loro mitragliatrici di bordo, su tutto ciò che vedevano muoversi  terra; e ancora il suono delle sirene che davano l'allarme o ne annunciavano la cessazione con suoni diversi (il primo più cupo, il secondo più leggero) i quali, negli ultimi due anni del conflitto, si susseguivano in modo tale da non poter più distinguere in che fase ci si trovasse; infine per i dissidenti, il segnale così cupo anch'esso, di radio-Londra che trasmetteva in codice le istruzioni alleate per i partigiani (ribelli per il partito imperante) o i comunicati di vittorie e avanzate (fino a che punto reale c'è da chiedersi) per gli altri, tutti in trepido ascolto, chiusi in cantine, in sotterranei o in altri luoghi impensati purché il più segreti possibile. Il tutto naturalmente all'insegna del razionamento annonario che lasciava (parlo della classe dei non abbienti, che poi rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione, poiché gli abbienti e i "profittatori di guerra" costituivano una categoria a parte; d'altronde, in ogni calamità, esistono sempre gli abominevoli predatori a man salva) al limite della sopravvivenza, la quale si trascinava condita dal gelo nelle stagioni fredde, con indumenti non idonei e ambienti non riscaldati che lo contrastassero.

Tutto ciò per introdurre un altro discorso non legato da un filo diretto ma dall'affinità perfetta.

Nel 1981 stilai un opuscolo di cui poi feci un certo numero di fotocopie per dispensarle nelle scuole del mio luogo di residenza. Esso si apriva con la poesia di Brecht anche qui riportata, seguivano poi una premessa che era un appello rivolto ai giovani, un capitoletto ricco di dettagli riguardanti la personalità di mio padre, sotto il titolo in testa a questo scritto, il racconto La lucciola di Monastier, datomi come un fatto reale da un friulano, poi incluso in Nodo scorsoio, e per chiudere quattro poesie, in tema naturalmente, tre mie e una di mia figlia Gloria Chiappani. Tutto questo raccolto sotto il titolo dal manifesto intento Il quaderno della Pace.

Poveretta!, oggi, un poco vergognandomi di aver tanto stupidamente creduto alla befana, cerco di fare dell'autoironia nella speranza che almeno un poco di aiuto mi porga  al fine di ammortizzare quel congenito pessimismo ad oltranza  così nocivo alla salute mentale. Ora mi sembra incredibile, eppure ai tempi ero convinta che molte voci unite potessero far leva - non dico sul cuore, per carità! - ma sul buon senso dei signori della guerra inducendoli a riflettere. Be', come riparo di fortuna, che poi non è gran che facendo acqua da tutte le parti, mi rifugio nella parafrasi consolatoria della frase biblica: Chi non ha mai commesso un errore alzi la mano.

 

Il sindaco, in pompa magna durante una cerimonia ufficiale da matti, consegnò al mio genitore e, credo, a due o tre altri, l'attestato di Cavaliere di Vittorio Veneto e la medaglia d'oro. Dopo anni di quattronovembre e banali banchetti, vuoti discorsi retorici, scontate deposizioni di corone d'alloro ai piedi del monumento al Milite Ignoto (ignoto per molti, non certo per i suoi genitori, la moglie, i figli) ecco qualcosa di concreto, non tanto per medaglia e attestato, ma per l'assegno semestrale anche se ridicolo nella sua esiguità da elemosina.

Per quella contradditorietà peculiare ad ogni essere umano che però, credo, in mio padre toccava l'acme, sfociando forse in un conflitto fastidioso, tutto questo soddisfece seppure in parte, la sua sete di protagonismo, senza tuttavia scalfire minimamente il suo acuto senso ipercritico, la sua incapacità di sottomettersi ad ogni autorità, anche, o forse soprattutto, se costituita.

Difatti, appena a casa, mugugnò astiosamente: - Quei buffoni! -

A onore del vero bisogna dire che mio padre, quando imboccava questi sfoghi, non si limitava ad un termine tanto castigato, per di più ne usava molti e di ben altra natura. Quando avvenne la prima volta si andò rigirando l'assegno postdatato tra le mani con una smorfia che più schifata di così si muore.

Devo dire che per tali sfoghi, lui che aveva la rabbia sempre aggrappata saldamente ad ogni suo globulo rosso, non si faceva scrupolo di ripetersi, serrandole labbra quasi senza disegno, sulle gengive pallide e indurite: Del resto non c'è contraddizione: qui non si trattava di ripetersi in fatti a lui accaduti, ma di manifestare il suo furore sempre nuovo verso coloro che riteneva responsabili di immani ingiustizie.- Ora si svegliano. Non riuscirò nemmeno a raggranellare i soldi per il mio funerale! -

Talvolta i suoi sfoghi li rivolgeva a me togliendoli dall'impersonale: - Cèle, - magari cingendomi le spalle con un braccio insicuro, smagrito, - il tuo "tata" è cavaliere, ma il cavallo dov'è? -

- Ci ho fatto le bistecche con il tuo cavallo. Ora dovrai accontentarti di cavalcare la coda perché è rimasta solo quella. Con tutta la tua boria!, bella figura farai a cavallo d'una coda spelacchiata. -

Scherzavo e lui rideva, a volte con gusto, a volte forzatamente, solo per farmi piacere, perché subito raffrenato da una profonda mestizia, data, oltre che dall'età avanzata e dai gravi acciacchi, dal profondo senso di frustrazione che si trascinò sempre, fin dall'adolescenza, per aver visto ogni suo sogno spazzato via da una complessa quanto disgraziata situazione familiare. Allora gli occhi acquosi, d'un giallastro fegatoso, si facevano sporgenti per le lacrime mal trattenute.

Ciò avveniva soprattutto quando si soffermava a osservare la medaglia che aveva incorniciato da sé appendendola poi alla parete del corridoio d'ingresso.

- Sai che cosa significa questa medaglia? -

- Lo so benissimo. Non immagini nemmeno fino a che punto. -

E lui era certo che io capivo, condividevo, compiangevo. Difatti quel dischetto d'oro, dal diametro di due centimetri, era un simbolo sacro per i sopravvissuti. Essere sopravvissuto: questa sola la bandiera che sventola un unico colore in ogni parte del globo. Essere sopravvissuti ma sempre con il pensiero che non abbandona rivolto a chi non ha avuto questo privilegio o visto riconosciuto questo diritto.

 

Il padre di Celeste Chiappani Loda

Mio padre era un uomo dall'intelligenza, dall'egocentrismo, dall'intolleranza decisamente fuori del comune; l'orgoglio era adeguato perciò stava molto attento a non cadere nel difetto tipico dei vecchi: quello di ripetersi spesso. Lo capivo perfettamente e, quando avveniva in casi rarissimi, che raccontasse fatti già raccontati, evitavo la sua mortificazione derivante da una scoperta di ciò ponendo una o due domande, ove apparisse solo un misurato interesse: un passo in più e avrebbe capito.

Il Carso fu il primo teatro ove recitò mio padre. Uso a bella posta questo termine perché lui il teatro l'aveva nel sangue e da giovane, ossia dopo la fine della "sua" guerra, recitò per un periodo neanche tanto breve, nel suo modo narcisistico che lo portava al birignao, in una compagnia dilettantistica, con tournée nei paesi viciniori. Nel repertorio grandi drammi romantici, popolareschi - Rovetta e Niccodemi soprattutto; il suo cavallo di battaglia, però, era il dramma Le bocche inutili della Vivanti. Carso come teatro; mi si passi il paragone dove il mio rispettoso e doloroso comprendere annulla quello che potrebbe passare per un cinismo blasfemo. Un teatro ove le luci non erano quelle dei riflettori, ma erano fiamme di morte atroce; dove gli attori non calcavano le tavole del palcoscenico, ma fango gelido, assieme a repellenti parassiti ; dove il terrore senza confini che stritolava le viscere assieme alla fame non era certo il panico delle platee.

Essendo nato il ventidue dicembre, quando lo inviarono al fronte mio padre aveva compiuto diciassette anni da cinque mesi (suo padre, nonno Battista, già vi si trovava da molto tempo). Incredibile come si faceva scrupolo di rimarcare quei cinque mesi, quasi che cinque mesi e non sei, mezzo anno, quindi, e non otto o addirittura undici, rappresentassero qualche passo importante ancora da compiere per varcare il confine, la linea di demarcazione, al di qua della quale si è ancora poco più che bambini. Ma anche lasciando perdere questo dettaglio temporale, perché senza dubbio rappresentavano una minoranza i nati a fine anno, si deve credere che la chiamata alle armi di quei disgraziati abbia suscitato profonda impressione se nacque la canzoncina: Il general Cadorna / l'è diventato pazzo: / chiamà 'l 99 / che l'è ancor ragazzo. / Dài, dài, dài / anche questa è la verità.

La melodia è quella sulla quale si snodavano rime dozzinali e tronfie contro il Negus dopo il 1936, quando cioè l'Italia conquistò l'Abissinia. Oltre a questa, tuttavia, esisteva un'altra canzone, diciamo ufficiale, la quale era retta da un'altra musica e, naturalmente, inneggiava al fascismo conquistatore delle colonie africane.

 

Ricordo un episodio che mio padre mi raccontò un paio di volte assicurandomi che ne fu testimone diretto.

Il famoso re-soldato, - com'era chiamato Vittorio Emanuele III durante il primo conflitto mondiale - è al fronte, nelle retrovie, allo scopo di rialzare il morale ai combattenti. Il gruppo di artiglieri (compagnia o altro, non ricordo - il babbo era nel corpo di artiglieria di montagna) è sfinito, affamato, con i pidocchi che lo tormentano; tutti trascinano le gambe a stento, i più fortunati stanno appesi alla coda dei muli, che saranno sfiniti anch'essi, povere bestie più innocenti degli innocenti. Alla fine della salita giungono ad una spianata dove ricevono l'ordine di fermarsi affinché il piccoletto passi in rassegna quell'umanità abbrutita. Ad un tratto il re si ferma davanti ad un veterano, così stanco e avvilito che non ha più nemmeno la forza di mettersi sull'attenti.

- Sai chi sono io, - gli chiede a bruciapelo.

L'interpellato cogita laboriosamente, alla fine, ringalluzzito dalla convinzione di aver trovato la risposta esatta abbozza un mezzo sorriso rispondendo nel dialetto con la s dal suono tra lo sc di scena e la acca spirata, tipico della bergamasca e delle valli bresciane:

- Certo che lo so; voi siete il capostazione di Vestone. - Un paesino, questo, della Valsabbia che, all'epoca del fatto era servito da una linea ferroviaria di secondo ordine.

Manifestazione dei Ragazzi del '99, Sezione di Ghedi (1962)

Quando, molto molto di rado per quel suo orgoglio di cui dicevo prima, mio padre raccontava qualche episodio di quella tragica esperienza, il cui ricordo l'accompagnò fino alla fine dei suoi giorni, sospirava riesumando il nomignolo che usava quando ero bambina:

- Eh, Tompi, la vita è la vita. Noi ragazzi del '99, ma anche quelli più anziani di noi, piangevamo per il terrore. Anch'io piangevo, sai? Qualcuno invocava Dio, la Madonna, tutti i santi del paradiso, altri bestemmiavano, ma tutti quanti chiamavamo la mamma... Anch'io invocavo mia madre, ma solo molto più tardi capii quello che deve aver passato avendo marito e figlio contemporaneamente in quell'inferno. Povera mamma. -

Già, la povera nonna Celesta che io non conobbi essendo morta a soli trentanove anni dopo lunghe sofferenze, passò anche attraverso quell'inferno.