Il corpo è in mostra a Lugano. Fra arte, scienza e tecnologia
"Corpo, automi, robot. Tra arte,
scienza e tecnologia"
Lugano: Villa Ciani, Museo Cantonale d’Arte, Museo d’Arte
di Riva Caccia
25 ottobre 2009 ‑ 21 febbraio 2010
Fernand Léger, Le chauffeur nègre, 1919, olio su tela, 46 x 65 cm. Collezione privata
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Dal secondo Dopoguerra in poi, il corpo si è imposto come uno dei
protagonisti indiscussi della modernità: l’onnipresenza ossessivamente iterata
della sua nudità si affaccia ormai dai manifesti pubblicitari, dagli schermi
televisivi e dalla rete internet come un’ovvietà tanto scontata
da essere più anestetica che pornografica. Viene spontaneo ripensare a Walter
Benjamin: nell’epoca della riproducibilità tecnica forse è proprio il corpo l’opera d’arte che ha maggiormente sofferto della
“perdita dell’aura”. Basti pensare alla body art degli
anni ’70, alle inquietanti performance di Marina Abramovic e, soprattutto, a quelle più recenti di Vanessa Beecroft: alla reiterazione spersonalizzata di corpi
femminili muti ed enigmatici che a volte sembrano proporre una sorta di
originale mise en scène delle celebri
Marylin di Andy Warhol.
La città di Lugano propone un’interessante variazione sul tema con una
proposta ad ampio raggio che sviluppa simultaneamente in tre musei una
riflessione sul rapporto fra il corpo umano e il suo tentativo di emulazione:
gli automi e, in epoca contemporanea, i robot.
Il percorso inizia a Villa Ciani con un excursus storico sull’automa (dalla Grecia classica al Novecento,
fino alla sua metamorfosi nei primi robot degli anni Cinquanta), prosegue al
Museo Cantonale d’Arte con una parentesi fotografica sulla tematica
‑ perfettamente complementare ‑ del volto e dello sguardo e si
conclude al Museo d’Arte di Riva Caccia con la proiezione del tema nella
riflessione artistica contemporanea, dal Futurismo ai giorni nostri.
Hans Bellmer, La poupée, 1936, stampa alla gelatina
sali d’argento, 11,7 x 7,7 cm. Collezione privata.
© ProLitteris
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Un vero e proprio “macropercorso” spaziale e cronologico quindi, che dal passato approda
alla contemporaneità. È forse proprio la prospettiva
temporale ciò che colpisce maggiormente il pubblico e che lo magnetizza sulle
opere esposte a Villa Ciani: il proliferare dei robot nella letteratura
fantascientifica del Novecento e nella produzione industriale contemporanea, fa
spesso confondere automi e robot e induce a considerarli un prodotto del
Dopoguerra. In realtà il desiderio di produrre un’emulazione dell’essere umano,
in una sorta di utopica maternità al maschile, risale all’antichità, come
mostra il remoto vaso greco che raffigura Talos, il
mitico guerriero meccanico dell’esercito cretese che si gettava nel fuoco e poi
cingeva i nemici in un abbraccio rovente. Si tratta solo di un mito,
naturalmente; tutt’altro che mitici sono invece gli ingegnosi progetti
leonardeschi: il “Palombaro” e, soprattutto, le spettacolari strutture alari,
una sorta di arcaico e rudimentale deltaplano che avrebbe dovuto consentire
all’uomo di realizzare il sogno di Icaro. In realtà, tuttavia, non è tanto la funzionalità l’ideale perseguito nel passato nella
costruzione di automi (questo sarà piuttosto, secoli dopo, il principale
discrimine fra automi e robot): fra le produzioni leonardesche, è esposto anche
un piccolo leone meccanico che, in occasione della visita del re di Francia a
Firenze, avrebbe dovuto camminare fino al monarca per depositare ai suoi piedi
un mazzo di gigli. E il senso è proprio qui, in questo gioiellino meccanico, in
questo trastullo così meravigliosamente e sontuosamente inutile: in fondo la
natura dell’automa non consiste tanto nella sua funzionalità quanto nel suo
carattere di ludus,
di elaborato giocattolo per ricchi. Non è un caso che l’epoca d’oro degli
automi sia stata il Settecento: quel lungo e mite tramonto dell’Ancien Régime
che può forse essere considerato l’apogeo dell’aristocrazia. L’esempio più
esauriente è rappresentato dallo “Scrivano” dei fratelli Jaquet-Droz,
un bambino meccanico in cui la perfezione miniaturistica del mimetismo gestuale raggiunge il culmine.
Raymond Meier, Senza titolo, 1990 ca., stampa a sviluppo cromogeno, 45,7 x 34,6
cm. Collezione privata
© Raymond
Meier / trunkarchive.com
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Con gli automi dei Jaquet-Droz
la parabola raggiunge l’apogeo, ma anche il suo limite: sembra che l’uomo stia
per realizzare il sogno di riprodurre artificialmente un proprio simile. La
recente produzione della gomma dal caucciù darebbe peraltro la possibilità di
dotare l’automa anche di uno strato di pelle artificiale e Vaucanson
inizia a porsi l’obiettivo di tirare le fila del processo in atto e costruire
il primo compiuto emulato di un essere umano… ma il percorso mostra di essere
giunto al capolinea. In parte il limite è insito nella natura stessa del
tentativo poiché, come dirà più tardi Paul Valéry, “oltre la macchina è assente
quella sostanza incomprensibile che è però l’essenziale”. C’è, tuttavia, anche
un altro fattore: quando Vaucanson si propone di
costruire il primo uomo artificiale, è Luigi XV in
persona che gli suggerisce di virare la rotta verso un altro obiettivo,
facendolo nominare dal ministro De Fleury ispettore
alle manifatture francesi della seta. È il primo rudimentale tentativo di
organizzazione scientifica del lavoro. Anche i fratelli Jaquet-Droz,
dal canto loro, abbandonano gli automi per dedicarsi alla costruzione di
protesi del corpo umano.
È scoccata l’ora zero: l’Ottocento, con la
rivoluzione industriale, fa da cerniera ma i giorni dell’automa (questo
prezioso, iridescente giocattolo) sono ormai contati… Nel Novecento maturerà
definitivamente la metamorfosi dall’automa al robot, che differisce dal suo
antenato per un elemento fondamentale: non costituisce un’emulazione dell’uomo,
ma un suo tentativo di sostituzione e superamento soprattutto nell’ambito
dell’organizzazione scientifica della produzione industriale. La prospettiva
muta bruscamente e per la prima volta la macchina si configura come qualcosa di
realmente antitetico e di insidiosamente minaccioso per l’uomo;
nell’immaginario collettivo il rapporto fra uomo e macchina si capovolge: la macchina si metamorfosa in un mostro fagocitante che domina
l’uomo e lo trasforma in puro automa. Un esempio? L’immagine
tragicomica di Charlie Chaplin, vilipeso e sadicamente torturato in Modern Times.
Il riferimento non è casuale e non è un caso che il museo abbia dato spazio a
una carrellata di immagini tratte da pellicole del
cinema espressionista tedesco: brevi flash
su Metropolis,
Il Dottor Mabuse,
Il gabinetto del Dottor Caligari abbozzano scenari orrifici
e riflettono i timori di un uomo che sembra minacciato dalla sua stessa
creatura. Il rapporto uomo-macchina non si configura però solo in termini di
annichilimento o di pura funzionalità: dal Novecento in poi la macchina
impregna di sé la nostra cultura tanto quanto il corpo, a cui
è spesso e volentieri saldamente vincolata; basti pensare al “Grande Vetro” di
Duchamp di cui il museo espone alcune acqueforti (era inevitabile che il Dada
avesse una voce in capitolo determinante!). Il Museo d’Arte di Riva Caccia
mostra il lato creativo di questo rapporto con un’ampia panoramica sulle
influenze esercitate dal tema del robot e della macchina nell’ambito delle arti
figurative. È interessante notare come nell’immaginario artistico si intreccino le due valenze del tema: il carattere di puro divertissement e il lato funzionale. Al di là dei facili entusiasmi del Futurismo, colpisce
un’inedita opera Bauhaus, il Triadische Ballet di
Oskar Schmeller: un originale ludus frivolo e iridescente che
sembra ereditare la disimpegnata leggerezza degli automi settecenteschi.
Oskar Schlemmer
(1888 – 1943), Das Triadische Ballett, Goldkugel, 1922,
193 x 79 x 93 cm.
© 2009, Bühnen Archiv Oskar Schlemmer / The
Oskar Schlemmer Theatre
Estate: IT - 28824Oggebbio (VB), Italia,
www.schlemmer.org, Photo Archiv C. Raman Schlemmer, IT - 28824 Oggebbio
(VB), Italia
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A parte questo, tuttavia, la macchina, oltre che contenuto, si trasforma
progressivamente anche in corpo, struttura portante, soggetto e oggetto della
comunicazione artistica: è scontato il riferimento alle “macchine inutili” di
Bruno Munari o alle videoproiezioni di Giuliana Cuneaz,
ma l’artista (artista-inventore peraltro!) che forse più di tutti è riuscito a
sintetizzare questo aspetto è Panamarenko.
Una delle sue opere, Noordpool- Arlikoop,
rappresenta anzi una sorta di immagine archetipica: il
piccolo robot enigmaticamente abbandonato in una landa deserta si configura
infatti come una non-presenza in un non-luogo disertato dalla vita, dando voce
all’horror vacui di un’umanità
dominata dalle macchine. Questo senso di vuoto e di annichilimento sembra
essere la sensazione più rappresentativa del rapporto esistente al giorno d’oggi fra l’uomo e le macchine… eppure la
sensazione che si prova concludendo questo lungo percorso espositivo è
tutt’altro che cupa. Il merito principale della mostra consiste infatti nel fornire una prospettiva sovratemporale,
svincolata da interpretazioni legate alla nostra epoca (e quindi
fondamentalmente anacronistiche): un distacco e un’oggettività che in ultima
analisi esorcizzano timori e pessimismo regalando al pubblico il piacere di una
promenade squisitamente ludica.
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