Quanti artisti si sono espressi con dolore, indignazione,
sbalordimento, terrore contro la guerra? Tantissimi: penna e tavolozza contro
questo inqualificabile comportamento umano, sempre esistito - uomo barbaramente
contro uomo - di cui si ha notizia fin da quando si può attingere a documenti
scritti. Al di là di ogni valore scientifico per i cristiani l'inizio è
rappresentato dalla pietra fratricida nelle mani di Caino. Simbolo funesto a
convalida di un incoercibile, inconcepibile, inaccettabile impulso che porterà
sempre l'inferno sulla terra.
La guerra che verrà
non è la prima. Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell'ultima
c'erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
ugualmente.
Bertolt Brecht
FRATELLI
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli.
Giuseppe Ungaretti
Solo due nomi tra i poeti (tantissimi sono anche i
prosatori) per introdurre uno scritto dedicato a mio padre che la prima grande
guerra la visse al fronte; soffrendo poi i folli disagi, le folli paure della
seconda, da civile stavolta. Così come ebbe a soffrirne la sottoscritta
abitando in un luogo ritenuto notevole obiettivo militare, oltretutto intasato
da tedeschi accampati in ogni dove, dentro e fuori l'abitato.
Il
nonno di Celeste Chiappani Loda
|
Ero solo una bambina e di anni ne sono passati molti,
ciononostante, pur essendone uscita fisicamente indenne, per rabbrividire di
raccapriccio mi basta il ricordo del cupo rombo delle formazioni americane da
bombardamento, con il loro luccichio d'argento seguito dalle spesse scie
bianche lasciate dai reattori, se di giorno, o il rimbombo che faceva tremare
l'aria, reso più agghiacciante dal buio totale, se di notte; oppure il ricordo
delle guizzanti picchiate dei leggeri caccia dal muso rosso, sempre prodighi
nel dispensare la morte con le loro mitragliatrici di bordo, su tutto ciò che
vedevano muoversi terra; e ancora il
suono delle sirene che davano l'allarme o ne annunciavano la cessazione con
suoni diversi (il primo più cupo, il secondo più leggero) i quali, negli ultimi
due anni del conflitto, si susseguivano in modo tale da non poter più
distinguere in che fase ci si trovasse; infine per i dissidenti, il segnale
così cupo anch'esso, di radio-Londra che trasmetteva in codice le istruzioni alleate
per i partigiani (ribelli per il partito imperante) o i comunicati di vittorie
e avanzate (fino a che punto reale c'è da chiedersi) per gli altri, tutti in
trepido ascolto, chiusi in cantine, in sotterranei o in altri luoghi impensati
purché il più segreti possibile. Il tutto naturalmente all'insegna del
razionamento annonario che lasciava (parlo della classe dei non abbienti, che
poi rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione, poiché gli
abbienti e i "profittatori di guerra" costituivano una categoria a
parte; d'altronde, in ogni calamità, esistono sempre gli abominevoli predatori
a man salva) al limite della sopravvivenza, la quale si trascinava condita dal
gelo nelle stagioni fredde, con indumenti non idonei e ambienti non riscaldati
che lo contrastassero.
Tutto ciò per introdurre un altro discorso non legato da un
filo diretto ma dall'affinità perfetta.
Nel 1981 stilai un opuscolo di cui poi feci un certo numero
di fotocopie per dispensarle nelle scuole del mio luogo di residenza. Esso si
apriva con la poesia di Brecht anche qui riportata, seguivano poi una premessa
che era un appello rivolto ai giovani, un capitoletto ricco di dettagli
riguardanti la personalità di mio padre, sotto il titolo in testa a questo
scritto, il racconto La lucciola di
Monastier, datomi come un fatto reale da un friulano, poi incluso in Nodo scorsoio, e per chiudere quattro
poesie, in tema naturalmente, tre mie e una di mia figlia Gloria Chiappani.
Tutto questo raccolto sotto il titolo dal manifesto intento Il quaderno della Pace.
Poveretta!, oggi, un poco vergognandomi di aver tanto
stupidamente creduto alla befana, cerco di fare dell'autoironia nella speranza
che almeno un poco di aiuto mi porga al
fine di ammortizzare quel congenito pessimismo ad oltranza così nocivo alla salute mentale. Ora mi
sembra incredibile, eppure ai tempi ero convinta che molte voci unite potessero
far leva - non dico sul cuore, per carità! - ma sul buon senso dei signori
della guerra inducendoli a riflettere. Be', come riparo di fortuna, che poi non
è gran che facendo acqua da tutte le parti, mi rifugio nella parafrasi
consolatoria della frase biblica: Chi non ha mai commesso un errore alzi la
mano.
Il sindaco, in pompa magna durante una cerimonia ufficiale
da matti, consegnò al mio genitore e, credo, a due o tre altri, l'attestato di
Cavaliere di Vittorio Veneto e la medaglia d'oro. Dopo anni di quattronovembre
e banali banchetti, vuoti discorsi retorici, scontate deposizioni di corone
d'alloro ai piedi del monumento al Milite Ignoto (ignoto per molti, non certo
per i suoi genitori, la moglie, i figli) ecco qualcosa di concreto, non tanto
per medaglia e attestato, ma per l'assegno semestrale anche se ridicolo nella
sua esiguità da elemosina.
Per quella contradditorietà peculiare ad ogni essere umano
che però, credo, in mio padre toccava l'acme, sfociando forse in un conflitto
fastidioso, tutto questo soddisfece seppure in parte, la sua sete di
protagonismo, senza tuttavia scalfire minimamente il suo acuto senso
ipercritico, la sua incapacità di sottomettersi ad ogni autorità, anche, o
forse soprattutto, se costituita.
Difatti, appena a casa, mugugnò astiosamente: - Quei
buffoni! -
A onore del vero bisogna dire che mio padre, quando
imboccava questi sfoghi, non si limitava ad un termine tanto castigato, per di
più ne usava molti e di ben altra natura. Quando avvenne la prima volta si andò
rigirando l'assegno postdatato tra le mani con una smorfia che più schifata di
così si muore.
Devo dire che per tali sfoghi, lui che aveva la rabbia
sempre aggrappata saldamente ad ogni suo globulo rosso, non si faceva scrupolo
di ripetersi, serrandole labbra quasi senza disegno, sulle gengive pallide e
indurite: Del resto non c'è contraddizione: qui non si trattava di ripetersi in
fatti a lui accaduti, ma di manifestare il suo furore sempre nuovo verso coloro
che riteneva responsabili di immani ingiustizie.- Ora si svegliano. Non
riuscirò nemmeno a raggranellare i soldi per il mio funerale! -
Talvolta i suoi sfoghi li rivolgeva a me togliendoli dall'impersonale:
- Cèle, - magari cingendomi le spalle con un braccio insicuro, smagrito, - il
tuo "tata" è cavaliere, ma il cavallo dov'è? -
- Ci ho fatto le bistecche con il tuo cavallo. Ora dovrai
accontentarti di cavalcare la coda perché è rimasta solo quella. Con tutta la
tua boria!, bella figura farai a cavallo d'una coda spelacchiata. -
Scherzavo e lui rideva, a volte con gusto, a volte
forzatamente, solo per farmi piacere, perché subito raffrenato da una profonda
mestizia, data, oltre che dall'età avanzata e dai gravi acciacchi, dal profondo
senso di frustrazione che si trascinò sempre, fin dall'adolescenza, per aver
visto ogni suo sogno spazzato via da una complessa quanto disgraziata
situazione familiare. Allora gli occhi acquosi, d'un giallastro fegatoso, si
facevano sporgenti per le lacrime mal trattenute.
Ciò avveniva soprattutto quando si soffermava a osservare la
medaglia che aveva incorniciato da sé appendendola poi alla parete del
corridoio d'ingresso.
- Sai che cosa significa questa medaglia? -
- Lo so benissimo. Non immagini nemmeno fino a che punto. -
E lui era certo che io capivo, condividevo, compiangevo.
Difatti quel dischetto d'oro, dal diametro di due centimetri, era un simbolo
sacro per i sopravvissuti. Essere sopravvissuto: questa sola la bandiera che
sventola un unico colore in ogni parte del globo. Essere sopravvissuti ma
sempre con il pensiero che non abbandona rivolto a chi non ha avuto questo
privilegio o visto riconosciuto questo diritto.
Il
padre di Celeste Chiappani Loda
|
Mio padre era un uomo dall'intelligenza, dall'egocentrismo,
dall'intolleranza decisamente fuori del comune; l'orgoglio era adeguato perciò
stava molto attento a non cadere nel difetto tipico dei vecchi: quello di
ripetersi spesso. Lo capivo perfettamente e, quando avveniva in casi rarissimi,
che raccontasse fatti già raccontati, evitavo la sua mortificazione derivante
da una scoperta di ciò ponendo una o due domande, ove apparisse solo un misurato
interesse: un passo in più e avrebbe capito.
Il Carso fu il primo teatro ove recitò mio padre. Uso a
bella posta questo termine perché lui il teatro l'aveva nel sangue e da
giovane, ossia dopo la fine della "sua" guerra, recitò per un periodo
neanche tanto breve, nel suo modo narcisistico che lo portava al birignao, in
una compagnia dilettantistica, con tournée nei paesi viciniori. Nel
repertorio grandi drammi romantici, popolareschi - Rovetta e Niccodemi
soprattutto; il suo cavallo di battaglia, però, era il dramma Le bocche inutili della Vivanti. Carso
come teatro; mi si passi il paragone dove il mio rispettoso e doloroso
comprendere annulla quello che potrebbe passare per un cinismo blasfemo. Un
teatro ove le luci non erano quelle dei riflettori, ma erano fiamme di morte
atroce; dove gli attori non calcavano le tavole del palcoscenico, ma fango
gelido, assieme a repellenti parassiti ; dove il terrore senza confini che
stritolava le viscere assieme alla fame non era certo il panico delle platee.
Essendo nato il ventidue dicembre, quando lo inviarono al
fronte mio padre aveva compiuto diciassette anni da cinque mesi (suo padre,
nonno Battista, già vi si trovava da molto tempo). Incredibile come si faceva
scrupolo di rimarcare quei cinque mesi, quasi che cinque mesi e non sei, mezzo
anno, quindi, e non otto o addirittura undici, rappresentassero qualche passo
importante ancora da compiere per varcare il confine, la linea di demarcazione,
al di qua della quale si è ancora poco più che bambini. Ma anche lasciando
perdere questo dettaglio temporale, perché senza dubbio rappresentavano una
minoranza i nati a fine anno, si deve credere che la chiamata alle armi di quei
disgraziati abbia suscitato profonda impressione se nacque la canzoncina: Il general Cadorna / l'è diventato pazzo: /
chiamà 'l 99 / che l'è ancor ragazzo. / Dài, dài, dài / anche questa è la
verità.
La melodia è quella sulla quale si snodavano rime dozzinali
e tronfie contro il Negus dopo il 1936, quando cioè l'Italia conquistò
l'Abissinia. Oltre a questa, tuttavia, esisteva un'altra canzone, diciamo
ufficiale, la quale era retta da un'altra musica e, naturalmente, inneggiava al
fascismo conquistatore delle colonie africane.
Ricordo un episodio che mio padre mi raccontò un paio di
volte assicurandomi che ne fu testimone diretto.
Il famoso re-soldato, - com'era chiamato Vittorio Emanuele
III durante il primo conflitto mondiale - è al fronte, nelle retrovie, allo
scopo di rialzare il morale ai combattenti. Il gruppo di artiglieri (compagnia
o altro, non ricordo - il babbo era nel corpo di artiglieria di montagna) è
sfinito, affamato, con i pidocchi che lo tormentano; tutti trascinano le gambe
a stento, i più fortunati stanno appesi alla coda dei muli, che saranno sfiniti
anch'essi, povere bestie più innocenti degli innocenti. Alla fine della salita
giungono ad una spianata dove ricevono l'ordine di fermarsi affinché il
piccoletto passi in rassegna quell'umanità abbrutita. Ad un tratto il re si
ferma davanti ad un veterano, così stanco e avvilito che non ha più nemmeno la
forza di mettersi sull'attenti.
- Sai chi sono io, - gli chiede a bruciapelo.
L'interpellato cogita laboriosamente, alla fine,
ringalluzzito dalla convinzione di aver trovato la risposta esatta abbozza un
mezzo sorriso rispondendo nel dialetto con la s dal suono tra lo sc di scena e
la acca spirata, tipico della bergamasca e delle valli bresciane:
- Certo che lo so; voi siete il capostazione di Vestone. -
Un paesino, questo, della Valsabbia che, all'epoca del fatto era servito da una
linea ferroviaria di secondo ordine.
Manifestazione
dei Ragazzi del '99, Sezione di Ghedi (1962)
|
Quando, molto molto di rado per quel suo orgoglio di cui
dicevo prima, mio padre raccontava qualche episodio di quella tragica
esperienza, il cui ricordo l'accompagnò fino alla fine dei suoi giorni,
sospirava riesumando il nomignolo che usava quando ero bambina:
- Eh, Tompi, la vita è la vita. Noi ragazzi del '99, ma
anche quelli più anziani di noi, piangevamo per il terrore. Anch'io piangevo,
sai? Qualcuno invocava Dio, la Madonna, tutti i santi del paradiso, altri
bestemmiavano, ma tutti quanti chiamavamo la mamma... Anch'io invocavo mia
madre, ma solo molto più tardi capii quello che deve aver passato avendo marito
e figlio contemporaneamente in quell'inferno. Povera mamma. -
Già, la povera nonna Celesta che io non conobbi essendo
morta a soli trentanove anni dopo lunghe sofferenze, passò anche attraverso
quell'inferno.