Intervista a César Brie, regista, attore e autore

"Ognuno ha le sue verità artistiche e ogni verità è valida"

"L'arte si giustifica nell'alchimia di forma e contenuto e deve essere trasparente"

César, da dove provieni e come sei approdato in Italia?

César Brie in Albero senza ombra

Foto Paolo Porto

Sono argentino e sono giunto in Italia diciottenne, assieme alla "Comuna Baires" - il gruppo teatrale da me fondato assieme a un gruppo di artisti - che prima di "Comuna Baires" si chiamava "Centro Dramático Buenos Aires".

Perché "comuna"?

Perché si trattava di un esperimento comunitario. Far parte della "Comuna" significava abbandonare qualsiasi borghesismo. Uscii dal gruppo nel 1975.

Nell'arte non si può prescindere dalla forma, ma, occupandosi esclusivamente della forma, si rischia di non avere sbocchi sul sociale. Quale deve essere, secondo te, in ambito teatrale, il rapporto fra forma e contenuto da comunicare? E qual è l'intento, il messaggio profondo, del tuo modo di fare teatro?

Io non teorizzo. Il tipo di teatro che faccio corrisponde alla mia idea di teatro: ognuno ha le sue verità e ogni verità è valida. Ho conosciuto persone che avevano chiarezza di vedute politiche ed erano dei pessimi artisti; o che erano politici confusionari e ottimi artisti; o che, sia nella politica sia nell'arte, avevano grandi capacità o nessuna. Questo per dire che non ci sono assoluti. L'arte si giustifica nell'alchimia di forma e contenuto; si giustifica quando si occupa della vita. Ancora: ci sono forme artistiche che fanno del pubblico il loro obiettivo e altre che, viceversa, partono dal punto di vista degli artisti. Ci sono artisti le cui filosofie sono fondate sul bello e sul vero e artisti che si occupano del sociale. Tutto va bene. Il mio spettacolo, Albero senza ombra, è rivolto anche a chi non conosce il teatro perché il mio intento è di dare un messaggio semplice, chiaro, ma sostenuto da elementi strutturalmente importanti. L'arte, a mio avviso, deve essere trasparente. A mio avviso, ho detto: ognuno può infatti scegliere una via, in nome dell'imprescindibile libertà di pensiero e di espressione estetica.

Nel tuo tipo di teatro, quali apparati scenografici e costumi sono richiesti?

Il concetto fondante del mio teatro è la metonimia e questa scelta aiuta l'essenzialità. In Albero senza ombra un vestito femminile diventa una donna, così, quando lo appoggio al mio corpo o lo indosso e parlo, non è César Brie in veste di io narrante che dà voce ai propri pensieri, ma è la protagonista femminile che vive sulla scena. Gli oggetti, insomma, divengono evocativi di immagini e di situazioni. Ti faccio un altro esempio. Io uso molto lo spazio a terra, il pavimento, perciò, nello spettacolo, lungo i quattro lati del palco, ho sparso foglie secche che rappresentano i sentieri nel bosco. Bosco a cui alludo anche con la luce verde proiettata a terra tramite sagomatori: è la luce che filtra tra le foglie degli alberi. La pièce si conclude con me che esco dal palcoscenico parlando del bosco e del fiume, mentre a terra sono allusivamente proiettate le luci verdi di cui accennavo e quelle azzurre. Il mio è un teatro povero. Gli oggetti presenti sulla scena sono pochi, concreti e d'uso comune: sacchi o grandi ciotole pieni di mais, vestiti indossati quotidianamente dai campesinos, fotografie degli assassinati, un secchio, uno spazzolone, una pistola... Ciò che importa non è l'originalità o la raffinatezza degli oggetti scelti, ma il loro potere evocativo.

Dal documentario alla pièce. Sul massacro dei campesinos a Porvenir, nella regione boliviana del Pando, avvenuto l'11 settembre 2008, tu - assieme a Javier Horacio Alvarez - hai girato un corposo quanto scomodo documentario: Tahuamanu (Morir en Pando). In esso viene raccontata – attraverso testimonianze - la vicenda del massacro in modo dettagliato, mentre lo spettacolo teatrale Albero senza ombra necessariamente la riassume, facendola passare attraverso il filtro del ricordo doloroso, accorpa più personaggi in un'unica figura, mutua dialoghi e monologhi dai fatti avvenuti distribuendoli a volte tra personaggi inventati. Quali criteri hai adottato per trarre dal documentario la pièce?

Il criterio primo è quello di non annoiare il pubblico con dovizia di notizie storico-politiche, bensì di fornire alcuni quadri chiari della vicenda. Ho deciso di creare un'opera teatrale solo dopo che avevo analizzato e presentato la vicenda in un documentario esaustivo. Senza di esso, mi sarebbe sembrato di giocare con le vite umane quando la tragedia era ancora calda. La prima stesura del documentario (della durata di tre ore) risale al 2009. Nel 2010 il lavoro acquista la sua forma definitiva: un'ora e mezza. Dello stesso anno è la pièce. Quest'ultima sintetizza e, in un certo senso, rende poetica la vicenda. Ho quindi anche inventato qualcosa, come il reggiseno che Celedonio Basualdo usa a mo' di fionda. Lui è un personaggio realmente esistito (fu sua figlia a raccontarmi che era un donnaiolo), ma la trovata del reggiseno mi serve per stemperare la tensione.

In che misura il lavoro che tu conduci, nella sua globalità (teatro, documentari, libri), ha contribuito o può contribuire a cambiare lo status dei più deboli?

Dico solo che chi vuole capire queste tragedie boliviane (il pestaggio di Sucre del 24 maggio 2008 e il massacro di Porvenir dell'11 settembre dello stesso anno) deve guardare il documentario.