Ecco l'enorme fico che,
in pochi anni, s'è fatto adulto e ricco. Ricco di foglie ruvide e tenaci, ricco
di frutti succulenti che riusciamo a cogliere solo in minima parte, per cui, a
maturazione, coprono il suolo intorno al tronco, della loro polpa rossa. Ma ora
siamo a marzo e, foglie e fichi sono solo in potenza: sono nella linfa che sale
dalle radici su, lungo il tronco, fino all'ultimo dei rametti che sovrastano il
tetto della rimessa, che si sacrificano sotto la gronda ripiegandosi all'indietro,
che lambiscono il tetto della casa.
Striature nere rigano
fusto e rami color cenere: sono quelle lasciate dall'umidità invernale che colò
nello smog; ma il mio fico non è propriamente un povero albero di città: ha
tanto spazio tra rimessa e casa e di esso approfitta. Siamo a marzo, dicevo, e
il miracolo di nuove gemme s'è compiuto. Tra di esse, ignare e turgide di
promesse, una trentina di passeri e merli fedeli fanno gazzarra. Chissà se
ricordano la dolcezza dei frutti settembrini che essi fanno cadere a colpi di
becco!
Sono ben pasciuti questi
uccelli perché, oltre a briciole abbondanti, sparse durante tutto l'inverno,
avevo lasciato alcuni grappoli di uva fragola sulle viti che formano un chiosco
lì, vicino al fico, nonché vari cachi corposi, dal colore brillante di piccoli
soli autunnali appesi ai trami ormai spogli di foglie.
Tutto ciò non solo per i
passeri e per i merli, ma anche per il pettirosso, solo soletto, che sverna qui
da più stagioni, ormai. A dire il vero non sono mai riuscita a capire se sono
di più ma che si presentano uno per volta o se veramente è una povera creatura
solitaria quella che vedo.
Alingo, il gatto dal
mantello che non ha un solo pelo men che candido, con due enormi occhi
cangianti dal verde al giallo fosforescente, e Gionata, il cane dalla taglia
piuttosto piccola, in cui prevale tra le molte razze frammiste da chissà quante
generazioni, quella del setter, guardano sempre profondamente interessati
quello svolìo. Il gatto ingordamente, si capisce, arrampicandosi svelto come
una saetta, ora su un ramo ora sull'altro ma
rimanendo sempre scornato; frustrazione che palesa con un frenetico
dimenar di coda. Il cane, invece, spiccando goffi salti e rimanendo appoggiato
per qualche secondo, con le zampe anteriori, al tronco, ogni volta viene
puntualmente da me per mugugnarmi il suo malcontento.
Purtroppo capita, anche
se assai di rado, che Alingo nelle sue battute di caccia, sia fortunato; e,
quando almeno me ne accorgo, devo intervenire onde sottrarre ai suoi artigli,
terrorizzate lucertole tanto vulnerabili, o topini patetici nel loro struggente
squittire, o infelici nidiotti.
È pur vero che per ogni
occasione di queste offro al gatto una contropartita fatta di un morso di
formaggio; ma la bestia non ha mai visto di buon occhio questo mio
intromettermi per sottrarle ciò che si è onestamente guadagnata, secondo la sua
logica.
Gionata, quando sia
presente a questi armeggi, non sta più nella pelle dalla gioia e mi dà man
forte con ogni mezzo. Mi chiedo spesso che cosa possa passargli per la mente:
aiuta la padrona in modo disinteressato? Gioisce nel vedere quel cacciatore
tanto più fortunato di lui rimanere a bocca asciutta? Forse, molto più
semplicemente, è contento perché, se Alingo avrà un pezzetto di formaggio a lui
andrà una caramella o un biscotto.
Non riuscirò mai a
saperlo, come non riuscirò mai a sapere che cosa avvenne avanti che - un paio
di mattine fa - mi precipitassi in giardino richiamatavi dai versi rabbiosi del
gatto contemporaneamente all'abbaio indemoniato del cane. Il pandemonio si
sgranava sulla terrazza dove vidi subito Alingo nell'atteggiamento tipico
dell'offesa-difesa, ossia, schiena inarcata al massimo, coda grossa il doppio
del normale per tutti i peli ritti. Di fronte gli stava Gionata non meno
battagliero: zampe anteriori divaricate e saldamente aderenti al suolo, denti
scoperti in un ringhio deciso... Ma che cosa giaceva in terra in mezzo a loro?
Me lo chiesi vedendo un oggetto che, di primo acchito, non riuscii a
identificare. L'incertezza tuttavia durò poco: capii in brevi attimi che tra
quei due indemoniati stava il mio povero pettirosso.
Il meschinello era
malamente accovacciato con l'ala sinistra allargata, evidentemente molto
offesa. Mi precipitai a raccoglierlo constatando che era ancora vivo; ad un affrettato
ma attento esame appurai che non aveva altre ferite, solo il suo piccolo cuore
impazzito sembrava volergli saltare dagli occhietti sbarrati.
Non stetti a far
supposizioni: il pensiero principe, in quel momento era di far qualcosa di
concreto per la povera vittima; e mentre rientravo in casa con il pettirosso
tra le mani, pensai che il poverino doveva la vita all'antagonismo degli altri
due trovatelli.