Dalla raccolta di
racconti La realtà dell'irreale
Ardig si sdraiò sul ventre ed
allungò un braccio per trarre, da sotto la branda, lo Specchio. Lo faceva
sempre a quell'ora.
Egli abitava un
sottotetto. Un'unica stanza piuttosto ampia munita di finestrella che dava su
una via congestionata del centro storico della metropoli. Una finestrella che
poteva far rabbia o tenerezza a seconda degli umori di
chi la guardava; tenerezza per la sua innocente esiguità, rabbia per la sua
inabilità ad espletare le funzioni proprie di questi occhi di casa: funzione
igienica e panoramica. Quadrata, cinque spanne di lato, andava dal plafone
paurosamente basso su quella parete, fino a radere il pavimento di sconnesse
assi rinsecchite. Con il buio, dai vetri eternamente sporchi, entrava una
piccola porzione di luce che riusciva a scappare dalla forza del lampione
stradale, un po' più sotto, che la costringeva in basso. Una luce poverissima,
che si spaparanzava già stanca, come una macchia indefinita, per pochi
decimetri quadrati al di qua dei vetri, in un romboide
dai contorni rosicchiati, corrosi. La sfatta luce lattescente non giungeva fino
alla branda addossata alla parete opposta. Ardig, del
resto, non aveva bisogno di luce: da anni, che non si curava di contare,
abitava lì, ove avrebbe potuto compiere la maggior parte delle sue azioni al
buio. Non che la lampadina di poche candele, opacizzata da vecchi strati di
polvere, che usciva, con vaghe forme di fungo, dall'intonaco annerito
d'incuria, si scagliasse decisa alla vittoria sul buio con
prepotente grinta. Mai più. Essa, che aveva il bene
del lindore solo per pochi giorni quando si fulminava e veniva
sostituita dalla gemella nuova, stava aggrappata ad una cannuccia di ottone
nerastro a macchie verdi di ossido, curvata all'ingiù, per servire ad Ardig nel suo divorare libri, libri e libri durante le ore
notturne d'insonnia. Se mancava la voglia di leggere il nostro preferiva il
buio per riflettere, per graffiarsi con domande inutili come cilici di santi. È
inutile. È follia pura sperare di liberarsi dalla terribile forza che ci
inchioda alla realtà. L'oca ha le ali ma non vola. Così noi abbiamo dentro il
tormentoso lievito delle dimensioni sublimi, eppure nulla può staccarci dalla
pania della meschinità del vivere quotidiano.
Ora lo Specchio stava
adagiato sulla vecchia branda. Tirandosi il polsino del maglione fin sul palmo
della mano e tenendolo fermo con anulare e mignolo, passò con gran cura
l'avambraccio sulla superficie argentea che mandava silenziosi e vaghi baluginìi. Finito questo lavoro stette qualche secondo
immobile, concentrato di corpo e di mente, infine si accinse a compiere la
seconda parte dei preparativi. Appese davanti alla finestrina priva di persiane
una coperta in modo che nessun raggio di luce potesse penetrare nella stanza.
Il buio assoluto era la condizione indispensabile; le Creature dell'Etere erano
state categoriche:
– Caro amico, –
avevano detto, – non puoi non capire che le leggi che
regolano la vita degli uomini sono totalmente diverse dalle nostre. Fidati di
noi, "e più non dimandare". –
All'epoca in cui
avveniva ciò Ardig era al
suo secondo incontro, quello definitivo, con le Creature dell'Etere. Dopo aver
fissato gravemente il suo interlocutore, quell'Essere
straordinario sorrise con una tale dolcezza che l'ometto sentì il suo
malumore sciogliersi immediatamente come anacronistica nebbia al solleone.
– Bene, – disse Ardig sorridendo a sua volta con calore, – vedo che conosci
Dante; ciò mi fa sentire meno "alieno". –
– Dante
e tante altre cose che nemmeno immagini. Ora ti saluto. Hai capito bene come devi procedere o vuoi che te lo
rispieghi? –
Ardig aveva assicurato che ricordava tutto con
esattezza. Era vero.
Ardig aveva un carattere complesso: soffriva del dolore dei suoi simili in
misura assai maggiore dell'auspicabile, contemporaneamente li temeva; ne aveva
anzi una paura che rasentava il morboso. Paura del male che essi compivano ogni
giorno della loro vita, sia come singolo sia come collettività. Male commesso in buona o in malafede, in modo epidermico o
sotterraneo, sottile o grossolano; ma sempre e comunque male spesso, aculeato,
poliedrico. Contro questo male egli combatteva
da sempre e infaticabilmente una lotta senza quartiere, assurda, da Apostolo
Deriso, usando tre tipi di armi: la parola, lo scritto, l'esempio.
Soprattutto in
quest'ultimo aveva fiducia. Mai prestare il fianco alla benché minima critica,
al predichi bene e razzoli male. Continui esami di
coscienza che egli compiva con la scrupolosità di un controllo medico, lo
mantenevano in una meravigliosa consapevolezza di coerenza. Si sentiva
tranquillo e, in tale tranquillità, scagliava i suoi dardi in ogni direzione.
Amava ripetere che aveva a disposizione un bersaglio con molti centri; oppure
molti bersagli. Troppi – aggiungeva amaramente. Là
dove sentiva puzzo di abuso, sopruso, prevaricazione, ipocrisia e quanto altro
di disonesto esista, là egli caricava a testa bassa. Nonostante la sua
incredibile ingenuità di fondo bisogna dire che Ardig era consapevole del fatto che ogni suo dardo
rappresentava un boomerang dal ritorno immediato e incattivito. Le pacche che prendeva! I colpi gli arrivavano con i mezzi più svariati,
ma tutti intesi a fare il vuoto intorno a lui; e arrivavano da ogni parte;
autorità costituita non importa di quale colore fino all'ultimo dei paria, a
dispetto del fatto che egli, soprattutto in favore di costoro, battagliava. "E cresci mezzo metro almeno poi potrai parlare.",
"Ma sentilo quello sgorbio di natura. Non ti sei mai
misurato?", "Va' da mammina, va', che ti
darà il succhiotto!" E così via.
Ma, anche sanguinando tutto dentro, lui procedeva
irriducibile.
Maledetta, stramaledetta
natura matrigna che lo aveva alzato appena un metro e quindici centimetri dalla
base del tallone alla cima del cocuzzolo. Questa amara
considerazione, che per lui era diventata l'aria che respirava, spesso non si
esauriva nella voglia di fracassare tutto, in quella di voltolarsi per terra e
gridare fino a spaccarsi la gola, o in quell'altra ancora di sbattere la testa
contro il muro più e più volte fino a ridurla in poltiglia. Sempre più spesso
tale drammatica considerazione trascinava seco due
domande, una di seguito all'altra senza intervalli. Con un metro e ottanta di
statura avrebbe ugualmente scelto di fare l'Apostolo Deriso? E se sì, avrebbe
incontrato la medesima accoglienza? Onestamente ammetteva di poter rispondere
in modo affermativo ad entrambe. Purtroppo per la
gente le apparenze contano molto. È assai difficile che si compia un piccolo
sforzo per scoprire la sostanza. Questo sì. Ma è altrettanto vero che,
scagliati da un metro e quindici o da un metro e ottanta
i suoi dardi sarebbero sempre stati boomerang. Nessuno ama essere coinvolto in
problemi che non siano strettamente personali. Ogni individuo ha a disposizione
una sola vita e si ama immensamente; nessuna meraviglia quindi che, davanti
alla possibilità di veder turbata la sua sonnolenza placida, fugga a gambe
levate. Forse questa è l'origine di tutti i mali.
Un brutto giorno – era
inevitabile – ecco la classica goccia nell'altrettanto classico
vaso pieno. L'ennesimo lazzo crudele fece sentire il povero Ardig
come un sacco vuoto che reclama il diritto di afflosciarsi per sempre. Bene,
l'avrebbe fatta veramente finita buttandosi dal più alto grattacielo della
città. La decisione era irrevocabile, tuttavia ci mise qualche tempo per
stabilire luogo-giorno-ora. Ma alla fine ci arrivò. Luogo: un condominio in costruzione
non lontano dal centro; per mezzo delle impalcature sarebbe salito il più in
alto possibile. Giorno: l'indomani stesso. Ora: non appena il cantiere fosse
stato abbandonato dagli operai. In seguito ad un paio di sopralluoghi aveva constatato che era molto facile entrare.
Lettere di scusa? d'addio? di spiegazioni? No, non ce
n'era bisogno: a nessuno importava che lui vivesse o morisse.
Ultima notte sulla Terra.
Una notte totalmente
buia. Il cielo coperto minacciava neve. Ardig
sdraiato sulla branda con la luce della lampadina illuminante il libro che
teneva aperto in mano, aveva letto la descrizione della morte di Socrate nel Critone. Avrebbe
voluto leggere il processo e la condanna di Gesù nei Vangeli, ma non se ne
sentì degno. Abbandonò il libro sulle coperte e fissò il vuoto tentando di
immaginare i suoi ultimi momenti di vita. Avrebbe avuto la forza di un pensiero
o di mille pensieri, mentre compiva il volo fatale? Si
sarebbe pentito all'ultimo momento e avrebbe lanciato acute grida al soccorso?
Un torpore molto simile
a quello che ci prende pochi istanti prima che sprofondiamo nel sonno, lo stava
invadendo. Con gesti lenti, come infiacchito da profonda stanchezza, portò
all'indietro il braccio per spegnere la luce. In quella posizione si sentì
afferrare saldamente il polso. Qualcuno lo stava fermando nel suo volo dal
condominio? Eppure non si era ancora gettato…
Finalmente si sentì sveglio del tutto.
– Ciao, Ardig. – Una voce piana, asessuata lo salutava. Essendo ora completamente sveglio gli fu chiaro che avrebbe dovuto
sentirsi in preda a qualche forte emozione: curiosità, indignazione, paura. Al
contrario nulla di tutto ciò. Tolto il cerchio giallognolo formato dalla luce
della lampadina sulla sua testa e la macchia romboidale di pavimento schiarito
davanti alla finestra, il resto della stanza era totalmente nell'oscurità. Ora
lo sconosciuto aveva mollato il polso di Ardig il
quale però non era ancora riuscito a distinguerne la figura. Soltanto
una massa più nera nel buio. Si tirò a sedere appoggiando le spalle alla
parete contro cui stava il lato corto del lettuccio.
Gli si era svegliata una grande curiosità. Chiese:
– Chi sei? Metti la
testa nel cerchio di luce ché ti possa vedere. –
– Certo. Eccomi. –
La stessa voce di prima, strana, che non gli ricordava nessuno. Ora lo
sconosciuto s'era seduto sulla sponda della branda,
con il corpo tutto proteso verso l'ometto. Il viso a pochi centimetri dal suo
era completamente illuminato.
Ardig lo guardò piuttosto a lungo sentendosi a
disagio. La sua curiosità s'era acuita mescolandosi ad
una buona dose d'indignazione. Soltanto ora sembrò misurare tutta la
straordinarietà della faccenda. Ed anche il danno che gliene derivava. Con
quale diritto quello stravagante rompiscatole veniva a strapparlo dal beatifico
torpore che sicuramente preludeva all'annichilimento totale? Sopruso: ecco il
nome del mulino a vento contro cui Ardig
sentiva che sarebbe partito immediatamente, lancia in resta. Con veemenza
sibilò:
– Non ti conosco e
ti prego di dirmi immediatamente chi sei, che cosa vuoi e come sei entrato
qui. –
Le iridi marroni sembravano tremolare nella cornea sporgente come in
mezzo a due laghetti d'albume. Sempre quando si adirava.
– Perbacco,
fratello Ardig, sei veramente fuori dagli stracci a
quanto vedo. –
Il povero nano prese
quelle parole, soprattutto il tono con cui vennero
pronunciate, come un insulto.
– Maledetto
cretino, – sibilò, – con quale diritto vieni a strapparmi dalle mani la pace
che ho finalmente afferrato a prezzo di sacrifici che il tuo cervello lesso non
riesce nemmeno a immaginare? – Parlando si accalorava fino a che le ultime
parole finirono in un grido strozzato dall'ira e nel gesto di buttare indietro
le coperte per saltare al collo dello sconosciuto. Le mani di Ardig, come due artigli inferociti, afferrarono quel collo
nudo che quasi si offriva. Fu una doccia gelida: le dita s'erano
intrecciate e, tra di loro, il nulla più incomprensibile e inaspettato. Un
brivido di raccapriccio fece sbollire d'un colpo l'ira
del poveretto, afflosciandogli le braccia sulle coltri come pesi morti, mentre
lo sguardo rimaneva inchiodato sull'intruso. Alla fine la voce malsicura non s'accordava con l'imprecazione:
– Diavolaccio nero,
vuoi dirmi chi sei? –
– Certo, purché ti
sgombri la mente da ogni idea preconcetta. Sono una Creatura dell'Etere e
appartengo ad un gruppo numerosissimo, al quale è
affidato un compito assai importante ma difficile da spiegare. Diciamo molto,
ma molto approssimativamente che per farti un'idea di noi potresti pensare a
quello che gli angeli custodi sono per un cattolico. Dopo questa
premessa, che non può soddisfarti, lo capisco da me, devi lasciarmi parlare
fino in fondo senza interrompermi. Tanto conosco già
le obiezioni che avresti in animo di farmi se te ne dessi il permesso. Sappiamo
ciò che avresti voluto fare domani; ma non lo farai
perché la tua ora non è ancora giunta. Tu devi stare qui, su questa mela marcia
come chiami la Terra, e sai perché? Ad ognuno è stato
affidato un ruolo fin dalla nascita. Ruolo che deve essere portato a compimento
volenti o nolenti. Non sta all'individuo giudicare sui risultati che ottiene o
che non ottiene. Questi sono calcoli che rientrano nel
gioco dell'economia universale ove nulla va perduto.
Tu stai pensando che l'uomo non è che una povera
pedina. Molti lo pensano e in certo qual modo è vero; ma una pedina che non
serve per un gioco capriccioso. Perché non siamo venuti prima del tuo
crollo? –
Il tizio, notò Ardig, si poneva le domande che egli stesso avrebbe posto e
dava la risposta con prontezza e logica, senza riprender fiato. Il fatto gli
richiamò alla mente un laringectomizzato che incontrava spesso il quale,
appoggiandosi il piccolo amplificatore sotto il mento, poteva parlare
ininterrottamente finché avesse voluto perché l'aria ai polmoni non arrivava
più per mezzo di naso e bocca. Una faccenda tristissima. Quante volte quel ronzìo su un unico tono, articolato in parole, aveva messo
in Ardig la voglia di gridare basta! e di fuggire. Invece, ogni volta, si costringeva
all'impassibilità ascoltando fino in fondo quel disgraziato che "parlava a
macchina" come egli stesso spiegava.
– Non siamo venuti
prima perché tu non eri ancora in grado di recepire
adeguatamente, di lasciarti compenetrare fino in fondo dall'Illuminazione. Tra
parentesi, hai capito, vero, che siamo dalla parte degli anticonformisti, dei
castigamatti morali? Bene, come ho già detto la tua ora
non è ancora giunta e abbiamo preferito intervenire di persona per darti una
spiegazione. Succede assai di rado. I mezzi che usiamo sono altri; poi capirai.
Scegliamo di intervenire di persona presso coloro
contro cui la vita si è accanita maggiormente. Ora mi potresti obiettare che
ogni giorno si sente di casi di suicidi. Verissimo, ma ciò non è in
contraddizione con quanto ho asserito. Voi venite a sapere di coloro che riescono a portare a compimento il cosiddetto
insano gesto, tramite i mezzi di comunicazione o a volte per diretta
testimonianza. Ma quanti sono coloro che sull'orlo di farlo ne vengono trattenuti? O perché interviene un elemento
qualsiasi a far cambiare idea o perché vengono salvati
in extremis, fatto sta che costoro sono assai numerosi, solo che i canali
d'informazione difficilmente ne danno notizia. E sta'
sicuro che una volta toccato quel limite estremo dal quale si siano scostati
all'ultimo momento, nessuno più ama parlarne, né gli interessati né i
familiari. Come avviene che si permette a qualcuno di
arrivare fino in fondo? Nel caso di costoro permettiamo
che portino ad effetto le loro intenzioni perché la missione a loro affidata è
ormai conclusa. Per loro si tratta di anticipare solo di qualche giorno la
morte naturale già fissata. Quindi vedi che il nostro
intervento sarebbe totalmente inutile. Ed ora un
consiglio, se permetti. –
L'ospite singolare aveva
raccolto il libro dalle coperte dandogli un'occhiata.
– I filosofi greci non
tramontano mai, lo sa anche un bambino. Tuttavia in questo momento particolare,
se fossi in te, mi darei a letture di totale evasione. Romanzi polizieschi, ad
esempio, o credi che siano troppo leggeri? Oppure la narrativa ispanoamericana;
non è distensiva, ma ti assicuro che è ricca di suggestioni. Ora ti saluto.
Quanto prima aspettati un mio collega che ti darà delucidazioni più
dettagliate, e prepara lo Specchio che tieni sotto la branda da più di due
anni, ormai. Te lo ricordi, vero? Ciao, Ardig, in
gamba, e non lasciarti prendere da idee pazze, tanto non puoi
sfuggire alla tua sorte. –
Lo Specchio.
Non si può dire che Ardig avesse completamente dimenticato quell'avventura, ma
aveva fatto in modo da non pensarci. Quando gli si affacciava
alla memoria la scacciava cercando di convincersi che quella di cui era stato
protagonista si poteva considerare un'illusione ottica, anche se non era in
grado di spiegarne la dinamica. Questo era quanto si era ripetuto, sia
mentalmente sia a mezza bocca, ma la straordinarietà dell'accaduto era
innegabile e qualcosa lo aveva spinto a sobbarcarsi la fatica di trascinarsi
per mezza città quell'incomodo oggetto. Allo scopo di migliorare il suo
abituro, s'era ripetuto. Uno specchio grande e limpido
come quello avrebbe allargato e schiarito l'ambiente. Invece aveva finito di
confinarlo sotto la branda. Sempre per via di quella impressione
sconvolgente. Ora l'intrigante gli veniva a rilucidare
l'esperienza tanto da renderla nuova fiammante. Da non credere: era bastato che
il tizio pronunciasse la parola Specchio (con la
lettera grande l'aveva pronunciata, si era capito benissimo) che per lui era
stato un immediato rivivere dall'a alla zeta.
Ardig ama vagabondare per la metropoli nella segretissima speranza che prima o poi, magari appena doppiato l'angolo di una via
qualsiasi, si imbatta in una donna che accetti di dividere la sua vita. Ha una
sete immensa di amare ricambiato. E la speranza che muore puntualmente allo
spegnere la luce sulla testa ogni sera, rinasce puntualmente la mattina dopo
appena aperti gli occhi al giorno nuovo.
Pomeriggio di un sabato
di luglio. Vacanze estive e fine settimana che si assommano sortendo l'effetto
di un traffico piacevolmente allentato, di numerosissime vetrine nascoste o
seminascoste da saracinesche abbassate come a proteggere il pedone da assalti
fastidiosi. Pace, dunque, anche se l'afa imperversa.
Ardig, in genere, vuol bene alla sua città; non la
cambierebbe con nessun altro luogo; ma in questo periodo l'affetto che sente
per essa è particolare: tutto gli diventa più familiare, più accettabile. Senonché non può mai staccarsi dal
pensiero del male che i suoi simili commettono ogni ora della giornata; è la
sua croce; per questo, mentre fa aderire la larga pianta del suo corto piede al
suolo, con una sorta di gioia del possesso, pensa che la gente che se n'è
andata, permettendo l'annuale lavacro redentore alla metropoli, è intatta
altrove; anzi, un poco più virulenta perché si sente in diritto di concedersi
licenze inedite; allenta completamente i freni che, forse, in città tengono
ancora un poco; così che compie le sue malvagità quotidiane con più incoscienza
o più sadismo.
Questi pensieri tengono
agganciato gran parte dello spirito di Ardig,
cosicché guarda, quasi senza vedere, quanto lo circonda. Si rende conto che è
una gioia che gli viene rubata e se ne rammarica nel
profondo pur continuando a muovere lentamente i suoi corti passi l'uno dopo
l'altro. Ad un tratto si accorge di essere molto
stanco. Si guarda in giro stranito per fare il punto della situazione; e quasi
non crede ai suoi occhi. Tuttavia deve arrendersi: è senz'altro la darsena,
quella che si trova nella parte sud della città dove il fiume scorre scoperto
per lungo tratto tra le vie, fino alla libertà della pianura aperta. Con i suoi
impianti e le sue chiatte, i suoi edifici vecchi che si affacciano
all'una sponda e all'altra, divisi in isolati da strette e tortuose vie sporche
quasi quanto le vie intorno ai porti di ogni città di mare; per Ardig questo è un luogo di estremo fascino. Ci viene
raramente: vuole dosarsi il piacere perché teme l'assuefazione. La quale,
secondo lui, è la madre della noia che, a sua volta, è uno dei nemici giurati
della vita. Si sente stanco, ma ora sa darsi una spiegazione. Sei chilometri
buoni s'è sciroppato. E quel caldo appiccicoso, poi!
Bene, si siederà sulla panchina di pietra corrosa e ingrigita che sta lì a
pochi passi. È posta in uno slargo della via dove la
ringhiera, che fa da parapetto, rientra come un terrazzino sul fiume. Un
terrapieno rinforzato in cemento ne è la base. Oltre che una panchina qui c'è
anche una provvidenziale fontanella di acqua potabile.
Ardig, prima di sedersi, beve abbondantemente dalle
due mani unite a coppa, poi si rinfresca il viso, infine lascia i piedi nudi
nei sandali scalcagnati, prima l'uno poi l'altro, a ristorarsi sotto il getto
avanti che muoia nella vaschetta alla base del parallelepipedo di ghisa con
decorazioni liberty. Ora si sente fresco e riposato. Che bellezza, pensa. E si
siede con lo sguardo rivolto al fiume di cui vede la sponda opposta. La sua
attenzione è divisa tra le case al di là del fiume e
lo scorrere sonnacchioso dell'acqua sporca, con chiazze oleose che galleggiano
qua e là. Alghe annerite dallo smog e dai rifiuti più svariati, tra greto e
letto, fluttuano ad ogni lambir d'onda che vi si
spinga appresso. Il sole, che sta incamminandosi sensibilmente verso ovest, viene nascosto dal caseggiato proprio di fronte, molto più
alto degli altri. Fa tanto caldo, ma riparati dal sole con la fontanina che canta a pochi passi e il fiume ad un paio di metri dai piedi, ci si sente bene; veramente
bene (se si cerca di non tener conto dell'acqua lercia).
Ci si sente bene?
Oh, eccolo puntuale il
pizzicore provocato dal punto morto a cui era
inevitabile arrivare: è nausea che sale dallo stomaco alla gola di Ardig in fiotti soffocanti, con sapore di succo d'aloe. La
sua mente si mette a lavorare di succhiello sino a penetrare nel cuore di ogni
cosa, sino a vuotare l'esistenza di ogni contenuto. Tutto viene
preso nel vortice di una quintana dove la testa del saracino ghigna rimanendo
intatta per quanti colpi le vengano assestati dai giostratori. Intanto il fiume
scorre lento, impassibile, da nord a sud. Ardig si
accorge di muovere la testa da destra a sinistra, destra-sinistra…
Segue l'acqua, non un oggetto qualsiasi che in essa galleggi il quale riesce
sempre a captare la nostra attenzione in circostanze analoghe. Non quello ma l'acqua come sostanza semplice e misteriosa al tempo
stesso. È così affascinante che ad un tratto
l'uomo la vede come scossa da un brivido che le venga dal di dentro; la vede
ansimare, la sente ansimare, anzi, con l'affanno d'una bestia ferita che sta
per morire, ma che è decisa a trascinare quanto più può nella sua rovina.
L'acqua che s'è fatta più nera, intanto, gonfiata dall'interno ansimare, alza
il suo livello. Eccola: sta lambendo il selciato sotto i suoi piedi; ora gli
bagna le ginocchia, gli giunge al mento…
No! No!
Ardig sbigottito si chiede se realmente abbia gridato.
Sono il caldo e la stanchezza. Senza dubbio sono il caldo e la stanchezza. Ne è
convinto, tuttavia decide che è meglio correre ai ripari. Si girerà in modo da
avere lo sguardo rivolto alla via. La panchina è di quelle che non hanno
schienale. Gli basterà ruotarsi di centottanta gradi e le sue patetiche
gambette si troveranno spenzolanti nel vuoto dal lato opposto. Un'ultima
occhiata all'acqua: tutto è normale; essa sta nel suo letto, scorre lambendo il
greto compiendo piccola violenza sulle alghe senza difesa; di tanto in tanto ne
strappa morsi minuti che trascina seco sonnacchiosa,
misteriosa, affascinante.
Ora Ardig
ha la via davanti a sé e può osservare i passanti: di tutte le età, d'ambo i
sessi, accoppiati, soli, a gruppi. Una metropoli, per quanto si vuoti, ha
sempre molta gente che la percorre in ogni senso. E tali persone, nonostante il
palpabile clima di ferie, si tengono addosso quella
frenesia di movimenti che le fa sembrare trottole pazze, votate all'autoconsunzione come una candela che abbia lo stoppino
acceso ad entrambe le estremità. Eppure tutti costoro "vivono", pensa
Ardig con amarezza. Vivono perché si sono scavati una
nicchia confortevole, imbottita e ben addentro la
quotidianità, dove né suoni né voci né rumori che non siano legati al loro
tornaconto, possono penetrare.
Un vocìo
scomposto distrae Ardig dai suoi pensieri. Proviene
dalla destra. Perciò si gira da quella parte, così può scorgere un vortichìo di membra seminude che si sta avvicinando. È una
frotta di ragazzini che avanza in formazione sparsa. Ardig
si irrigidisce: non ha ancora completamente fatto il
callo alla crudeltà dei ragazzini. Ma essi, parlando tutti
insieme, passano via senza badargli. Superatolo di pochi metri si fermano, appoggiandosi in fila alla balaustra per
dare inizio ad un innocente gioco con il fiume. Veloci e compresi vi lanciano
barchette di carta che si costruiscono con perizia strappando i fogli da vecchi
giornali che si sono portati appresso. Anche Ardig viene preso dal gioco. Si gira nuovamente con la faccia al
fiume per seguire l'adagiarsi delle barchette che subito inabissano perché
cadono in malo modo nell'acqua troppo in basso. Solo qualcuna
ha un corso più interessante perché viene afferrata da un minuscolo
gorgo che la fa ruotare su se stessa; ma per poco. La corrente lentissima non
presenta sorprese; e quei vortici minuti non si noterebbero nemmeno se non
fosse per le barchette che vi incappano. I ragazzini
si stancano presto. Ecco la tabe della noia che afferra anche loro. La voce che
era stata contenuta durante i lanci si alza nuovamente di un'ottava.
Abbandonando per terra i giornali non usati corrono via ridendo e spingendosi. Ardig li segue fino a che spariscono dietro l'angolo, dalla
parte opposta a quella da cui sono venuti. Li vede come giocattoli a molla
tutta carica. La noia, per loro, non ha ancora il terribile nome di taedium vitae. Ora che ha rifatto amicizia con il fiume
volta definitivamente le spalle alla via per osservare le case sull'altra
sponda. Tutte case dai muri cariati, a tre, quattro, cinque
piani, vecchie di uno o due secoli, con le imposte stinte, alcune scardinate.
Nel corpo di qualcuno di questi edifici si vedono dei vuoti: sono le scale che
salgono fino agli abbaini, e da tali vuoti prendono luce. All'interno, dalla
parte dei cortili, Ardig sa che ci sono balconate ad ogni piano che tengono tutta la lunghezza della facciata
con la garitta del gabinetto comune ed il gran pavese della biancheria stesa.
L'osservatore pensa che un secolo o due fa, su quei
ballatoi, lungo quelle scale, in quegli androni, chissà quanti ragazzini
dell'età di quelli che ha appena visto, vi hanno pesticciato, urlato, riso,
corso, pianto. Soprattutto chissà quante volte la loro legittima richiesta di
caldo e di cibo non ha potuto essere soddisfatta.
Queste considerazioni
inutili – lo sa bene – gli ricordano, ad un tratto,
che non ha ancora mangiato e gli risvegliano l'appetito. Estrae allora dal
sacchetto di plastica che si è portato appresso un panino con il formaggio, una
mela e una bottiglietta di vino scadente. Sempre nelle sue "passeggiate
della speranza" si porta del cibo. Non possiede orologio; ma questo non ha
importanza: quel pasto potrebbe rappresentare uno qualsiasi dei tre che l'uomo
abitualmente consuma durante la giornata. Potersi sfamare è uno dei sacrosanti
diritti dell'uomo (e di qualsiasi animale – almeno in teoria); cibarsi quando
se ne ha voglia senza dover sottostare ad orari
preconfezionati è meraviglioso. Ardig se lo può permettere
e lo ritiene un privilegio. Egli non è né buona forchetta né buongustaio, ma si
nutre con piacere. Così fa anche ora: divora tutto con gusto. Alla fine
raccoglie le briciole che ha avuto cura di lasciar
cadere nel sacchetto aperto sulle ginocchia, nel cavo della mano; apre la bocca
e, con un colpo secco all'indietro della testa, ve le lascia cadere. Le sue
briciole sono, di solito, destinate a passeri e a piccioni ove ve ne siano, ma
lì, in quel luogo, non se ne spiega la ragione, non ne ha mai visti. Dà fondo
all'ultima sorsata di vino, risciacqua la piccola bottiglia sotto la fontanina, la ripone nel sacchetto ficcandosi tutto nella
capace tasca dei pantaloni. Nota soddisfatto che la stanchezza se n'è proprio
andata; tuttavia la strada che lo separa da casa lo disturba perché la deve
compiere a piedi, non avendo i soldi per il tram. Mentre considera questa
spiacevole necessità ripassa la mappa della metropoli
che ha ben chiara in testa. Vuole trovare una scorciatoia. Dopo un calcolo
approssimato si convince che, attraversando il vecchio rione dell'altra sponda,
accorcerà la strada di un buon quarto d'ora. Molto bene,
pensa tra sé mentre transita sullo snello ponte in ferro solo per pedoni, a
pochi passi più a valle. E subito si trova catturato dal groviglio di viuzze e
di vicoli immersi nella luce radente d'una torrida
giornata sul morire.
Ardig cammina abbastanza speditamente perché ha fretta
di rinchiudersi nella sua soffocante solitudine con la quale ha un rapporto di
odio e amore. Di tanto in tanto si guarda i piedi neri
di polvere e pensa che una volta a casa farà un pediluvio nel catino smaltato.
Ad un tratto si blocca senza una ragione precisa.
Ciò che vede guardandosi intorno lo getta in un
profondo smarrimento. Le case sono molto diradate e basse, quasi cascinali se
non fosse che la distanza che le separa è ancora
ravvicinata. La campagna qui oppone le sue ultime difese con appezzamenti
incolti o mal coltivati con qualche piccolo orto, tipico di ogni periferia,
recintato per mezzo di materiali i più svariati: assi, bandoni, graticci, fogli
di plastica. Poche decine di metri ancora e la campagna è
già definita. L'uomo inoltre nota che anche l'ultimo lampione è rimasto
indietro da un pezzo. Si è smarrito. Tuttavia non ne è sorpreso. Infastidito sì,
e molto anche; ma per nulla sorpreso perché è, questo di smarrirsi, di perdere
la tramontana, un fatto piuttosto frequente. Quante camminate in più gli ha
fatto fare! È una faccenda strana, però.
Basta che si muova in un luogo che non frequenta spessissimo e subito, al primo
svoltar di via, è come che tutto si capovolga intorno a lui: il nord diventa
sud, l'est diventa ovest e viceversa. Stessa direzione
ma senso contrario. E prima che la ragione intervenga
ha già coperto chilometri.
Tempi addietro un ciarlatano
che si spacciava per guaritore gli disse che si
trattava di labirintite cronica la quale si riacutizzava nei casi di stanchezza
fisica o mentale o di sovreccitamento. Il tizio gli aveva garantito la
guarigione dietro adeguato compenso. Naturalmente Ardig
non aveva raccolto e s'era tenuto il suo disturbo
pensando che per un individuo privo di impegni com'era lui, non era un gran
danno. Tuttavia stasera la faccenda pesa: per quanto gli è dato sapere i
chilometri che lo separano da casa possono essere una
decina e più. Ma a tutto v'è rimedio. La notte si
prospetta calda e tranquilla, inoltre nessuno si preoccupa che lui rientri o
no. Perciò dormirà al riparo degli alberi che vede profilarsi a pochi passi, in
un gruppetto. Non si capisce bene che alberi siano: la luce lunare sembra
stilizzarli. Forse sono pioppi. Ardig non ama dormire
all'addiaccio. Preferisce che il suo corpo indifeso dall'incoscienza del sonno
possa contare sulla protezione dei muri. Purtroppo ormai le gambe sono di
piombo sì da temere persino di non poter raggiungere la macchia di alberi a
pochi metri, anche perché il terreno su cui crescono è ben più basso della sede
stradale; si aggiunge in tal modo la fatica della discesa di una ripida
scarpata.
Per fortuna ce l'ha fatta. Eccolo qui finalmente
protetto (o minacciato?) da quelle siluette spettrali irrorate di luna.
Aveva visto giusto, comunque: sono proprio pioppi adulti e ricchi. Una decina in tutto raggruppati in poco spazio e ingiustificati in
questo gerbido. Giustificati o no, pensa, essi
sono lì forse più protettivi che minacciosi. L'omino si tranquillizza. Nello
stesso tempo avverte un odore nauseante che gli giunge a zaffate acute. Si
guarda in giro con una certa apprensione e vede, un
poco più avanti, una discarica abusiva. Be', veramente quella è proprio poco provvidenziale; ma tant'è: dovrebbe vedersi
comparire davanti una fiera affamata per trovare la forza di rimettersi in
cammino.
Tra i pioppi il terreno
è coperto di un'erba dura e rinsecchita. Ardig
controlla bene che tra di essa non vi siano sorprese. È un sopralluogo assai
faticoso per la luce scarsa che penetra fin laggiù, tuttavia gli pare di notare
nulla di sospetto anche se stenta a crederci, visti i
tempi ed i luoghi così favorevoli per certe "necessità". Sperando in
bene si sdraia con gran sollievo di tutto il corpo. Ha appena il tempo di
avvertire abbai di cani dislocati un poco ovunque, gli pare, di udire fruscii
vicinissimi, canto di grilli, piccoli schiocchi come di rametti secchi
spezzati, il tutto in una confusione piacevole che gli concilia un sonno
immediato e profondo.
Si sveglia poco dopo con
le membra intorpidite e impiega parecchio tempo a fare mente locale. Alla fine
ricorda. Si pone a sedere e ascolta le voci naturali tanto inconsuete alle sue
orecchie. Non può sapere per quanto tempo abbia dormito, in ogni modo ora è
completamente sveglio; così si alza e muove alcuni passi in qua e in là per
sgranchirsi.
Quand'ecco che il suo
sguardo viene catturato da un baluginare che proviene
dalla discarica. Il poveraccio non è un cuor di leone, in compenso è dotato di
una fantasia che più di così si muore: con il cuore in gola ripara dietro il
pioppo più robusto. Magari qualcuno è venuto a bruciare prove compromettenti.
Spionaggio? Assassinio? Ardig azzarda un'occhiata
oltre il tronco: il lucore è sempre là ma non è quello di un incendio. Povero
coniglio imbecille! s'arrabbia sempre con se stesso
quando si lascia prendere dal panico per nulla. Ora ha capito di che si tratta:
la luce lunare colpisce qualche superficie lucida che la riflette. Senz'altro
c'era anche quando è arrivato; ma, o non ci ha badato intento com'era a
cercarsi un giaciglio, oppure la posizione del satellite non permetteva il
verificarsi del fenomeno. Ora può vedere senza ombra di
dubbio che la superficie illuminata dalla luna è uno specchio. Ardig si avvicina senza una ragione specifica. Gli sta di
fronte a pochi centimetri, ormai, e vede che è uno specchio lucidissimo, senza
cornice ma integro: non una macchia, non uno sfregio, non un'incrinatura. Qualcuno
ha voluto disfarsene, evidentemente; ma si avverte
qualcosa di sfasato in tutto l'insieme. E come che si sia posta ogni cura per
mantenere allo specchio la sua dignità intatta, ponendolo ben dritto addossato ad un palo infisso nel terreno al limite della colata di
rifiuti. Sarebbe stato più logico che l'avessero buttato dall'alto facendolo
finire in mille pezzi sul mucchio di avanzi d'ogni genere.
Ardig pensa e guarda notando che la sua personcina vi appare riflessa per intero con un margine in
sovrappiù, sia ai lati sia in alto. È strano, lui che odia gli specchi ed ogni altra cosa che gli rimandi l'immagine del suo fisico
infelice, sia invece attratto da ciò che vede. Così fissa quella superficie
lucida intensamente e a lungo, quasi in modo doloroso, fino a che perde il
senso della realtà…
Non è più dolce bagno di
luna quello che riflette lo Specchio, ma una fiammata solare in tutto il suo
splendore. E lo Specchio si alza, si allarga, contemporaneamente alla figura di
Ardig che si allunga e si ingrossa,
in sincronia.
Quella figura è tanto
alta ormai, altissima: un metro e ottanta, due metri e
trenta, tre metri…
Le orecchie di Ardig-gigante ronzano; ed il ronzìo, che è quasi musica, cade in grembo ad un silenzio
totale, disumano, sceso all'improvviso tutto intorno. Ronzìo
e silenzio. Ardig chiude gli occhi in preda a
profondissima emozione, per un tempo che non è più tempo
ma solo meravigliosa forza lievitante al di fuori di ogni dimensione umana.
Pian piano il ronzìo scema nella stessa misura in cui le voci tornano. Ardig riapre gli occhi. Lo Specchio è sempre lì, lucido,
intatto, senza cornice, alto un metro e venti, largo
circa novanta centimetri.
Ardig riconosceva di possedere due piccole fortune. È vero che talvolta era
preso dal dubbio di gonfiarle un po' troppo per timore di dover soccombere
sopraffatto dalla consapevolezza di essere vittima
della iella più nera. Una di tali fortune consisteva nel fatto che, per quanto
riguardava i beni materiali, egli era completamente immune dal desiderare cose
che mai avrebbe potuto procurarsi. La seconda fortuna
era strettamente legata alla prima e consisteva nella possibilità di non dover
mai obbligare il suo irriducibile individualismo al compromesso della
promiscuità, dei profondi e unti inchini, del lucchetto alle labbra; consisteva
nella possibilità di non tener legato il suo estro alle lancette dell'orologio
per il tozzo di pane quotidiano.
L'ometto doveva questo
bene prezioso ai genitori.
Per lunghi anni aveva
pensato a loro con odio accusandoli di averlo generato senza chiedergli il
permesso. Poi, andando avanti con l'età, l'odio s'era
tramutato in indifferenza dapprima, in compassione alla fine. Aveva solo un
vaghissimo ricordo di quei due. Se non fosse stato per una fotografia, formato
cartolina, che li ritraeva interamente e che aveva sempre conservato, essi, per
quanto lo riguardava, potevano non essere mai esistiti. Quel cartoncino invece
gli mostrava due persone in carne ed ossa, banali in tutto, dal fisico al viso.
Almeno s'era fatto questo concetto – o preconcetto – e
non aveva mai voluto andare un pochino più a fondo. Da notizie sporadiche seppe
che avevano lavorato entrambi, per molti anni, in un piccolo circo dove si
erano conosciuti e sposati. Lei, una trapezista che, durante uno spettacolo, s'era rotta l'osso del collo; lui, un pagliaccio che, dopo
il fatto, non aveva più saputo ridere né far ridere e s'era lasciato uccidere
in breve tempo dall'alcool e dall'inedia. Ma avevano
sempre pensato a lui, povero infelice, vincolando a suo nome tutti i risparmi
che dovevano essere costati sangue e sudore.
Erano passati
lunghissimi e dolorosissimi anni per Ardig. Li
avrebbe incontrati da qualche parte? Può il martirio di una vita di dolore e di
rinunce creare un Aldilà?
Tutto è pronto. Ardig appoggia lo Specchio alla
branda. Ha solo da porvisi ritto davanti e
concentrarsi.
"Ho
il potere di parlare ai miei simili del bene che possono compiere e del male
che non devono compiere. Ora
acquisterò una grande forza morale perché il mio spirito risiede in un corpo di
gigante." Ardig è
fiducioso: da anni il miracolo si compie…
Ecco il segnale: un
lieve sfrigolìo come di rametto verde che arda
malamente. Poi un alone rossastro si forma intorno allo Specchio. Vi rimane
qualche secondo. Ma ecco alla fine l'esplosione di
luce abbagliante. Lo sfrigolìo si trasforma in ronzìo che pare musica. Ardig
fissa la sua immagine che aumenta insieme con lo Specchio.
Ora è alto, altissimo. Un metro e ottanta, due metri e trenta, tre metri…