Intervista al fotografo Alberto Moretti

15 aprile 2010

I luoghi del dialogo, di Alberto Moretti, Edizioni del confine, 2000

Iniziamo con un po' di biografia: chi è Alberto Moretti?

Uno dei tanti fotografi freelance, con l’attitudine però alla lettura introspettiva delle forme del mondo. Ogni aspetto del mondo ha una sua parte non visibile ma percepibile diversamente, da tradurre poi in visibile per essere offerta agli occhi degli altri. Alberto Moretti fa questo. Di professione. Normale studente durante la crescita, appassionato di fotografia per istinto, come tanti. Poi architetto professante. La fotografia diventa lavoro e sostentamento, oltre che solo ricerca, con la fine del matrimonio e del proditorio impossessamento della figlia da parte della madre, con il torpore etico e tecnico dello Stato tuttora incapace di opporsi. La fisicità del cuore diventa così una forza estrema, l’assenza del corpo si traduce in lettura degli inganni delle forme, della loro natura, della loro segretezza. Spostata la mia vita fisica nelle prime colline friulane, a Fagagna, nel silenzio, il rumore ce l’ho dentro, se lo voglio far entrare. Muovendomi da  qui e qui, racconto danzatori, attori, storie aziendali, visi qualunque, cercando di trasformare in icona tutto ciò che fotografo.

Non è inusuale che architetti si dedichino alla fotografia. C'è un legame tra questi due "saperi"?

L’educazione all’architettura apre molti orizzonti. Ci sono architetti registi, fotografi, musicisti, stilisti, scrittori e molto altro. È l’educazione alla composizione delle forme, alla comprensione e restituzione dell’ordine dell’universo. La fotografia ha la necessità di organizzare lo sguardo e di restituirlo espresso in uno spazio piccolo. Senza ordine, gerarchia, ogni significato è perso. Il legame primario è semplicemente questo, laddove il semplice è l’arrivo del complicato. Come diceva Mies Van der Rohe, maestro dell’architettura del 900, less is more. Ma essendo che la grande architettura è anche contenitore di umanità, sostanziata nelle fisicità che l’attraversano, anche la grande fotografia deve aspirare ad avere l’Uomo al centro, e questa è la via che programmaticamente percorro.

La fotografia di danza unisce due arti che parlano ognuna il proprio linguaggio: se infatti la fotografia mira a fermare il tempo, la danza è arte effimera per eccellenza. Maurice Béjart giunse addirittura ad affermare che "non si può fotografare la danza". Qual è la sua opinione, anche in relazione al concetto di "architettura della danza", che dà il titolo al suo primo libro, apparso nel 1992?

Quello che lei mi chiede trova una risposta nelle parole di Maurice Béjart che lei ha citato e che sono presenti nell’intervista che gli feci e che è pubblicata nel mio L’Architettura della Danza. Io credo, però, che questo sia dicibile per tutto ciò che si fotografa; una fotografia fatta in strada non è più riproducibile, esattamente come la danza. La differenza sostanziale è che la strada parla e si narra ma non si auto commenta, mentre la danza cade sempre nel peccato capitale di autocelebrarsi, di riflettersi in se stessa, di pensare di essere l’unica arte disperata perché effimera; e di considerarsi incompresa, negletta, bistrattata. In primis, non è affatto vero che è l’unica arte effimera, la vita stessa è effimera ed è la forma di arte più elevata, e da qui in giù ce n’è molte altre; secundum, è vero che è poco considerata rispetto alle aspettative degli interessati, ma è giusto che lo sia, è il prezzo che essa stessa paga: il mondo della danza è infatti formato in buona parte da persone incapaci di relazionarsi correttamente a tutto ciò che danza non è, vedendo il mondo esclusivamente come il prolungamento della propria fisicità e della propria supposta centralità, come fosse lo specchio della sala prove; con il conseguente insopportabile e continuo lamento sulla mancata centralità culturale della danza, che in questo modo evidenzia con ottusa costanza il proprio livello culturale, la propria supponenza, il proprio malato narcisismo. Quando verrà meno la autoreferenzialità delle persone che fanno danza e che ci gravitano attorno, cambierà finalmente la credibilità artistica di questa disciplina fisica con possibilità ideologiche. Tutto è danza; perché danza è il ritmo del corpo che ognuno di noi mette in atto in ogni momento della propria vita. Ma se qualcuno organizza questi moti di spirito e corpo, li compone in una struttura teorica, in un linguaggio, può anche diventare arte, posto che abbia la coscienza della propria relatività. Orbene, la fotografia riprende la danza esattamente come riprende altro. Solo che la danza pone anche, come detto, la questione del “tempo” (anche un’architettura si modifica, ma il suo tempo è secolare e non istantaneo, e la fotografia, in ogni caso, riprende l’architettura diversamente a seconda del tempo storico in cui lo fa). L’unica sostanziale differenza è che fotografare la danza, specialmente in palcoscenico, è attività fortemente tecnica, la si deve saper fare. La fotografia è un linguaggio a sé per definizione, racconta con gli occhi del fotografo e basta. Dunque la fotografia di danza racconta ciò che essa vuole della danza, la cosa importante è che la racconti con un’Idea certa. L’Architettura della Danza, per esempio, ha fatto dell’idea certa la sua fortuna: a distanza di quasi vent’anni il libro e la sua idea portante sono ancora in catalogo.

Quali altri libri ha pubblicato?

Tra i miei libri sul corpo, considero quello filosoficamente migliore (posta la lunghissima strada ancora da fare) I Gesti del Suono, in cui racconto le molte forme del corpo che danza. E continuo a credere che al suo interno vi siano fotografie che sono riuscite ad essere danza, o meglio, a essere la coreografia della danza che ha ripreso, l’idea stessa del coreografo, raggiungendone lo spirito creatore. Certo, parole forti che possono suscitare sentimenti antipatici verso di me che ho appena additato la presunzione della danza investendomi dello stesso peccato. La differenza è che io posso provare ciò che affermo. I Luoghi del Dialogo sono invece lo scatenamento, in àmbito diverso, di ciò che è più difficile da fare con la danza: fotografare col battito delle ciglia, cioè percepire e scattare, senza strutturare lo scatto ma cogliendone soltanto i significati, che fanno loro stessi da veicolo alla struttura fotografica. È un fatto sperimentale questo, e io come uno scienziato del cuore ne ho dato dimostrazione. Dermoscienze invece presenta una serie di danzatori nudi fotografati in toni alti e in pose aeree, in cui la fotografia ha lo scopo psicologico di alleggerire visivamente ciò che la lettura di malattie dermatologiche può suscitare alla mente. Questo genere di uso psicologico della fotografia lo sto ora approfondendo nel nuovo libro che sto preparando. Il calendario digitale The Dancer Discovery affrontò un problema diverso, ovvero quello di s(p)fogliare un meraviglioso corpo di danzatrice coerentemente con i mesi e il loro contenuto di “nudità”. Guardàti Amori è stata invece una entusiasmante e faticosissima esperienza letteraria in cui ho cercato di tradurre il mio linguaggio fotografico/visivo in parola. Anche qua l’intento era di riuscire a restituire le ragioni del cuore raccontandole con lo stesso spirito con cui fotografo, cioè cercando di cogliere il non visibile per tradurlo in visivo. Farà seguito il secondo romanzo, ora in fase di definizione editoriale, piuttosto diverso per tema e struttura, in cui ho cercato di sviluppare meglio la narrazione visiva senza però forzare troppo il linguaggio. Come si vede i libri che ho pubblicato sono consapevolmente pochi. Per me il libro, infatti, è la testimonianza dello stato di avanzamento di abilità, anche intellettuali, non uno sfoggio di ripetitiva e spesso altalenante qualità.

Un ballerino vive il proprio corpo come luogo in continuo cambiamento: il corpo si perfeziona, viene raggiunta la maturità artistica e poi c'è l'inevitabile declino. In un fotografo il corpo genera interesse indipendentemente dallo stadio in cui sono giunte bellezza e perfezione (anzi, a volte proprio a dispetto di quelle qualità). A lei, dal punto di vista della fotografia, quali aspetti interessano del corpo?

Quello che ci sta dentro, quello che non si vede, quello che lo muove, la vita che contiene, il passato che ha lasciato, il futuro che spera di avere, i desideri che coltiva, le frustrazioni da cui non riesce a liberarsi, la volontà che cerca di esercitare su di sé, la vergogna che prova, l’orgoglio che lo rovina. Nei miei occhi non c’è forma in un corpo, non c’è età, non c’è bellezza, c’è soltanto la verità da mettere a nudo.

Andiamo oltre: i messaggi che un corpo da lei fotografato veicola, sono univoci per lei e per il soggetto (leggi: ballerino) fotografato?

Non è mio interesse che lo siano o non lo siano. Il ballerino non sa cosa fotografo. Io stesso ho un margine di incertezza mentre fotografo. Fotografare un corpo significa tenere a bada troppi elementi per poterli controllare tutti nello stesso momento. Per cui, pur avendo in mente il risultato che desidero ottenere, le possibilità di variazioni e sfumature in postproduzione (anche con la pellicola, un tempo) sono così tante, che la fotografia, nascendo solo alla fine di un lungo e meditato processo, palesa i suoi messaggi definitivi troppo tardi per essere univocamente condivisi e compresi.

Fotografare la danza in scena e fuori dalla scena (dietro le quinte o in situazioni costruite dal fotografo stesso): quale dimensione la intriga maggiormente?

Entrambe sono fonte di ispirazione. Fotografare la danza in scena ha il fascino della caccia, risponde a un richiamo atavico ed è principalmente sforzo di codifica e di abilità tecniche. La lettura interpretativa arriva giocoforza sempre dopo, con la raccolta delle fotografie intorno a un’idea, formale e concettuale, sempre postuma. Progettare la fotografia di danza invece, dunque eseguirla su un’idea di partenza, come sto facendo ora per il nuovo libro, suppone uno sforzo ideativo di gran lunga maggiore, la prova con se stessi, faticosissima, di individuare strade narrative non ancora percorse. E di questi tempi, con la moltiplicazione massmediale del messaggio, è una gran bella sfida. Appassionante, irta di difficoltà, in cui il fotografo diventa coreografo.

Quando lei fotografa un ballerino fuori dalla scena, come costruisce la situazione fotografica? In questa costruzione, lavora con il o solo sul ballerino?

Il ballerino è uno strumento del fotografo-coreografo. Come un coreografo, il fotografo deve conoscere perfettamente il danzatore, deve sapere cosa sa fare, cosa può fare, deve sapere come sfruttare al massimo le sue caratteristiche fisiche ed emotive. Ciò che fai sul set con un danzatore non puoi farlo con un altro danzatore. E, soprattutto, non fai nulla se prima non sai cosa devi fare. Non ha più senso fotografare un danzatore soltanto perché è bello, non ha più senso fotografare un danzatore solo perché è famoso, non ha senso fotografare un danzatore solo per fargli assumere delle pose, non ha senso nulla se non hai una storia da raccontare. Nessuno scrittore comincerebbe mai a scrivere senza sapere cosa dire, intimamente. Inoltre non basta sapere cosa, bisogna anche sapere come, bisogna sapere dove si vuole andare, guardando indietro a ciò che si vuole superare delle proprie capacità visive e ideologiche, al nuovo modo in cui si vuole trasformare la realtà, con che tipo di manipolazione del vero. Tutto il resto, tutto ciò che non è molteplicità, è ripetizione, è inutile; senza obiettivo di superamento, è molto meglio andare a fare una passeggiata al mare o passare il proprio tempo a fare l’amore nel piccolo grande mondo del due.

E qui siamo arrivati a un tema ampio: il rapporto particolarissimo che si instaura tra fotografo e ballerino.

Auspicabilmente nessuno in particolare, se non quello stesso rapporto muto, intenso, segreto, di rapporti di forza ed elasticità emotiva che il fotografo deve essere in grado di dar vita con qualsiasi soggetto ritratto. Come con un figlio, il fotografo deve essere capace, in modo molto persuasivo, di sapere quando dire di no e a che cosa, e quando dire di sì e a che cosa.

C'è un altro rapporto del quale mi piacerebbe parlassimo: quello tra fotografo e fruitore della fotografia. Per citare Jeanloup Sieff: "Non appena scattata la fotografia diventa una realtà autonoma e suscita, in coloro che la osservano, emozioni squisitamente personali e, spesso, antitetiche a quelle che furono all'origine della fotografia stessa."

Concordo con Sieff. Ognuno ha possibilità interpretative diverse, in relazione alla propria cultura e al proprio vissuto. Determinante è invece che il fotografo sia perfettamente certo di ciò che la fotografia vuole che comunichi a lui stesso. Il resto è una conseguenza di minore importanza. È come nella quotidiana esistenza, il nostro comportamento e il nostro operato devono trovare certezza in noi, e solo in questo caso sapremo affrontare ciò che possono suscitare agli altri.

Parlando del ritratto, lei ha affermato: "Il ritratto non ama incertezze. Né compromessi. Il ritratto è sempre nudo. E deve essere sempre vero. Non bello, vero. Non è uno specchio, è una traduzione del cuore. È le invisibili storie." Tra i grandi (ballerini, ma non solo) che lei ha ritratto, ne vuole ricordare qualcuno in particolare?

Ciò che io amo ricordare è la traduzione fotografica che sono riuscito a fare di una personalità. È lo scopo del mio lavoro e a questo in qualche modo appartengo. Leggendo la mia memoria emotiva, posso citare il ritratto alla mestizia di Bernardo Bertolucci, alla fuggitiva diversità culturale di una delle più brave ballerine del mondo di tango argentino, Eugenia Parrilla, al rigore caratteriale del magistrato Mullig, alla incostanza e genialità di Carolyn Carlson, alla sincerità umana del figlio d’arte tanguero Federico Naveira, alla narcisista forza politica e creativa del coreografo e direttore dei Ballets de Monte-Carlo Jean-Christophe Maillot, alla sfumata consapevolezza in fieri della poetica cantautrice Elisa, alla straordinaria natura fisica della danzatrice Martina Tavano, alla scintillante e asfissiante bellezza di Charlise Theron, e potrei aggiungerne molti altri, e come si nota non faccio differenza tra persone famose e non note, perché la struttura fisica e umana non ha gerarchie. Non sono interessato alla fama delle persone che ritraggo, quella è solo una questione di mercato che fotograficamente non è importante. Io mi calo nella vita emotiva delle persone indipendentemente dal loro status sociale, alla fine siamo tutti uguali, siamo stati pensiero tutti e tutti saremo terra. E ciò che lasceremo sarà indipendente da quanto famosi siamo stati, avrà origine solo da quanto amore abbiamo profuso senza volere nulla in cambio. O per lo meno a me piace pensare così.