Dubliners: il punto di vista di James Joyce nella descrizione degli uomini d’Irlanda di un secolo fa

Il romanzo inteso nella misura riservata della partecipazione diretta

Gli abitanti di Dublino, o Dubliners secondo il titolo originale di James Joyce è un’opera del 1914 composta di una quindicina di storie organizzate in quattro folti gruppi tematici: la tenera fanciullezza (childhood), l’adolescenza quasi matura, la vera maturità ed infine l’inevitabile vita pubblica. Con il suo progetto di Joyce intendeva raccontare un capitolo svoltosi nella storia morale del suo Paese (l’Irlanda). Le storie sono così ambientate tutte in una Dublino realistica e finanche simbolica e finalizzate a condurre i loro personaggi ad un’epifania ovvero ad un’improvvisa manifestazione spirituale causata da degli eventi esterni (di carattere socio-demo-etno-antropologico) che incanalano ad una temporanea rivelazione relatrice di loro stessi.

Un principio conduttore comune a tutti i racconti didascalici perdura in un sostanziale patema di morbose paralisi emotive: Joyce, analizzando la psicologia umana, individua in questa paralisi il risultato atavico di una mentalità irlandese oppressiva, lacerata da conflittuali dubbi e timori relativi alla devozione religiosa. Ravvisa cioè un’Irlanda conformata troppo intensamente su moventi religiosi e dunque politici, riportando testimonianze dirette (e puritane) di una sfera spirituale bigotta incentrata su una concezione massima del nazionalismo novecentesco e su un perseverante cattolicesimo che inibiva le coscienze.

I suoi caratteri letterari sono, vista la constatazione di cui sopra, incapaci di mutare il corso predestinato degli accadimenti, inidonei ad affrontare le ignote sorti di chi cambia strade, vie, stili di vita poiché essi, attraverso un circolo vizioso, è come se ritornassero sempre sui loro passi e ai loro pregiudizi esistenziali, ad uno status quo ante. Ed inoltre, su chi si evolveva variando cammino e prospettiva, gravava la sentenziosa mentalità gretta di un popolo irlandese che parlava di tradimento.

È distinguibile tra i personaggi, indecisi ed esitanti sulla propria scelta di vita, un tono di depressione essenziale, in quanto meccanismo di difesa contro il cambiamento irresoluto; ed è una depressione derivante da stimoli emotivi repressi, paralizzati, che affliggono gli uomini che pensano - pregiudizievoli nei confronti di se stessi - di non avere capacità di adattamento.

La fisiologica paralisi dell’uomo contemporaneo, eternamente in difficoltà nel prendere una decisione, consta quindi di un mancato rispecchiamento di ideali solidi e di valori affermati, di una scarseggiante fiducia nei confronti del fato comprensivo e di Dio stesso. Joyce tenta di condurre la modificazione ideologica di un’Irlanda amata ma al tempo stesso odiata in quanto nazione anacronisticamente sottomessa a forme tradizionali di cattolicesimo restrittivo.

Attraverso condizionamenti reciproci Italo Svevo e James Joyce nella loro scrittura hanno impiegato, magistralmente, il monologo interiore, penetrando nei flussi di coscienza dei personaggi, carpendo i loro pensieri momentanei in una struttura romanzesca emancipata dalle successioni cronologiche di prologo e di epilogo, inizio e fine: tutto si esplica direttamente nella psiche umana. Quanto detto è di conseguenza rafforzato, nel romanzo, dalle scansioni di un ordinamento che si flette seguendo le discordanze degli stati d’animo, flashback, analogie, associazioni libere.

L’intero espediente del monologo interiore diretto è il contenuto del suo lavoro di vita e letterario, ovvero il flusso di coscienza (stream of consciousness) è la "pratica teorica" per mezzo della quale l'autore attesta ed esterna tutto ciò che passa nella mente dei vari protagonisti.

V’è da riferire che Joyce conobbe Italo Svevo a Trieste, comunque quando egli era partecipe della vita culturale mitteleuropea; fu un incontro che si trasformò in un’esperienza preziosa ed in un’amicizia letteraria, con scambievoli influssi per entrambi. Le loro opere sono basate sull’introspezione, sull’identificazione semiautobiografica (nonché binomiale) autore-protagonista, e tendono ad una ricerca profonda sulla nascente psicanalisi di Freud. È a partire da questo momento che sorge il romanzo d’analisi e psicologico arricchito da teorie valutative sulla cultura del proprio tempo.

In Dubliners il lettore viene messo a contatto in modo immediato con le elucubrazioni dei protagonisti, anche connettendo psicologia e fisiologia. Ad esempio di Eveline vengono descritte le guance pallide, una nausea sintomatica della sua paura che si fa strada nel momento di operare una scelta, a tal punto che la protagonista lei si paralizza.

Per cambiare e cambiarci, anche la scelta più saggia non permette una condivisione delle dolorose sofferenze provate: di un proverbiale male comune che non è più mezzo gaudio. Eveline alla fine farà la sua scelta, scegliendo di non scegliere: il lettore accorto dovrà seguire con la stessa angoscia lo stato d’animo che Joyce ha voluto comunicare, "arruolarsi in una partecipazione diretta". Chi legge dovrà quasi calarsi nelle stesse difficoltà palesate nel racconto, per poter valutare con rigore quale possa essere la migliore delle strade da percorrere. Questo poiché il rimpianto derivante da una cattiva scelta lascia impresso lo stesso dubbio amletico e traumatico che si ha quando ci si trova di fronte ad una scelta e non se ne ha il coraggio di approntarla; la fitta del turbamento umano assurge a spasimo quando si concretizza la decisione, la risoluzione conclusiva che implica l'abbandono di una cosa precedente e passata e la nascita di altri accadimenti futuri (because to be or not to be that is the question). L’euforia verso accadimenti prossimi reca in sé il dolore della gestione del trauma, semplice o elaborato, secondo la nostra maniera di intenderci con l’intelletto.

Il credere che un dolore-trauma durerà in eterno reca in sé già il sintomo del superamento inconscio di tale pensiero conscio che ci fa considerare, come eterna, la discrepanza tra la posizione psicologica di paralisi e la realtà: Joyce pone il caso di Eveline, che si sente atterrita nella cognizione savia dell’elaborazione della propria dolenza. Ciò accade sempre perché la scelta biforca, divide, apre all’orizzonte delle vie incognite ed arcane al presente. E percorrendo queste vie sicuramente inciamperemo, ma sarà questa la prova del successo: chi cade non ha diritto a cadere di nuovo su quell’uguale questione.

Joyce sostiene che l’esperienza quindi andrebbe diretta e, di qui, controbilanciata per non far insorgere un’accidia che paralizzerebbe la paura. Allora egli racconta la paralisi attraverso il flusso di coscienza (di psicanalisi freudiana anche), in accordo con una sua sintassi che insegue la verità prigioniera implicata nella comunicabilità delle parole emesse dai protagonisti dilemmatici.

Joyce è dunque uno scrittore eclettico e pertanto non ammette di dover forzatamente comprendere il dogma del fanatismo cattolico dell’Irlanda degli albori del 1900.

Dubliners è un libro che apprezzeranno coloro che, ai racconti d'avventure, preferiscono scritti d'analisi introspettiva e psicologica. È, insomma, un libro adatto per chi ama addentrarsi nelle sfaccettature più enigmatiche della psiche. Ritroviamo infatti punti di vista esaminati secondo le stesse strutture (e funzioni) dell’attività puramente cerebrale (e soprattutto giudizi esplicati attraverso lo stesso emisfero dei sentimenti e dei "sentimenti ragionati", o misti alle loro cause ragionevoli, al fine di scandagliare i perché dell’agire e del comportarsi degli uomini).

Per fruire in maniera intensa del messaggio che in tutta la sua opera Joyce vuol trasmettere, ritengo sia preferibile leggere l'opera nella versione in lingua originale. La traduzione italiana, infatti, non può rendere appieno quel tipico stile joyciano particolarmente musicale che, in Dubliners, poggia su una sintassi scorrevole.