Inutilmente perse, curiosamente
riemerse: la mostra veneziana di Cristina Moggio
Un'opera
di Cristina Moggio
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Spazio Espositivo: Palazzo delle Prigioni – San Marco, Ponte
dei sospiri
Titolo mostra: Inutilmente
perse, curiosamente riemerse
Inaugurazione: Sabato 16 aprile 2011 alle ore 11
Chiusura: 28 aprile 2011
Orari: 10-13 e 15-18
Ingresso libero
Patrocini: Sistema Culturale Valsugana Orientale, Comune di
Borgo Valsugana
Curatore: Pier Luigi Senna
Artista: Cristina Moggio
“… Sono molto attratta dai luoghi del silenzio,
dall’assenza, ma non dalla disperazione: trovo in tutto questo una 'armonia
delle cose', un mondo dove tutto ha un suo percorso
segreto, una lenta, impercettibile distruzione, che il tempo naturalmente avanza…”
Cristina Moggio enuncia così, limpidamente, le ragioni del
suo operare. Il silenzio è per lei un valido interlocutore. Con intensa
ascoltazione ella capta le voci sommerse e remote
delle cose, naturali e manufatte: bisbigli sommessi
d’oggetti che raccontano di vite lontane, di storie individuali, familiari,
sociali. Agisce con la ricettività di una medium, in
tali ascolti; poi come uno sciamano opera una palingenesi, riportando a nuova e
diversa vita, in bellezza, lacerti abbandonati, relitti - reperti - reliquie.
Il bello, si sa, è soggettivo. Lo è doppiamente: per le
scelte a monte, i canoni, i parametri, l’idea stessa;
lo è a livello di percezione. La soglia percettiva è individuale e mutevole:
alcuni ignorano bellezze clamorose, altri sanno cogliere il bello dove per i
più non è ipotizzabile rinvenirlo. “Il bello è negli occhi di chi guarda”.
La poetica del ready made, dell’objet trouvé, nasce da qui: dalla facoltà di alcuni di vedere
con occhi diversi, penetranti, sensitivi, quanto agli altri sfugge, ingoiato
dall’apparente banalità.
Un manubrio e un sellino di bicicletta, accostati, divengono
una “Testa di toro” (Picasso, 1943),
aprendo la strada all’arte povera; un orinatoio da parete, ruotato di novanta
gradi e munito di una firma apocrifa che è un’illuminante chiave di lettura
(Duchamp, “Fontana”, 1919) è
proposto, decontestualizzato, come un’opera d’arte
caricata di valenze alchemiche, paradigma dell’androgino, sintesi degli
opposti, spalancando così la via all’arte concettuale.
Cristina Moggio, con animo da “ecologiste picturale” (Charles Jourdanet,
1995), scova in frammenti o sezioni di alberi, radici, fiori, ciottoli… il riflesso dell’infinito, una scintilla della
luce ineffabile, da riproporre agli altri sublimata in
forma d’arte (“Vedere il Mondo in un
granello di sabbia, / E il Cielo in un fiore selvatico, / Tenere l’infinito sul
palmo della mano / E l’Eternità in un’ora” scriveva William Blake, pittore
ancor prima che poeta mistico).
Nel tempo l’interesse della Moggio si è esteso dal pur
sconfinato ambito naturale alla dimensione antropica, alle testimonianze dei
vissuti umani.
“Sensibile alla vita perduta” (Vittorio Sgarbi, 2004), ella scova “reliquie di storia personale, civiltà popolari,
senza nome, perdute” (Renzo Francescotti, 2001): da
paramenti sconsacrati o lini per sacrestia tessuti a mano in generazioni
lontane a umili recenti scatole da lavoro, da fasce per neonati a sacchi per
farina dimenticati in vecchi mulini, da frammenti di trine preziose a vecchie
assi per bucato, a scarti industriali, a recuperi di demolizioni, a tridenti o
vanghe da trasformare in personaggi…
Agli inizi degli anni Settanta, tra le nuove forme d’arte
emergenti, a New York trovò spazio una Narrative
Art, cui aderì anche Louise Nevelson, scultrice
d’origine russa che molto puntava sull’effetto straniante dell’accumulazione di
minimi riferimenti alla vita quotidiana e all’ambiente condiviso: la
testimonianza reiterata si consolidava, prendeva corpo, evocativa ed
enigmatica.
Cristina Moggio ce la ricorda, ma operando in profondità
piuttosto che in estensione.
Molta pittura è superficiale, non perché necessariamente
bidimensionale, ma in quanto giocata sul
decorativismo, o volta a uno sperimentalismo fine a sé stesso, che, pur
talvolta brillante, rischia sovente di restare arido e sterile. All’opposto,
per altri artisti un proprio spazio interiore consente espansioni inusitate,
quasi una cassa armonica che potenzia i suoni.
Cristina Moggio raccoglie e porge racconti, “storie”, ma la
sua narratività non indulge in compiacimenti: con
misura (o pudore?) lascia spazio all’inespresso, evoca
e allude con grazia poetica, con discrezione. Del resto, anche nella sua
dimensione “ecologica” resta implicito il richiamo ad
un rispettoso amore per la natura, in ogni suo aspetto, e solo un monito
indiretto è rivolto contro il consumismo, la sempre più diffusa mentalità dell’usa-e-getta, la noncuranza, lo scialo, la mancanza di
considerazione per oggetti che è colpevolmente riduttivo considerare solo per
la loro utilità immediata e transitoria.
Da “recuperante”, come si autodefinisce, da “amante della
memoria”, come l’etichetta Marko Ivan Rupnik, la nostra artista non compie tuttavia lavoro
d’archivio: crea arte.
Arte è in uno espressione,
comunicazione, ricerca del bello. Le varie forme in cui si manifesta il talento
di Cristina Moggio non falliscono il triplice obiettivo. Gli oggetti
“repertati” attivano nell’artista intrecci di componenti
sensoriali ed emotive, emozioni non fuggevoli, destinate sia a radicarsi nella
sua memoria, sia a palesarsi all’esterno, espressione d’individuali
sensibilità, di visioni proprie. Ma le voci silenti del passato e delle più
umili realtà naturali, così còlte e amplificate, vengono riproposte “a futura memoria”, condivise, nello
spazio e nel tempo: comunicate. Infine, questi processi avvengono “in
bellezza”, producendo “transustansazioni”,
cristallizzandosi in nuovi oggetti esteticamente appaganti, che è gioioso
ammirare.
Cristina Moggio possiede un’armonica personalità solare, una
carica di positività e di vitalità che trasfonde nei suoi lavori. Ne sono prova
il cromatismo festoso, il dinamismo delle composizioni, i loro equilibri
tendenti all’espansione. Il linguaggio, pur personalissimo, è cólto, non naïf o improvvisato. Si avvertono l’avvenuta
piena assimilazione d’esperienze artistiche rilevanti, e consonanze. Nessuno
nasce nel vuoto pneumatico, fuori del tempo e da ogni contesto
culturale. Il diffuso bisogno di catalogazione individua ogni eco di affinità,
e alla mente affiorano nomi di colonne portanti della storia dell’arte
moderna e contemporanea. Non sempre è agevole stabilire il confine tra una
parziale affiliazione dell’artista e le nostre associazioni mentali proiettate.
Ad esempio, per i suoi lavori polimaterici Cristina Moggio utilizza anche materiali
eterodossi, tra cui sabbia di torrente e ritagli di giornali, a sottolineare un continuum
tra le dimensioni dell’arte e quelle della quotidianità. E’ innegabile che le
stesse scelte, con le stesse motivazioni, furono operate
da Braque all’inizio del Novecento. Del pari va riconosciuto che
l’accantonamento della prospettiva centrale quattrocentesca fu un’opzione attuata già dal Cubismo ancor prima che dalle varie
forme d’arte astratta. Analisti della produzione di Cristina Moggio hanno
ritenuto d’individuarvi tracce dell’opera di maestri quali Kandinsky, Mirò, Klee, nonché Picasso, Braque, Léger. L’elenco potrebbe essere esteso, se si considera che
l’assemblage,
quella sorta di collage
tridimensionale che include elementi di recupero, fu praticato, oltre che da
Picasso, da molti altri tra cui Duchamp, la Baronessa Dada e, a partire dai
tardi anni Trenta, la già citata Louise Nevelson.
L’utilizzo di rilucenti tessere di mosaico da applicare su sezioni lignee o di
guizzi d’oro inseriti su tele e panni, tra i colori, potrebbe richiamare alla
memoria di qualche osservatore i preziosismi di Klimt o quelli bizantini.
Infine, la scelta di dipingere tessuti non intelaiati, nonché
oggetti di vario tipo, certe soluzioni formali e taluni stilemi ricorrenti
possono ricordare l’opera di un’artista la cui grandezza non è stata ancora
riconosciuta appieno: Sonia Delaunay. Genio eretico,
“da ottant’anni lo spirito più giovane della Francia” (Joseph Delteil, 1967), ella rifiutò sempre la distinzione tra belle arti, arti applicate
e arti decorative. Da pittrice frequentò cubismo, futurismo e fauvismo,
superandoli, compì sapienti ricerche sui colori e
sulla luce, ma soprattutto, inventando l’arte
simultanea, ebbe la pretesa di operare una sinergia tra le varie arti,
puntando a trasformare in arte la stessa vita quotidiana, nei suoi molteplici
aspetti.
Rapportare ciascun artista al contesto
della storia dell’arte può sembrare (che lo sia davvero?) un’oziosa pedanteria.
Eppure è uno dei compiti principali spettanti ai commentatori (i cosiddetti
critici) d’arte. Chi sta congedando questa nota si permette un azzardo,
segnalando la felice contiguità di spirito, d’idee, di gusto e di esiti tra
Sonia e Cristina.
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