1985
In questi ultimi tempi il problema ecologico ha assunto
proporzioni macroscopiche al punto che nessuno più può ignorarne l'esistenza se
non proprio misurarne l'entità. Tutti ne parliamo, tutti ne discutiamo, ma in
troppo pochi ci sentiamo così coinvolti da essere spinti a fare qualcosa di
concreto purchessia, relativamente al nostro piccolo o grande raggio d'azione.
Questa è una frase che ho usato tante di quelle volte da
sentirmi – ora che la ripeto – come un disco che si sia incantato su tali tre o
quattro parole. Comunque un fatto nuovo mi induce a riprendere il discorso.
Proprio in questi giorni ho terminato la lettura del volume Il ritorno degli esuli, dello scrittore
americano Malcolm Cowley, vissuto nella prima metà del nostro secolo. Alcune
righe di detta opera mi hanno profondamente colpita portandomi a riflettere su
un paio di fatti che, magari, per tanti lettori possono anche essere scontati:
si iniziò ad avvertire il disastro ecologico già alcuni decenni fa e tale
andazzo – né più né meno che un'orda di cavallette premeditate, o meglio,
destinate a distruggere – si sposta, inesorabile e mostruoso, da un continente
all'altro lasciando come scia, cicatrici irreversibili ed esiziali per ogni
creatura vivente.
Ecco le righe: "… la regione era mutata da quando la
nuova strada di cemento l'aveva attraversata: i boschi erano scomparsi, le
fitte querce erano state abbattute e non rimanevano che ceppi, sterpaglia, rami
secchi ed erbacce, là dove si trovavano boschi".
E più avanti: "Un anno dopo l'altro aumentava il numero
delle fabbriche che impiegavano un numero sempre più grande di lavoratori
producendo un maggior numero di beni per ora-uomo; un anno dopo l'altro
aumentava il numero delle automobili sulle autostrade, si infittivano le folle
e diventavano più abbaglianti le luci nelle metropoli, mentre nei sobborghi si
moltiplicavano le case completamente attrezzate con radio, frigoriferi,
aspirapolvere e tostapane automatico. Anno per anno le pagine pubblicitarie
diventavano sempre più spudorate; blandivano, lusingavano, tentavano,
esercitavano pressioni sul pubblico o addirittura lo spaventavano inducendolo a
vendere o a gettar via tutto quello che s'era messo in casa l'anno prima, e per
destar l'invidia dei vicini acquistando a comode rateazioni mensili […]. Il
sistema degli acquisti a rate aveva indebitato un sempre maggior numero di
persone: tutti si sforzavano di arrotondare lo stipendio meritandosi premi
speciali, e di conseguenza avevano sempre meno tempo libero per godersi i nuovi
acquisti […]. Gli scrittori avevano cominciato a lamentarsi affermando che il
progresso lasciava sempre meno tempo libero per leggere, per fare del
giardinaggio, per trascorrere le serate in famiglia, e pochissimo campo libero
alle virtù come l'indipendenza e l'onestà".
Reputo le osservazioni di Cowley, almeno in questo contesto,
non eccessivamente cariche di vis polemica; nondimeno giungo ad una duplice
conclusione: in queste righe il problema ecologico viene adombrato in un tronco
con due rami strettamente correlati tra loro. Il primo riguarda la protezione
vera e propria della Natura; l'altro il pericolo dello slittamento, purtroppo
già in atto in modo eclatante, verso la folle civiltà consumistica fatalmente
tesa alla distruzione totale delle risorse vitali della Terra, per il profitto
immediato di pochissimi. I quali, purtroppo, a mano a mano che perdono il ben
dell'intelletto, stringono con più caparbietà il coltello che tengono dalla
parte del manico, decisi a non cedere di un solo millimetro, o – chi lo sa!? –
impossibilitati ormai a farlo, al buon senso.
Ogni mobilitazione sembra (e forse lo è) ormai inutile; ma
la volontà e la speranza devono essere le ultime compagne ad abbandonare il
combattente in buona fede.
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