Quando la musica ricomincia a “parlare”. Intervista a Joe Schittino

Joe Schittino.

© Foto Aldo Palazzolo

24 settembre 2010

È spiazzante. È fresca. È creatività pura: non etichettabile. La musica di Joe Schittino ha il volto del suo autore: un viso giovane, pulito, con grandi occhi turchini; il volto di un uomo comune, che potresti trovare benissimo dietro l’angolo di casa o il bancone di un supermercato, ma che allo stesso tempo sembra tirato fuori a forza da una cartolina di quelle seppiate, di fine Ottocento. E la sua musica è così: ha la bellezza schietta e sfacciata dei paradossi o di quelle rare eruzioni creative che riescono a ritagliare il proprio spazio in un utopico porto franco, libero da codificazioni.

Difficile definire l’opera del giovane musicista siciliano. Avanguardistica? Sì, se per avanguardia si intende originalità pura, scevra da istrionismi e da vis polemica fine a se stessa. Sensibile alle influenze del passato? Certamente, se lo si intende nel senso meno conservatore e pedissequo del termine. O forse il discorso è meno complesso: in fondo la musica di Schittino è musica; musica che rompe schemi triti e ritriti superando l’impasse in cui si è autisticamente impantanata certa musica colta contemporanea; musica che riscopre la propria funzione comunicativa.

A trentatré anni, hai al tuo attivo un bagaglio musicale davvero notevole. C’è qualcosa di talmente immediato, di talmente ludico nelle tue composizioni, che mi viene spontaneo chiedertelo: come hai iniziato a fare musica ? Hai qualche scheletro di famiglia nell’armadio?

Joe Schittino.

© Foto Paride Galleone

Non direi, o almeno: non in modo particolare. Mio nonno era trombettista militare: scortava i soldati che andavano a morire in Africa. Ho anche una zia pianista, con la quale ho iniziato a studiare pianoforte quando avevo quattro anni. Era una donna estremamente rigorosa, severa e io ero esattamente il contrario. Già allora, nonostante fossi molto piccolo, avevo un rapporto con la musica piuttosto eterodosso: avevo l’abitudine di eseguire i pezzi con qualche variazione e manifestavo già una spiccata propensione per le dissonanze, per gli accordi inconsueti.

Un enfant prodige?

È un termine che detesto, ma confesso che talvolta mi è stato appioppato; non per la musica, però.

Per che cosa allora?

Ero senza dubbio un bambino molto particolare, con gusti e passioni opposti rispetto a quelli dei miei coetanei: i miei genitori avevano un negozio di legatoria e a sei anni avevo sviluppato una conoscenza insolita nell’ambito della…

… storia della musica?

Medicina legale!

Insomma, eri un eclettico.

Ero un bambino curioso e un po’strano, certamente non asociale, ma con un forte rapporto con la solitudine. Ero considerato piuttosto bizzarro: in questo senso mi definivano un enfant prodige.

In tutto ciò, come è proseguito il tuo sviluppo musicale? Da quanto dici, ai tempi, la musica costituiva semplicemente una (non la sola) delle tue tante passioni.

Quando avevo quindici anni, un maestro di sassofono mi chiese di scrivere un pezzo. Lo feci, ma ‑ dal momento che non avevo mai studiato sul serio composizione e armonia – il mio pezzo risultò inevitabilmente zeppo di errori: fu allora che il maestro di sassofono mi propose di iscrivermi al Conservatorio. Così feci, anche grazie all’aiuto di una facoltosa vedova di Catania: in questo modo ho avuto la possibilità di diplomarmi in pianoforte e in composizione  Non pensare, però, che da allora abbia iniziato a fare solo musica: la mia formazione è stata trasversale. A ventidue anni mi sono laureato in lettere classiche e, inoltre, ho frequentato la “Scuola d’Arte Drammatica” del Teatro Stabile di Catania diplomandomi come attore. Come vedi, sono un nemico giurato della chiusura in cui ‑ spesso e volentieri ‑ rischia di incappare la cultura italiana; d’altra parte, sono anche nemico giurato dell’estremo opposto: la tuttologia, la faciloneria. Per questo motivo ho studiato tanto, e in modo scrupoloso.

Insomma: musicista per scelta, eclettico per vocazione. Parliamo della tua produzione musicale; l’attenzione al mondo del teatro è evidente dall’incidenza di opere e “operine” fra le tue composizioni. I titoli, la dicono lunga circa la tua visione del teatro musicale: Toccatutto non toccare, Mufir Tulipan e le Ricce Califfe, Un’accusa infamante (in cui il protagonista viene accusato di “puzzapiedismo”). Mi sembra che i due elementi dominanti del tuo universo drammaturgico siano il tema della fiaba e la presenza di una marcata vena comica e surreale.

In un certo senso si tratta di aspetti che vanno a braccetto. La fiaba è un meraviglioso filtro che consente di dire tutto in modo schermato.

Come ben scrisse Bruno Bettelheim…

C’è la magia, c’è la leggerezza, c’è il filtro del mondo incantato dell’infanzia e dietro a tutto questo c’è la verità: una verità travestita. La fiaba permette di trattare i grandi temi in modo leggero, ludico. Toccatutto non toccare, per esempio, rappresenta un’allegra scorribanda di avventure infantili attraverso cui traspare il tema della libertà negata. Mufir Tulipan e le Ricce Califfe, ha come protagoniste un paio di scarpe.

Protagoniste insolite e codificate al tempo stesso, se pensiamo alle Scarpette rosse di Andersen.

Protagoniste profane e poetiche. Non ricordo dove, ho letto una definizione che mi ha colpito: se la mano è il libro della vita, il guanto è la sua copertina. Mi viene da pensare alle scarpe in questi termini: come al guanto del piede. Riguardo ad Andersen, fra l’altro, ho due sogni nel cassetto che riguardano due fra le sue fiabe più belle.

Quali?

La piccola fiammiferaia e L’ombra. Capirai quindi perché ti dico che fiaba e leggerezza vanno a braccetto e capirai anche in che senso la leggerezza costituisce un elemento di fondo della mia produzione musicale. A questo proposito, mi piace citare una metafora che mi sembra molto calzante: l’orchestrina del Titanic che affonda al ritmo di walzerini e marcette; o l’ossimorica figura del clown: la tristezza che traspare sotto il suo chiassoso strato di cerone.

Un altro aspetto che mi colpisce delle tue composizioni riguarda i titoli: pochissimi sono in italiano, senza contare le tue incursioni nell’ambiente musicale tedesco, francese e belga. L’internazionalismo sembra essere un elemento di fondo della tua produzione.

Be’, in un certo senso l’internazionalismo per me è un passaggio obbligato, condizionato fin dalla nascita.

Vale a dire?

Pensa al mio nome: Joe Schittino. E non basta: conta che all’anagrafe sono iscritto come Joe Seymour Lee Schittino: più internazionale di così! Al di là di questo, certamente: l’interesse per il panorama internazionale è parte integrante di un desiderio di apertura a trecentosessanta gradi; per me sarebbe davvero impensabile, claustrofobico, rinchiudermi nell’ambiente musicale italiano! In questo senso, il titolo delle mie composizioni rappresenta una sorta di bandierina, di piccolo indicatore.

Grazie ai tuoi studi hai avuto una fortuna insolita rispetto al panorama artistico italiano: la possibilità di porti di fronte a un mondo composito come il teatro da due diversi punti di vista: come attore e come musicista. Considerata la possibilità di guardare all’universo drammaturgico da prospettive diverse, come consideri il rapporto fra le diverse componenti su cui si basa il teatro?

La musica è al servizio del testo e il testo è al servizio del dramma. È fondamentale mantenere un rapporto di assoluta “collaborazione” fra le diverse componenti che confluiscono nello spettacolo teatrale; il tentativo di stabilire la prevalenza di una rispetto all’altra, pregiudicherebbe inevitabilmente il risultato finale: il dramma, che è sintesi per eccellenza.

Veniamo ora a un’altra componente fondamentale della tua produzione musicale: l’elemento comunicativo, l’importanza prioritaria di “trasmettere” e – direi ‑ l’importanza del pubblico stesso, costituiscono degli elementi di base, forse ‑ in un certo senso ‑ il marchio distintivo che differenzia la tua produzione dall’involuzione autoreferenziale della cosiddetta musica colta.

Non condivido già il presupposto: la distinzione fra una musica colta e una musica non colta. Al giorno d’oggi, rinchiudere la musica ‑ anzi, l’arte in generale ‑ in un recinto, indirizzarla a un pubblico di eletti o di soli addetti al mestiere, è aberrante e obsoleto al tempo stesso. C’è un elemento fondamentale che negli ultimi tempi ha provocato un radicale mutamento nel pubblico con cui l’artista si relaziona: è la rivoluzione del CD.

Cioè?

Una volta, chi voleva ascoltare La Bohème (e già restringiamo il campo a quei pochissimi che la conoscevano), aveva un’unica possibilità: affrontare un viaggio scomodo e pericoloso, ammesso che avesse i mezzi e il tempo per sobbarcarsi un’impresa simile! Oggi la situazione è molto diversa; la capacità di diffusione della musica è molto più capillare: se la gente non ha tempo per andare all’opera, il CD porta l’opera direttamente a casa.

Non si rischia però la cosiddetta “perdita dell’aura”? In questo senso il CD ha fatto entrare la musica ‑ per parafrase Walter Benjamin ‑ nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte; non credi che questo implichi anche degli effetti collaterali?

Può darsi, ma implica anche un mutamento quantitativo e qualitativo positivo: la nascita di un pubblico molto più allargato, e molto più colto; per questo motivo ti dico che fare musica per pochi eletti oggi è anacronistico. Personalmente, ai miei concerti, vorrei vedere il pubblico più eterogeneo possibile: dal musicista alla casalinga. La musica deve essere necessariamente fruibile: questa è una linea guida che perseguo costantemente. C’è inoltre un aspetto fondamentale che concorre a questo obiettivo e che non riguarda il pubblico, ma gli esecutori. Gli esecutori delle mie composizioni non sono mai interpreti specializzati in musica contemporanea: nella maggior parte dei casi sono musicisti che il giorno prima hanno suonato Mozart, Schumann, musica di repertorio.

Anche questo è un aspetto fondamentale delle tue composizioni, penso soprattutto alla Winter Fires Sonata, recentemente eseguita a Bruxelles e a Parigi da Angelo Cavarra e da Michel De Bock e registrata sul CD Sonates italiennes de fin de siècle. In questa sonata, così densamente intessuta di riferimenti al repertorio ottocentesco europeo, sembra che il legame con il passato e con la tradizione musicale veicolino la fruibilità stessa dell’opera.

Credo che valga davvero la pena di mantenere un legame vivo, non accademico, con il passato. Con “vivo”, intendo dire fare un passo indietro esteticamente per costruire qualcosa di nuovo, rinunciando a critiche della forma vuote di contenuto e a innovazioni fini a se stesse.

Insomma, per dirla con Giuseppe Verdi: “Torniamo all’antico: sarà un progresso.”

E perché no?

Torniamo alle tue composizioni e al loro orizzonte internazionale. Nel 2007, con l’opera La Neuberin, è iniziata la tua collaborazione con il drammaturgo tedesco Klaus Rohleder.

Conosciuto quando io non parlavo tedesco e lui non parlava italiano: ciononostante l’empatia è stata immediata. Klaus Rohleder è un artista affascinante: è un contadino (contadino di professione) e sua nonna era nipote di una sorella di Nietzsche; ha vissuto nella Germania dell’Est ed è stato vessato in ogni modo dal regime della DDR. Il suo successo è iniziato solo dopo la caduta del muro: a partire da allora i suoi testi, originali e surreali, hanno cominciato a diffondersi e a entusiasmare il pubblico.

Perché avete scelto come soggetto dell’opera proprio la Neuberin? La protagonista è un’atipica figura di attrice realmente vissuta.

Sì, in età barocca Friederike Caroline Neuber è stata davvero una figura di donna originale: attrice, impresaria, musicista, fautrice di un tentativo di riforma del teatro. Si dice che bruciò in piazza un’effigie di Arlecchino! La sua lapide la definisce in modo molto significativo: “ Una donna, con un cervello di uomo”. Il che la dice lunga sulle enormi difficoltà che dovette affrontare. Viaggiò moltissimo, fino alla Russia, e naturalmente fu odiata ed ostacolata: si diceva addirittura che portasse sfortuna.

L’opera ruota quindi intorno alla vita della Neuberin?

No, è più incentrata sul tema della riforma del teatro: la trama, infatti, non procede cronologicamente, ma per scene, senza una concatenazione temporale biografica; ciò che mi ha attratto, comunque, è stato indubbiamente il personaggio della Neuberin: in particolar modo il tema del genio vessato e del “male” inteso come opposizione alla realizzazione e alla trasmissione del messaggio di cui l’artista si fa veicolo. Un tema che avvicina la figura della Neuberin a uno dei miei scrittori preferiti, Francis Scott Fitzgerald e allo stesso Klaus Rohleder.

Con Klaus Rohleder hai collaborato anche per un oratorio: Wasser das zur Mauer wurde.

Commissionato in occasione del ventesimo anniversario dalla caduta del muro di Berlino dalla “Else Lasker-Schϋle Gesellshaft”, una società di ebrei palestinesi che ha avuto tra i suoi fondatori Herta Mϋller. Inizialmente l’incarico mi ha messo un po’ sulle spine: non volevo comporre un’opera meramente celebrativa, ma trovare qualcosa, un’ispirazione, che astraesse dalla situazione concreta il concetto di “muro che divide”. Alla fine è stato Klaus Rohleder a trovare una soluzione davvero originale.

Di che tipo?

Ha scovato una “piccola Berlino”: Mödlareuth, un minuscolo villaggio situato proprio sul confine fra la Turingia e la Baviera. Nel ’52, il paese ‑ che aveva la sfortuna di essere non solo sul confine fra due regioni, ma anche sul confine fra Germania Est e Germania Ovest ‑ venne diviso in due: un taglio netto, con tanto di filo spinato. Alcuni edifici vennero demoliti, altri divisi in due. Furono i soldati americani a battezzarlo “little Berlin”. In questa cornice, Rohleder ha inventato una storia surreale basata sulle vicende di tre coppie separate di personaggi: due bambini che giocano (e improvvisamente si trovano a essere divisi dal muro), due rettili innamorati ma appartenenti a specie diverse e una coppia di amanti caratterialmente molto differenti.

L’oratorio, che in Germania ha ricevuto un’accoglienza entusiastica, è stato recentemente rappresentato anche a Catania. Come è stato recepito?

Con molte difficoltà; la versione in cui è stato rappresentato ‑ fra l’altro ‑ non era orchestrale, ma con solo piano. Ammetto che ho sempre incontrato delle difficoltà, in Italia.

Qual è il principale elemento di diversità, da questo punto di vista, fra l’Italia e gli altri paesi europei? Il pubblico?

No, a livello di pubblico non ho riscontrato differenze sostanziali: direi piuttosto che in Italia le difficoltà derivino dalla necessità di avere una tessera di partito per poter realizzare qualcosa in campo artistico; un altro ostacolo deriva dalle caratteristiche stesse dell’ambiente artistico, che in Italia si distingue per un marcato individualismo e per un esasperato senso di concorrenza, assolutamente lesivo per ogni forma di organizzazione. In Italia, sarebbe assolutamente impossibile la nascita di un vero e proprio “movimento” artistico, come per esempio è stato l’Impressionismo in Francia.

Un’ultima domanda: come componi?

Generalmente senza il pianoforte. Mi piace che qualcuno sia con me e faccia altro: i rumori di sottofondo non solo non mi disturbano, ma mi rassicurano. Ho sempre una specie di timore, di inquietudine, quando compongo. E poi, dipende: spesso mi vengono commissionate composizioni che devono essere pronte tre settimane dopo: non sempre, ovviamente, la musica nasce sulla scia dell’ispirazione. Quando posso, esco e inizio a camminare: cammino, cammino e intanto sento nascere il pezzo, compresso, ma completo, proprio come un file zippato! Quando torno a casa, mi siedo al tavolino e lo “sbobino”.