Master di regia teatrale con la compagnia dell'Aleph:
Il servitore di due padroni ovvero l'Arlecchino
e la scienza della composizione teatrale
Un incontro di due giorni (11 e 12 marzo 2017) in cui
Giovanni Moleri ha mostrato le strutture della
commedia e le tecniche di riscrittura del testo goldoniano
Il master
Una
foto di scena.
©
Foto Simone di Moleri.
Per gentile concessione del Teatro dell'Aleph.
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L'Accademia sperimentale di regia teatrale del Teatro dell'Aleph (con sede a Bellusco, in
provincia di Monza e Brianza) ha organizzato un master di due giorni, tenuto
dal regista Giovanni Moleri. È stato analizzato Arlecchino servitore di due padroni, di
Carlo Goldoni, così come scenicamente rivisitato dallo stesso Moleri. Il quale ha mostrato le strutture portanti del
proprio lavoro, in un dialogo continuo con il pubblico, chiamato a reagire di
volta in volta sulle movenze degli attori, sui lazzi, sulle allusioni extra
testuali, sulla gestione dello spazio e del tempo. Non una lezione frontale,
dunque, ma un coinvolgimento che ha vivacizzato il dibattito, grazie anche (e
questo è stato il valore aggiunto del master) alle diverse formazioni e
professionalità dei partecipanti: in platea sedevano infatti registri teatrali,
studenti in scenografia, docenti universitari, attori, giornalisti.
Al termine del master un fuori programma: la messa in scena della
breve pièce di Moleri sul
dramma delle foibe: La nave del ritorno.
Gli attori
Nel ruolo di Arlecchino, Salvatore Auricchio.
Nel doppio ruolo di:
Balanzone e Brighella, Diego Gotti.
Beatrice e Smeraldina, Giorgia Biffi.
Clarice e una serva, Cecilia Chiapetto.
Pantalone e una serva, Elena B. Mangola.
Silvio e Florindo, Tommaso Liut.
Durante una pausa chiacchiero con alcuni di loro, che mi
raccontano il loro rapporto con questo spettacolo.
Salvatore Auricchio: «Lo spettacolo parla di noi, della nostra
storia, dei nostri vezzi e per me rievoca il teatro degli albori, della
tradizione italiana e mi affascina perché mi riporta indietro nel tempo. E non
è un caso che io mi senta tornato bambino: i personaggi di questa commedia in
fondo sono bimbi che giocano. Del carattere infantile di Arlecchino parlò anche
Ferruccio Soleri. Ho studiato Arlecchino, attraverso
i grandi attori che l'hanno impersonato: assumere le sue posture – codificate
da ormai due o tre secoli ‑ è come avvicinarmi a quei grandi. Non solo a
loro; anche agli attori che ho amato fin da bambino: Totò, Chaplin, che considero
le maschere del Novecento. L'avvicinarmi a loro avvertendoli vivi lo ritengo un
grande onore, ma anche una grande responsabilità.»
Una foto di scena.
© Foto di Simone Moleri.
Per gentile concessione del Teatro dell'Aleph.
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Diego Gotti: «A me
è piaciuto molto fare questo spettacolo. Poi mi dirai se a te è piaciuto
vederlo! La visuale dell'attore è infatti ben diversa da quella dello
spettatore: alcune sfumature le cogli solo dal di dentro. Se dovessi definire
la commedia che abbiamo recitato, direi che è un gioco serio. Serio perché non
devi andare fuori dalle righe, altrimenti si stonerebbe e verrebbero a mancare
gli equilibri. Anche la fisicità deve essere disciplinata. Tutti noi membri
della compagnia abbiamo alla base una formazione acrobatica (siamo, ad esempio,
trampolieri) e ci teniamo in costante allenamento. Tale formazione è parte integrante
del nostro bagaglio e Giovanni Moleri ne fa uso
quando lo ritiene utile nell'economia degli spettacoli. Del resto l'acrobatismo
non deve mai essere fuori luogo e, inoltre, deve riuscire spontaneo: occorre
che il corpo risponda senza forzature, altrimenti le scene non funzionano.»
Giorgia Biffi: «Questo
spettacolo per me è un gioco. Mi sento a mio agio a interpretare un personaggio
con caratteristiche codificate. Devo dire che mi ritrovo più in Smeraldina che
in Beatrice, forse perché – nella sua spensieratezza – mi somiglia. A me piace recitare
e fare quello che faccio. Non ho un perché: mi piace e basta. Ogni giorno trovo
la spinta ad allenarmi e a venire alle prove e questo mi fa sentire bene.»
Cecilia Chiapetto: «Ho iniziato come trampoliere,
partecipando alle parate e poi mi è stata affidata una parte in questa
commedia. Ammetto che per me è stata una sorpresa. Ho un unico rammarico: dato che
provengo da un'altra esperienza, mi accosto in modo necessariamente diverso
alla trasmissione del mestiere dell'attore; trasmissione che rappresenta un
lavoro di notevole importanza e serietà.»
Elena B. Mangola: «Il testo è un classico, messo in scena da
tanti registri e interpretato da tanti attori: un po' di soggezione l'ho
provata a confrontarmi, volente o nolente, con precedenti tanto illustri.
Soggezione e paura di sbagliare l'interpretazione di una maschera che, nel
panorama teatrale, è uno stereotipo. Poi mi sono resa conto che, proprio per il
fatto di indossare una maschera, potevo nascondermi: la paura ha ceduto così il
passo al divertimento. Del resto lo spettacolo è una festa ed è bello vedere le
reazioni del pubblico. C'è un altro aspetto: quello della spensieratezza che ad
un certo punto si è rivelata il motore che mi ha permesso di buttarmi in quello
che succedeva e di relazionarmi in modo diverso con i miei compagni di
avventura. D'altronde il teatro, per me, è questo: fascino, divertimento,
abbattimento della paura… A volte mi chiedo che cosa
farei se non potessi più recitare. Non potrei fare altro, perché il teatro è
fonte di sapere continuo, di stimoli giornalieri. Soprattutto all'inizio, ogni
volta che terminava una lezione all'Aleph, tornavo a
casa con ogni tipo di curiosità e leggevo, cercavo, mi documentavo. Questa
passione la condivido in un modo particolare con Diego [Gotti, n.d.r.], che è
mio marito. Da una parte essere nella stessa compagnia è più facile perché la
nostra affinità di coppia ci aiuta sulla scena; dall'altra, però, per me è
difficile accettare quando mi fa notare che sbaglio. Riesco ad accettarlo da
qualcuno del quale ho soggezione, ma da lui mi risulta faticoso...»