Il giardino del Tè nell'antico Giappone

Il periodo Momoyama (compreso tra il 1573 ed il 1603) aggiunse ai tipi di giardini già esistenti, il giardino del Tè (chaniwa), correlato alla nascita della cerimonia del Tè (sadō o chadō). Questa, grazie alla sensibilità estetica dei maestri del Tè (che prendono il posto dei monaci Zen divenendo anche progettisti) fra cui emerge lo spessore di Sen no Rikyū (1521-1591), raggiunge vertici di raffinatezza tale da essere considerata un piccolo evento artistico. Ma è anche un’estensione simbolica dell’esercizio meditativo Zen che accompagna, con la lentezza dei suoi gesti, le azioni quotidiane. Sebbene l’arte del bere il tè fosse nata nel precedente periodo, solo ora la sua diffusione diventa più ampia comportando la specializzazione di molti maestri del tè e la necessità di avere un luogo dove poter svolgere la cerimonia[1]. Si profilò, quindi, l’esigenza di realizzare una specifica architettura (sukiya) dalla struttura apparentemente rustica e modesta e di organizzare il giardino ad essa relativo. Al clima di assoluto raccoglimento che impera all’interno della casa (o padiglione) del tè, si contrappone un maggiore estro decorativo del giardino che si sviluppa come un lungo sentiero (roji) che mette in collegamento il cancello d’ingresso con la stanza (chashitsu) o con il padiglione del tè, una volta superata la zona d’incontro e di attesa (machiai)[2].

L’essenza e la finalità di questa cerimonia erano il conseguimento di un sodalizio armonico tra i partecipanti e la creazione di un equilibrio ideale tra corpo e mente, per liberare gli ospiti dalle tensioni della realtà mondana. La funzione del giardino è di favorire la disposizione spirituale degli ospiti all’atmosfera della cerimonia del tè, con l’ausilio degli elementi costitutivi, disposti sapientemente nello stretto percorso del sentiero. A tale proposito, riveste una certa importanza la collocazione delle pietre da camminamento sistemate ad intervalli irregolari, appositamente per indurre il visitatore a guardare in basso per poi rialzare lo sguardo che viene attirato, man mano che si procede, dai continui cambiamenti di specie vegetali e di disposizione degli altri elementi. Un vero e proprio controllo dei sentimenti che prende il sopravvento sul controllo del movimento. Poiché vanno eliminati elementi che possano distrarre la concentrazione dei visitatori, a fiori e a piante dai colori e dalle caratteristiche vivaci, si preferisce la messa a dimora di sempreverdi e di muschio. Circa gli alberi, i giardinieri preferiscono specie modeste dalla bellezza reticente, mentre, in merito alle rocce, volendo evitare l’effetto di qualcosa di artificiale, esse vengono collocate in maniera tale da sembrare un perfetto percorso montano. È escluso l’impiego della tecnica dello shakkei poiché tradirebbe lo spirito fondamentale del giardino, che non deve concedere riferimenti all’ambiente esterno. La casa del tè, solitamente realizzata in legno (in pieno rispetto della natura circostante) dovrà riprodurre l’aspetto di eremo rustico, immerso in uno scenario simile a quello delle brulle montagne: le pietre, gli alberi e le rocce suggeriscono l’ampiezza di paesaggi montani remoti ed impervi, con la loro disposizione apparentemente casuale. L’arte come espressione del naturalismo e l’amore per la vita semplice, che si opponevano all’opulenza dell’arte dei castelli e dello stile di vita dei feudatari (daimyō), comportarono la definizione del gusto estetico dei giardini i quali, per reazione, si liberano degli eccessi e ritrovano la loro essenza originaria, espressa dall’ideale di wabi. Questo, che richiamava l’idea della meditazione filosofica Zen nelle celle di montagna, indica una bellezza semplice ed un’eleganza disadorna che caratterizza i giardini dell’epoca, ricoperti di una patina antica e rustica, nota con il nome di sabi[3].

Ciò che circondava la casa del tè doveva avere un’ambientazione simile e, secondo i conoscitori del tè, tale effetto lo si poteva ottenere solamente utilizzando poche pietre e pochi alberi collocati in posizione armonica. La tecnica di progettazione del roji prevede la realizzazione di sentieri e l’inserimento di accessori innovativi ed originali (lanterne, bacili per l’acqua di purificazione, pietre grezze per la pavimentazione), oggetti necessari alla cerimonia e, conseguentemente, l’inclusione di precise regole in ordine alla loro posizione. Tali complementi d’arredo caratterizzano fortemente questa tipologia di giardino.

L’impianto più rappresentativo di questo stile è quello afferente alla Villa imperiale di Katsura.

La parte originale era costituita da un lago, precedentemente realizzato nella villa di montagna costruita per il principe Hachijō-no-miya Tomohito. Lo stagno fu ampliato in due fasi successive tra il 1590 ed il 1640. Si tratta di un complesso che copre 10 acri costruito così magnificamente che non è solo uno dei giardini più caratteristici dell’era Momoyama ma, forse, il più esemplare di tutte le epoche.

Il giardino, man mano che ci si avvicina all’edificio principale, è costituito da un pavimento di pietre da guado, da un lato è stato collocato un bacile di roccia, mentre sul lato opposto si vedono un albero e una lanterna di pietra. Un sentiero, fiancheggiato da lanterne che illuminano il percorso, conduce dal cancello centrale fino alla veranda, anche questa fiancheggiata da un bacile lapideo. Tutti gli elementi presenti in tale giardino sono stati progettati prevedendone una precisa utilità.

Il giardino della Villa di Katsura può essere definito come giardino roji, ovvero “un giardino il cui sentiero conduce fino alla casa del tè” ed è diametralmente opposto al Daisen’in. La sua origine risale alla casa del tè di Myōkian nel cui giardino il fiume Yodo ed il monte Otokoyama Hachiman erano nascosti da una siepe. Si nota quindi, come l’idea che soggiace alla costruzione di un giardino roji sia del tutto opposta a quella che presiede alla costruzione di un giardino con la tecnica dello shakkei.



[1] I maestri più importanti di questa cerimonia sono: il monaco Jukō (1422-1502) e Sen no Rikyū, fondatore della scuola Urasenke, che impartì le nozioni salienti per una buona esecuzione del rito di preparazione della bevanda. La diffusione della cultura del tè, sempre più ampia, comportò l’osservanza di una complessa etichetta legata allo svolgimento del suo rituale e contrassegnò le migliori produzioni artistiche dei periodi Muromachi e Momoyama.

[2] Il giardino del tè stesso veniva chiamato sentiero o roji, cioè il percorso verso la sala del tè alla quale solo il padrone di casa accedeva da un corridoio che si sviluppava dall’edificio principale, mentre gli ospiti entravano direttamente da un cancello situato nel giardino stesso percorrendo un sentiero di pietre da guado, proprio perché il giardino era concepito come qualcosa da percorrere e non da ammirare dall’interno della dimora.

[3] Un dettaglio che esprime questo nuovo senso estetico è rappresentato dai muschi e dai licheni che ricoprono le pietre dei giardini, conferendo loro un aspetto vetusto, di apparente trascuratezza che renda l’idea del tempo trascorso.