Prefazione scritta da
Celeste Chiappani Loda per il suo libro di memorie Ognuno è solo
Parlando di ricordi si pensa immediatamente alla memoria,
facoltà straordinaria dell'uomo. Uno sforzo di concentrazione che ci isoli da
quanto ci circonda ed eccoci immersi, più o meno profondamente, in situazioni,
fatti, sensazioni, atmosfere del nostro passato. Argomento affascinante dunque,
che ha sollecitato molti autori a trattarne sviscerandolo o a menzionarne, in
sintesi sapienti, per altri fini. Tra i tanti ricorrerò a Cesare Pavese e a
Marcel Proust. Il primo annota nel Diario
di cui dedicherà vari "giorni" a memoria e a ricordo: "Le cose
si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa
vederla per la prima volta." Più avanti asserisce che "non si vede
mai una cosa per la prima volta, ma sempre una seconda, quando trapassa in
un'altra…, ammirata una cosa è un'altra, cioè veduta una seconda volta sotto un
altro aspetto". Atteggiamento platonico come ricordo del già vissuto. Il
che ci rimanda ai suoi Dialoghi con Leucò dove troviamo, come motivo conduttore, il simbolo
dell'età olimpica (la quale segue l'età ctonia): "quel che è stato
sarà". L'uomo è impossibilitato a convivere con la schiacciante ineluttabilità
spaventosamente meccanica: non gli rimane quindi che prenderla in contropiede,
farsi beffe di lei autoeliminandosi. Pavese lo fece. La felicità dell'Età
dell'Oro, i suoi sine cura in lui connaturati, a lui
congeniali per un deposito ancestrale, gli avevano scavato dentro solchi così
profondi da rendergli irriducibilmente inaccettabile il clima doloroso dell'Età
del Ferro.
Pavese non fece del ricordo una categoria filosofica; non ne
fece un'area scritturale tanto consistente da calarvisi come ogni scrittore si
cala nelle sue creazioni che possono assumere il valore di solida zattera nel
naufragio; di refrigerante rifugio lontano da ogni rovente lotta meschina. Ben
vero è che Pavese fu serio, geniale e prolifico scrittore; non gli sarebbero
mancati né zattera né rifugio; ma è altrettanto vero che lasciò sul comodino
della sua disfatta-vittoria i Dialoghi
con Leucò. "Le cose si scoprono attraverso i
ricordi che se ne hanno." Si fissano i ricordi, dunque, solo a causa della
ripetitività delle esperienze.
Allora si può dedurre che il ricordo, in Pavese, è solo
negativo: egli infatti, essendo nato suicida, rifuggirà dal passato come
possibilità di motivo di speranza per il futuro, quindi come possibile legame
con la vita. Qui le suggestioni per la messa a punto del mio pormi davanti al
ricordo perché un uguale sentire mi congelerà molte volte nell'arco
dell'esistenza.
Altra posizione e altre suggestioni in Proust, dal cui
dividere la memoria in volontaria (o dell'intelligenza ) e involontaria (o
affettiva, del cuore) vicarierò l'idea su cui
articolare ciò che segue.
"...
l'instant même où la gorgeé des miettes du gateau touche mon palais…" Questo dice Proust
per parlare della memoria involontaria. Un caso fortuito: un pezzetto di "maddalenina" inzuppata nel tè che richiama, con i suoi
aromi e sapori così persistenti in fondo all'anima dell'interessato, tutta una
lunga serie di azioni, soprattutto sensazioni che lo colsero nel passato;
memoria involontaria perché sollecitata da qualcosa di oggettivo che si carica
di significato interiorizzandosi.
Tutti possiamo imbatterci, prima o poi, nel nostro morso di
dolce intinto nel tè. Torneranno i ricordi allora, belli o brutti, lieti o
dolorosi. Il passato comunque, richiamato o spontaneamente, torna sempre, per tutti,
quasi corposa entità autonoma, ramo staccato dal tronco cui, tuttavia, ancora
conserva legami nascosti di linfa vitale. Diversificato sarà il parametro sul
quale ciascuno di noi confezionerà la convivenza con esso. Così, come viandanti
sorpresi da un ciclone, qualcuno si raggomitolerà nel proprio panico,
paralizzato in ogni movimento; altri l'affronteranno con spavalda noncuranza
impegnati, nel contempo, a recidere radici onde tagliare ogni remora al loro
ingordo protendersi verso il sole di domani (c'è sempre il sole: tutt'al più è
momentaneamente nascosto da una nube di passaggio); impegnati cioè in azioni e
reazioni per un "ante" e per un "post" che li porti
all'appetibile frutto di cui il loro ottimismo si rende garante dell'esistenza.
"Non c'è maggior dolor…" perde ogni significato per costoro; pensato,
magari, avrà la vaga consistenza di un tenue vapore, capace solo di offuscare
per un attimo la vista di un paesaggio estivo.
Di ciò ebbi coscienza in un'ora ics della mia vita; ora
impossibile da collocare in un ambito temporale: maturiamo sempre per
scansioni, varianti in un respiro più o meno ampio, il cui inizio sfugge ad
ogni tentativo di collocazione.
Ho detto che il passato ritorna, caparbio; esso può
avviticchiarsi intorno alla nostra coscienza come cuscuta soffocante intorno
alla linfa vitale di chi non sappia rintuzzarne l'aggressività. Eccolo allora
nemico irriducibile se l'inclinazione a richiamarlo avrà solo negativo valore
univoco. In altre parole, se saremo involontariamente spinti – "maddalenine" o no – a richiamare e a tener conto
soltanto delle esperienze dolorose e di farcele ribruciare
addosso. Il pessimistico verso dantesco allora farà la parte del leone
avvilendo, eclissando addirittura e i piccoli e i grandi tesori di gioie passate,
privandole così di ogni potenziale forza benefica.
Esiste una teoria che dice che il fenotipo condiziona il
genotipo. In quali proporzioni i due elementi interagiscono credo che non sarà
mai dato sapere; ma anche ammesso che tale cognizione sia possibile essa non
avrebbe molta importanza per chi non contempla nel suo lessico la parola
rassegnazione.
Per mantenersi allora al di sotto della soglia di
sopportazione si può ricorrere all'alchimistico tentativo di capitalizzare i
ricordi analizzando le nostre età passate sperando di capire, di capirci;
tentare almeno di raggiungere il "gnosce te ipsum" che potrebbe aiutare l'uomo nel suo cammino
quotidiano; oppure, restando in una luce assai più tetra, tentando di
esorcizzare il demone della solitudine e dire con Pavese: "Al mondo non si
è mai del tutto soli. Alla peggio si ha la compagnia d'un ragazzo, di un
adolescente, e via via di un uomo fatto, quello che
siamo stati noi."
Il Tempo scorre; le nostre esperienze si depositano
trasformate in ricordi; e pian piano il Tempo li abbandona allontanandosene.
Dapprima quasi impercettibilmente poi in modo sempre più deciso fino a che
sfilaccia i fatti, qualcuno cementando ad altri. Tuttavia alla fine anche gli
dei si stancano così che pure il Tempo (pensandolo parcellizzato: ad ogni
individuo la sua quantità) si dilata, perdendo forza fino a diventare massa
amorfa e inerte. A questo punto alcuni ricordi in noi depositati rimangono
nudi, d'una nudità essenziale, privi della bavella che contorna il bozzolo.
Ed ecco l'immagine di due entità a confronto: noi e i
ricordi. Alcuni di essi (quelli che ancora il Tempo non ha abbandonato), pomfi
di vita pulsante che lievita per investirci; altri, pietre che si lasciano
dissotterrare, più o meno faticosamente. Ma fin dove il nostro volere e il
nostro potere riescono a penetrare la compatta oscurità del remoto? In quale
misura la passione, la partecipazione che vestimmo allora per proporci davanti
al fatto, ora che esso è diventato ricordo, vengono deformate dalla nostra
personalità cangiante che fa da filtro? Non trovando risposte è giocoforza
accettare il compromesso: rivivere ciò che può essere rivissuto senza
preoccupazioni cronologiche. Se riandare il passato per ricordare è nostro
intento, consideriamo la memoria alla stregua di un focoso cavallo con le
briglie sciolte: esso, a suo talento, scorrazzerà seguendo bizzarri itinerari
senza programmi, seguendo ispirazioni improvvise raccogliendo e cogliendo per
poi portarci il bottino di cui disporre a nostro talento.