La lucciola di Monastier
Un
fiume può richiamare alla mente tante immagini, può far nascere mille pensieri.
All’unisono ne accenniamo, come accenniamo alla colpevole retorica che volle
incaricare questo fiume, il Piave, di un messaggio tanto assurdo: Il Piave
mormorava… Ma che cosa può mai mormorare un fiume se non sentimenti di pace e
di fratellanza? Intanto Belluno, intorno a noi, pulsa la sua vita di domenica
provinciale. Piccola pulita città ricca di gioielli architettonici dalla
splendida euritmia, dove l’impronta del genio è ben individuabile. Pietre
preziose fortunate, queste, incastonate in un paesaggio splendido
anche se avaro per coloro che devono strappargli bocconi d’esistere.
Le cime che ci
circondano preludono a vette più maestose, più sofferte, ma qui esse mantengono
ancora un respiro lato, di speranza.
La giornata è nuvolosa e
lo Schiara, alle nostre spalle, ci offre la vista morbida di un cappuccio di
neve fresca: è caduta stanotte infatti, nonostante il
calendario dica che fra una settimana sarà l’estate. Le nubi di piombo
riempiono il cielo. Alcune, audacemente si abbassano fino ad avvolgere le cime
più alte; ma nel fuggire vi lasciano impigliato qualcosa: un lembo sfilacciato
che ora si muove articolandosi in tanti ciuffi leggeri.
– Laggiù è Monastier, – dice ad un tratto Nani rompendo un lunghissimo
silenzio. Attendo che continui, ma di nuovo tace.
Nani è aperto, cordiale, quasi ciarliero, perciò questa sua reticenza improvvisa
mi sorprende. Guardandolo noto che i suoi occhi azzurri sono socchiusi ed
intenti.
– Immagino che Monastier sia un paese. Che cos’ha di speciale? – getto
l’esca incuriosita.
– Andiamo, – dice Nani
girandosi. – Sta per piovere. – Strada facendo le racconterò un fatto
inconsueto. –
Voltandosi per
incamminarsi sporge un braccio con la mano stesa a palmo in giù:
– Sento già alcune
goccioline, – annuncia. E improvvisamente sorride: è chiaro che sta inseguendo
qualche ricordo. Stringendomi nella giacca di lana per ripararmi dall’aria
pungente, mi appresto a seguirlo. Non ho alcuna fretta di vedere soddisfatta la
mia curiosità, perciò lo lascio scorrazzare tranquillamente nei vicoli, nei
viali, nei meandri del suo passato. Ne emerge alla fine; mi chiede:
– Sa a che cosa sto
pensando? Ai primi tempi che stavo a Belluno. Questa gente così fiera e così
innamorata delle sue montagne, guarda alla gente di pianura con una certa
diffidenza. Niente di drammatico tanto è vero che mi sono ambientato quasi
subito. Pensi, mi chiamavano il terrone trevisano. Ma
che bei tempi! Erano bei tempi perché ero giovane. E tutto va bene quando si è giovani, non perché ci si accontenta, ma
perché si spera. Il domani, per un giovane, non è mai del tutto nero… Lasciamo perdere. –
Il sorriso di Nani è
sparito. L’azzurro dei suoi occhi si riduce nuovamente sotto le palpebre
strizzate.
– Monastier,
dicevo, è il paese dei miei. L’episodio che sto per
narrarle avvenne laggiù molti anni fa, però ha le radici nella prima guerra
mondiale, ossia prima dell’epoca che interessa. I tedeschi erano giunti fin lì ma non riuscirono a mantenere le posizioni. Poco tempo
dopo, infatti, per i teutonici, fu la disfatta ed i morti vennero
disseminati come in ogni assurdità che chiamiamo guerra; disseminati o
seppelliti alla buona, perciò non era infrequente che il vomere di un contadino
inciampasse in un mucchietto d’ossa ancora molti anni dopo finita la guerra.
Ero giovanissimo allora – prosegue Nani con la sua flemma a volte esasperante. –
Eravamo al tempo che precedette di poco la decisione dell’Italia di buttarsi a
testa bassa nell'inconcepibile follia che si chiamerà seconda guerra mondiale.
Proprio allora Monastier visse un giorno di “gloria”
a causa della guerra del 15–18, come ho già detto. Fui
spettatore in primo piano di quell’avvenimento, ma lo vissi in modo passivo, da
quel ragazzino decenne che ero. Adesso, a distanza di anni, mi chiedo quale
ruolo ebbe l’autosuggestione e la casualità in tutta la faccenda; oppure se
realmente esistono quelle forze di cui si sente parlare in modo confuso, pseudoscientifico, le quali agiscono nella sfera
dell’irrazionale, coinvolgendoci. A quel tempo avevo più di un’occasione di
udir narrare episodi di quella guerra che a me pareva enormemente lontana nel
tempo, pure, in certo qual modo penetrabile poiché i luoghi dove vivevo ne
erano stati il tragico teatro. Una sera d’estate mia madre, la quale quella
guerra l’aveva vissuta, si soffermò piuttosto a lungo a guardare dalla finestra
del cucinone che dava direttamente sull’orto. Era
rimasta colpita – l’avrebbe rivelato più tardi – dagli strani volteggi d’una
grossa lucciola. Naturalmente d’estate le lucciole sono numerose, ma quella –
mia madre su questo punto non volle mai cedere – era una lucciola
specialissima. Innanzitutto era più grossa e più luminosa
delle sue compagne; secondariamente se ne stava in disparte e le altre
sembravano rispettare consciamente questo suo desiderio di solitudine; in terzo
luogo si muoveva in modo innaturale sì da sembrare un essere dissociato,
mantenendosi rigorosamente tuttavia, in un rettangolo ideale di un metro per
due. Forse ciò accadeva da parecchie sere; forse addirittura da
parecchie estati, ma nessuno l’aveva mai notato. Dopo quella
volta mia madre attese ansiosamente, per una settimana circa, che le
ultime ombre della sera prendessero possesso dell’orto: voleva rivedere la lucciolona solitaria. L'insetto non deluse mai
l'aspettativa: arrivava puntualmente alonato dal suo
verdognolo mistero e subito iniziava la manfrina sull’aiuola di radicchio che
aveva eletto fin dal suo primo apparire ad area di passeggio. Mia madre non
ebbe bisogno di altre prove: là sotto c’era un morto, come se n’erano trovati
anni addietro nella zona, e la lucciola ne era l’anima implorante una sepoltura
cristiana. Nonostante tale certezza non accennò alcunché ad anima viva; ma la
mattina dopo, per tempo, sacrificando coraggiosamente tanta buona verdura,
incominciò a scavare. Naturalmente tutti in famiglia ne fummo subito coinvolti;
e, sia mio padre sia i miei fratelli maggiori, per quell’attaccamento alla fede
cattolica che distingue gli abitanti di queste zone, non sollevarono dubbi
sulle illazioni di mia madre. Bene, il morto venne
trovato davvero. Meglio, furono rinvenute le ossa di quello che poi venne identificato come uno dei tanti Franz
o Otto o Hans, per mezzo della piastrina di
riconoscimento. Immediatamente la mia famiglia fu al centro dell’attenzione e
tutto prese una piega ufficiale. Ci furono discorsi, cortei, messa solenne quando, da una cittadina della Germania giunse una
delegazione per farsi consegnare i resti del suo concittadino. Si rendeva così
omaggio al “nemico” di ieri nell’”alleato” di poco dopo. –
Tratto da Celeste
Chiappani Loda, Nodo scorsoio
Pubblicato anche sulla rivista Logos