Quando un medico ha la passione del teatro. Intervista al dottor Paolo Carrieri
20 giugno 2011
Pallottole su Broadway di Woody Allen:
un momento dello spettacolo. A sinistra Paolo Carrieri nel ruolo di David Shayne;
a destra Monica Mencarini nel ruolo di Helen
Sinclair.
Foto
Alberto Calcinai
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Dottor Carrieri, partiamo dalla sua
professione. Me lo permette un inizio provocatorio?
Oggigiorno gli episodi di malasanità sono cronaca spesso quasi giornaliera:
possiamo sperare in un cambiamento?
Certamente dobbiamo sperare e lavorare affinché tali episodi
si riducano il più possibile. Occorre però avere bene in mente che per un
episodio di malasanità che finisce sui giornali e di cui si ha notizia, ve ne
sono migliaia di buona sanità di cui nessuno parla.
La figura del vecchio medico di famiglia, che sosteneva la
professione con una carica di umanità, quanto è mutata?
Negli ultimi anni i progressi della Medicina, soprattutto
dal punto di vista tecnologico, sono stati enormi. I media “bombardano”
l’opinione pubblica con informazioni di natura sanitaria dai toni spesso
eccessivi, ingenerando a volte inutile preoccupazione, altre false aspettative. In questo nuovo contesto
il medico di famiglia resta comunque un importante e molto apprezzato punto di
riferimento per il Paziente.
Quali sono i filtri emozionali che, nella propria professione,
un medico deve necessariamente attivare?
Deve cercare di non farsi troppo condizionare emotivamente
dal paziente o dal suo contesto. Da un lato porsi in
modo empatico senza farsi coinvolgere eccessivamente dall’ansia della
situazione, dall’altro cercare di mantenere la lucidità emotiva necessaria per
affrontare il problema con la massima razionalità.
Pallottole su
Broadway di Woody Allen: un momento dello spettacolo. Monica Mencarini e Paolo Carrieri.
Foto Alberto Calcinai
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Veder morire una persona che è stato
impossibile salvare.
La morte fa parte della vita e si trova spesso al termine di
un percorso di malattia. Nel corso della mia professione ho visto morire
serenamente, circondate dall’affetto dei loro cari, persone che erano pronte e
avevano accettato questo atto finale, ineluttabile
della loro vita. Questo mi ha fatto molto riflettere sulla necessità di
elaborare la morte come un fatto naturale, per la quale è importante
prepararsi.
Veder morire un bambino.
Fortunatamente non ho mai vissuto una simile esperienza e mi
auguro di non doverla mai affrontare.
Quanto cambia, dal punto di vista emozionale, per un medico,
assistere chi muore di malattia e chi, invece, di incidente?
Come dicevo prima, la morte si trova spesso al termine di un
percorso di malattia e ci può essere il tempo per cercare di preparare il paziente
e i familiari. Un incidente è qualcosa di devastante che in un attimo cambia la
vita delle persone e lascia spesso tracce indelebili nella psiche dei
familiari.
Che cosa pensa di Albert Schweitzer?
Cosa si può dire di un uomo che ha rivoluzionato la sua vita
per dedicarsi agli altri? Molti pensano fosse un medico che ha lasciato la sua
professione per andare in Africa. In realtà Albert Schweitzer era tutt’altro:
era un teologo e un musicista. Come tale non poteva certo portare il sollievo
che voleva ai sofferenti. Fu per questo che a
trentasei anni prese una seconda laurea in medicina, si specializzò in malattie
tropicali, abbandonò tutto della sua vita precedente e se ne andò in Africa.
Incredibile!
Che cosa pensa di Patch Adams?
Vedere un bambino costretto a vivere la sua malattia anziché
la vita e il gioco di tutti i bambini della sua età è
terribile. Ridere è terapeutico per tutti, sani e malati. Essere riuscito a
portare il sorriso sul volto di chi soffre, ad aggiungere alle altre terapie
anche questa importante medicina per lo spirito è il suo grande merito. Infatti ha fatto scuola.
Spostiamoci alla sua passione attiva per il teatro: come e
quando è nata la voglia di recitare?
Per caso. Mia moglie Susanna (Olive
nello spettacolo) aveva visto una rappresentazione di amiche che stavano
facendo il corso di teatro organizzato dall’Istituto Leone XIII
a Milano. Entusiasta, l’anno successivo si iscrisse
anche lei al corso e una sera mi chiese di accompagnarla. Così fu, conobbi i
suoi compagni e la regista/insegnante, Marianna De Pinto.
Quella sera stessa mi ritrovai sul palcoscenico a fare
esercizi e da allora… eccomi qua.
E della compagnia di cui fa parte, la Overage Group Company, che cosa mi dice?
Un gruppo eterogeneo di persone, che si sono incontrate
casualmente al corso di teatro organizzato dall’Istituto Leone XIII di Milano, accomunate dalla voglia di mettersi in
gioco e infine travolte dalla passione per il palcoscenico. L’anno scorso
abbiamo messo in scena L’hotel del libero
scambio di George Feydeau, che abbiamo replicato a Le Grazie, in provincia di La Spezia, e a Casatenovo, in
provincia di Lecco
(http://www.auditoriumcasatenovo.com/rassegna-stampa/la-provincia-2010-2011.htm#hotel),
per raccogliere fondi per beneficienza. Quest’anno ci siamo cimentati con Woody
Allen in Pallottole su Broadway.
Il tutto è stato ed è reso possibile grazie alla bravura e
alla “magia” di Marianna De Pinto, nostra insegnante
e regista.
Quale o quali generi teatrali preferisce affrontare?
Non ho esperienze e tantomeno capacità per particolari
generi teatrali. Direi che la commedia brillante è quella che ti consente di
trasferire più facilmente nel personaggio che interpreti quello che sei nella
vita reale, con la possibilità di esprimerti e colorarlo con aspetti e tratti
che nella vita di tutti i giorni restano dentro.
Un attore non è, ovviamente, solo voce,
ma anche corpo. Lei, che del corpo si occupa in quanto
medico, come affronta l'uso del corpo in teatro?
Non è facile. Un conto è occuparsi del corpo, un altro è usarlo.
Sul palcoscenico il linguaggio del corpo è molto importante. La gestualità deve
essere ampia, enfatizzata e netta per essere còlta
nel suo significato. L’abitudine quotidiana invece ci porta ad
usare pochi gesti stereotipati, a volte carichi di significato di cui nessuno
si accorge. È uno degli aspetti su cui la nostra regista ci fa lavorare molto.
Vista la sua professione di medico, Le piacerebbe interpretare
il ruolo di Argante, il malato immaginario di
Molière?
La paura delle malattie, l’ipocondria o il bisogno di
attenzione ricercata attraverso la richiesta di cura per malattie inesistenti
sono situazioni che un medico affronta tutti i giorni. Credo che avrei un
bagaglio di esperienza notevole per colorire il personaggio, anche se come
malato immaginario non mi vedrei proprio.