Tra il ponte
sull’Abioccolo e le ultime case di Lavenone, in provincia di Brescia, si piega
a sinistra per imboccare una stradetta asfaltata solo per un tratto. Inizia
così una meravigliosa passeggiata che si snoda sui fianchi delle Piccole Alpi.
Praticelli in declivio
punteggiati, qua e là, di alberi da frutta; fazzoletti di granoturco o di
ortaggi intorno a casolari dislocati ad enormi distanze gli uni dagli altri;
pruni, rovi, rododendri aggrovigliati con i noccioli, che strapiombano sempre
più ripidi di mano in mano che la strada sale. Di tanto in tanto una sorgente
che s’affaccia timida, a pelo di terra e si spande torno torno, dove un
tripudio di felci, menta, saponaria, ranuncoli e altre erbe che amano l'umido,
si offrono all’occhio attento.
A volte la quantità
d’acqua è più consistente; allora, o viene raccolta in una corteccia d’albero
per farne una fontanella, o, a piccoli salti, supera dislivelli e va a
raccogliersi in un rigagnoletto che si perde e riaffiora in un gioco di verde
rigoglioso che ne denuncia il percorso.
Noi saliamo e l'asfalto
finisce. Ora la strada è coperta di polvere bianca e greve e la sua sede è
tremendamente sconnessa, tormentata per cui la vettura sobbalza come impazzita.
Siamo in pieno agosto, il sole picchia con tutta la sua forza e la vegetazione
comincia a diradare.
Ma in fondo al
crepaccio, che segue grosso modo il tracciato della strada allontanandosi
sempre più da essa nel senso della profondità, scorre l’acqua limpidissima
dell’Abioccolo il quale, appena superato quel ponte di cui ho detto sopra, va a
morire nel Chiese.
Questo fiumicello s’è
scavato il suo letto incerto e irregolare tra i ciottoli di ogni forma e
dimensione e aggirando enormi massi adagiati in mezzo al letto stesso o sul
greto.
È un fiumicello senza
pretese poiché in Vaiale, ove ha la sua culla, alcuni chilometri a monte,
l’hanno imbrigliato per rifornire d’acqua i tre paesi più vicini: Lavenone,
Vestone, Idro.
L’acqua che noi vediamo
è quella che sfugge alla prigione delle tubature e se ne va per conto proprio,
nutrendo due sponde ubertuosissime, quelle che la videro totalmente libera.
Procediamo ancora,
sempre sobbalzando, sempre salendo e sollevando un gran polverone. Dopo dieci
chilometri circa approdiamo a una terrazza larga tanto da contenere agevolmente
una decina di automobili.
Sotto c’è la valle
verde, bellissima; sopra c’è il cielo intensamente luminoso: intorno ci sono le
creste dei monti, verdi o biancastre, a seconda della maggiore o minore
vegetazione.
Oltre lo spiazzo c’è
Presegno. un paesino formato di una chiesuola, unosteria e una manciata di
case. Un centinaio di abitanti in tutto, che però vanno sempre diminuendo
spinti dalla necessità o dai sogni verso l’inurbamento.
Siamo sulla Pertica
Alta. La stradina che divide le poche case messe lì, come capita capita, nel
modo tipico degli agglomerati montani, esce dal lato opposto a quella specie di
belvedere, e prosegue sulla cresta in blande curve per un chilometro circa: una
piccola salita, un tratto pianeggiante, una breve discesa, il tutto condito da
un certo timore se si guarda di sotto; timore che però nulla toglie al piacere
di tanta e tanta pace.
Al termine della
viottola una cosa straordinaria: un altro agglomerato di case più piccolo del
precedente, anche se ciò pare quasi impossibile. Casucce fatiscenti che si
chiudono in cerchio intorno a una piazzuola larga come un cortile, in mezzo
alla quale un abbeveratoio di pietra incrostato di alghe, pare volersi dare
importanza di fontana.
Tutto questo è Bisenzio.
Oggi è domenica e c'è
relativamente molta gente, c'è allegria. Le persone fanno cerchio intorno ad un
tentativo di fisarmonicista mentre il fiasco vuoto del Chianti viene
rimpiazzato con una velocità preoccupante da quello pieno. Esso passa di mano in
mano soffermandosi sui bicchieri tesi.
Gente allegra che è
giunta fin qui per godersi la compagnia dei suoi simili in seno ad una natura
intatta, stupenda.
Peccato che la civiltà
dei consumi abbia già lasciato le sue orme ben visibili: tappi, lattine, sacchetti
di plastica… L'arietta li solleva, li trasporta, li rotola.
In mezzo alla decina di
abitazioni miserande che portano l'impronta dell'abbandono, una attira
l'attenzione; è stretta e alta (due piani) intonacata a nuovo di bianco e
azzurro, inoltre sbandiera una sussiegosa antenna televisiva.
È un impatto e ci viene
da stropicciarci gli occhi.
Il padrone, che
sopraggiunge subito (ho l’impressione che abbia una gran voglia di parlare, e
sono nel giusto, così mi alleggerisce l'imbarazzo delle domande), mi spiega che
sua moglie è originaria di Bisenzio. Molto giovane andò a lavorare a Torino; ed
ora, entrambi i coniugi, avanti negli anni, hanno deciso di rimettere a posto
la casuccia dei padri e di farne un felice eremo, almeno per i primi cinque
giorni di ogni settimana estiva.
- Ci sono altri
abitanti? - chiedo.
- Sì. Siamo in sei
complessivamente. Però mia moglie ed io abbiamo lasciato la residenza a Torino;
inoltre uno degli abitanti effettivi è attualmente associato alla carceri di
Brescia. A rigor di termini rimangono tre abitanti abitualmente residenti. -
Tace un attimo
guardandosi in giro, ma subito prosegue cordiale:
- Queste montagne sono
meravigliose. Mia moglie ed io non ci stanchiamo mai di ammirarle. Specie
all’alba e al tramonto. -
Si guarda nuovamente in
giro con sguardo pago, innamorato.
Gli do atto. L’aria è
purissima, leggera. Il silenzio prezioso che appartiene a queste altitudini
riesce a vincere le dissonanti grida dei gitanti ed il rumore dei clacson e dei
motori che impazzano senza alcuna ragione.
Giro lentamente lo
sguardo e bevo con gli occhi tutte le sfumature di verde, grigio, violetto, in
larghe o piccole chiazze che si lasciano bagnare dall'azzurro infuocato del
cielo, in un'armonia perfetta di colori e di profumi.