Intervista al clarinettista e musicoterapista Giacomo Cassano

29 novembre 2009

Giacomo Cassano durante il seminario "L'importanza della musica nel setting dmt" (21-22 novembre 2009).

© Foto Gloria Chiappani Rodichevski

Visto che il tuo punto di partenza è il diploma di clarinetto conseguito presso il Conservatorio S. Cecilia di Roma, vorrei presentarti a partire da lì. Ci puoi, dunque, parlare della tua formazione?

Provengo da una famiglia (da parte di padre in special modo) di musicisti e quindi, si può dire che sono nato tra i suoni. Mio padre, direttore di banda, prima, e orchestra, dopo, diplomato in tromba e canto lirico, ha dedicato tutta la sua vita alla musica come docente in conservatorio e come presidente di varie associazioni musicali per promuovere la musica e i giovani musicisti (tutt'ora, anche se in pensione, collabora con l'associazione di canto liturgico internazionale S. Cecilia in Vaticano).

Qualche etologo potrebbe dire che le mie scelte, in campo musicale, erano obbligate. In effetti l'acculturazione musicale è stata nel mio caso molto importante e fino agli anni dell'adolescenza ho ascoltato solo musica classica e lirica. Per fortuna dopo mi sono rifatto di tutto quello che mi mancava.

All'età di sette anni ho incominciato a familiarizzare con lo strumento che poi è diventato il mio compagno di viaggio per molti anni: il clarinetto. Chiaramente come tutti i bambini volevo suonare lo strumento che suonava mio padre (la tromba), ma la mia scelta, da lui opportunamente indirizzata, è caduta poi sul clarinetto.

Non è stato un percorso lineare, il mio. Ho iniziato il mio corso di studi al liceo musicale G. Paisiello di Taranto, la città in cui ho vissuto fino a circa vent'anni. Ho frequentato le classi medie superiori annesse al liceo succitato e quindi i miei compagni di studi erano tutti studenti di musica, come me.

In estate mio padre portava me e mia sorella violinista ai corsi di perfezionamento musicale perché "un buon musicista non deve perdere mai l'allenamento", come diceva lui. Dopo le scuole medie, viste mie qualità musicali, decise di ritirarmi dal liceo di Taranto, in disaccordo con il metodo di studi dei suoi colleghi e coadiuvato dal parere dei maestri di clarinetto dei corsi di perfezionamento, che giudicavano il mio percorso di studi molto avanti per certi versi ma con vistose imperfezioni nell'impostazione dell'emissione del fiato. Così, in parallelo con i miei anni di studi superiori che mi hanno portato alla maturità professionale in tecnico di laboratorio chimico-biologico (biologia e chimica sono l'altra mia passione), ho cominciato a frequentare il conservatorio S. Cecilia in Roma nella classe del M° Vincenzo Mariozzi, all'epoca primo clarinetto dell'orchestra dell'Accademia S. Cecilia. Ogni martedì sera prendevo il treno da Taranto, dormendo in cuccetta, e al mattino seguente mi recavo in conservatorio per la mia lezione. Appena finito mangiavo un panino e verso le 15 circa ripartivo con l'autobus che mi riportava a Taranto. Al mattino ero nuovamente sui banchi di scuola.

A ripensarci mi sembra impossibile essere riuscito a portare a termine entrambi i corsi di studio e, aggiungo con un filo di immodestia, con una votazione finale sopra la media. Insomma, per dirla in breve, mi sono fatto il mazzo tra scuola (che era comunque al secondo posto nella scala di priorità) e musica, quindi di tempo per uscire a fare baldoria ne ho avuto ben poco, perlomeno fino agli anni della scuola. Chiaramente dopo la maturità mi sono trasferito a Roma, dove ho vissuto per un po' (in affitto, da solo, imparando così a gestirmi in altre faccende), per poter frequentare gli altri corsi paralleli a quello del mio strumento: storia della musica, musica d'insieme, canto corale, armonia, eccetera.

Nel tuo percorso formativo hai studiato anche improvvisazione jazz e canto indiano. Me ne puoi parlare?

Giacomo Cassano e alcune danzamovimentoterapeute durante il seminario "L'importanza della musica nel setting dmt" (21-22 novembre 2009).

© Foto Gloria Chiappani Rodichevski

Questo tipo di patrimonio mi deriva dai corsi di specializzazione frequentati dopo il diploma di conservatorio durante i miei studi di Musicoterapia. Durante la scuola triennale di Musicoterapia a Genova (non chiedermi come sono finito a Genova partendo da Taranto e passando per Roma perché altrimenti dovrei scriverti un romanzo e non so quanto questo racconto potrebbe essere interessante), mi sono reso conto di quanto fosse importante il tema dell'improvvisazione e di come lo stesso tema era, e credo lo sia ancora, poco sviluppato durante il corso accademico in conservatorio. Così ho deciso di integrare la mia formazione, in corso, con qualsiasi seminario o stage che mi arricchisse in tal senso (ho seguito anche seminari di canto armonico, o canto difonico, con uno dei più grandi esponenti nel campo della ricerca e sperimentazione di suddetta tecnica vocale).

Quale rapporto hai con il tuo strumento?

Come ti dicevo il clarinetto è stato per tanti anni il mio compagno inseparabile e come succede con le persone che convivono 24 ore su 24, si litiga, si urla contro e poi si fa la pace. Questo tipo di rapporto più o meno conflittuale, un po' al limite del patologico, è il rapporto che tutti i musicisti hanno con il proprio strumento (credo che qualsiasi altro musicista ti dirà più o meno la stessa cosa).

Come mai hai deciso di lavorare come musicoterapista?

La scelta di studiare per diventare musicoterapista è maturata dopo alcuni anni di carriera come musicista e soprattutto dopo una crisi "spirituale" in cui ho cercato di chiarire a me stesso quali erano i desideri e le aspettative che i miei genitori avevano riposto in me e quali erano invece i miei sogni e le aspettative per la mia vita. Vedi, noi cresciamo cercando di assecondare le aspettative degli altri nel continuo sforzo di non tradirle: prima i genitori, poi gli insegnanti, poi la nostra compagna o il nostro compagno e poi magari nostra moglie o nostro marito e i figli se ne abbiamo. Ma se ad un certo punto del nostro percorso di maturità umana non interrompiamo questo circolo vizioso per chiederci "io chi sono", "io da dove vengo" e soprattutto "io dove sto andando", finiamo per vivere la vita di qualcun altro, con la sensazione di aver perso qualcosa per strada… se stessi.

Che cosa deve avere un musicoterapista in più del musicista?

Questa è una bella domanda. Credo che l'umiltà di spogliarsi della veste di accademico per rimettersi nuovamente in gioco, rimescolando tutte le carte, sia stata l'arma vincente per me, per poter dire, oggi, di sentirmi pienamente musicista e pienamente musicoterapista.

Quali sono gli ambiti in cui ti muovi come musicoterapista?

Gli ambiti d'intervento sono quello sanitario-riabilitativo, per quanto riguarda il mio lavoro nelle cliniche psichiatriche, e l'ambito psicopedagogico-preventivo, per quanto riguarda i progetti nelle scuole e nei laboratori per bambini e adulti che tengo in uno spazio privato a Limbiate (Monza-Brianza).

Quali risultati si ottengono con la musicoterapia (mt) nei confronti delle diverse disabilità?

"La musicoterapia è una disciplina scientifica che ha come obiettivo quello di instaurare una relazione terapeutica stabile tra musicoterapista e paziente attraverso il canale non-verbale e l'uso del canale corporo-sonoro-musicale, con l'obiettivo di far acquisire al paziente nuove modalità di comunicazione con se stesso, il proprio nucleo famigliare, il mondo esterno, al fine di migliorare la qualità di vita del paziente." Questa è una definizione della musicoterapia, che si rifà ad uno dei modelli più accreditati, tra quelli che sono stati riconosciuti a livello mondiale: quella dello studioso argentino Rolando Benenzon. I campi di applicazione della terapia possono essere di tipo preventivo (gravidanza, prima infanzia e scuola), riabilitativo (deficit mentale e/o motorio, plurihandicap) e terapeutico (autismo, psicosi, nevrosi, pazienti oncologici, terminali, in stato comatoso eccetera).

La Musicoterapia è da tempo inserita come strumento della riabilitazione di pazienti psichiatrici e in tale contesto l'obiettivo del lavoro può essere quello di focalizzare e rafforzare le competenze espressive e comunicative del soggetto in cura, per facilitare un processo di armonizzazione della persona in diversi ambiti. Il punto di forza su cui si fonda la musicoterapia è la capacità di creare (o ampliare) canali comunicativi efficienti per raggiungere l'instaurarsi di una relazione terapeutica, con il terapista.

La comunicazione è componente irrinunciabile per l'essere umano e si fonda su dei parametri universali come competenza verbale, mimica, postura, sguardo.

Quando il disagio psichico non consente, attraverso il consueto linguaggio verbale, l'instaurarsi di una relazione sociale e di conseguenza uno sviluppo armonico della persona (nei riguardi dei rapporti sia intra sia extra soggettivi), ecco che la musica diviene un ottimo strumento per aprire nuovi canali di comunicazione, al fine dell'instaurarsi di una nuova relazione con la persona in difficoltà.

La relazione viene qui intesa come bisogno irrinunciabile dell'individuo che, senza possibilità di confronto con chi lo circonda, non può crescere interiormente.

Sono a tal proposito espliciti i diversi esperimenti, condotti in ambito etologico-psicologico, volti a dimostrare che il bisogno di relazione nasce negli esseri viventi ancor prima del bisogno di nutrimento.

Mi puoi raccontare il trattamento musicoterapico di un caso, i cui risultati ti hanno particolarmente soddisfatto?

Mi risulta difficile raccontarti in poche parole e in modo che risulti facilmente comprensibile, un trattamento di musicoterapia che solitamente ha una durata di molti mesi se non addirittura di diversi anni.

Di persone che riescono a concludere positivamente il loro percorso in comunità potrei citarne tante ma la cosa difficile è stabilire in che percentuale abbia inciso la musicoterapia nel complesso lavoro di équipe che viene svolto in clinica.

Comunque di recente ho pubblicato un articolo sulla rivista specialistica di noi Musicoterapisti (Musica e Terapia n. 19) in cui ho descritto in sintesi il trattamento inusuale della presa in carico in una delle comunità psichiatriche in cui lavoro, di una suora di clausura dell'ordine delle Carmelitane. L'articolo descrive il processo di cura della suora con diagnosi di depressione profonda, definendolo come un processo la cui riuscita è in larga parte attribuibile alla musicoterapia dato che il soggetto in cura ha frequentato, per tutto il periodo del suo ricovero, solamente l'attività di musicoterapia, con cadenza settimanale.

Ancora oggi la suora, rinata, viene a trovarci saltuariamente in concomitanza delle sue visite di controllo dallo psichiatra che la segue e posso dire di essere direttamente testimone del suo buono stato di salute che, spero per lei, duri per ancora molti anni.

Quali sono i requisiti per diventare musicoterapista oggi?

A mio parere serve una buona competenza musicale umanistica e poi bisogna frequentare seriamente un corso di Musicoterapia accreditato (che duri minimo tre anni) per acquisire le altre competenze specifiche (psicologiche, psichiatriche, eccetera).

Quanto è importante avere una base musicale solida (leggi: un diploma di conservatorio) per esercitare questa professione?

Come ho già detto non serve un pezzo di carta, ma la capacità di mettersi in gioco e poter dimostrare di aver fatto un percorso musicale che ha permesso di acquisire competenze tecniche, per poter essere in grado di improvvisare con uno strumento d'elezione e tutti gli strumenti atti alla disciplina (strumentario Orff); inoltre serve una competenza musicale a largo raggio per saper cogliere le idee musicali proposte dagli altre e saperle rielaborare.

Un personaggio che oggi rappresenta un punto di riferimento per la mt è il dottor Rolando Omar Benenzon, che ha coniato anche un modello, e che tu hai citato. Con lui ti sei specializzato.

Come ho detto prima, durante i miei anni di corso alla scuola di Musicoterapia ho sentito l'esigenza di allargare il mio raggio di formazione e fra gli altri corsi mi sono specializzato in musicoterapia didattica frequentando i tre livelli con il dottor Benenzon. Aggiungo che è stato un percorso formativo che mi ha insegnato molto e che mi ha aiutato molto nei primi anni in cui ho cominciato a lavorare sul campo come musicoterapista.

La musicoterapia oggi. Vogliamo cercare di fare il punto della situazione?

Oggi la Musicoterapia è una disciplina sempre più conosciuta e praticata in diversi ambiti, da quello psicopedagogico e preventivo, nelle scuole ad esempio, a quello psichiatrico riabilitativo nei vari centri che si occupano del disagio psichico e fisico a vari livelli (psicosi, disturbi dell'alimentazione, demenza senile, Alzheimer, plurihandicap, eccetera). Purtroppo stiamo (come professionisti siamo riuniti in una Confederazione di Scuole e Associazione e in un registro che raccoglie tutti i professionisti del settore formatisi nelle varie scuole, visibile nei siti www.confiam.it e www.aiemme.it ) cercando da tempo di ottenere il riconoscimento professionale e una conseguente regolamentazione della disciplina. Prima o poi dovranno ammettere che lavoriamo da anni sul campo e abbiamo bisogno di un riconoscimento professionale che vada anche nella direzione degli interessi delle persone che si rivolgono a tale metodo di cura. Oggi, come spesso succede in questi casi, vi sono troppi ciarlatani che esercitano senza alcun criterio e senza aver frequentato un percorso formativo adeguato che permette di avere tutti gli strumenti per fare i musicoterapisti. Troppo spesso capita di sentire denunce in TV di persone che si pregiano del titolo senza nemmeno avere un minimo di competenza.

La musica è un'arte complessa e merita rispetto. Si può essere appassionati di musica, ma non per questo essere degli esperti nel settore. Tanto più il discorso vale per chi intende utilizzare la musica a scopo terapeutico nella relazione d'aiuto. Qualcuno dice che tanto "la musica male non fa", ma io non mi trovo del tutto d'accordo. La musica influisce sulla nostra percezione e sulla sfera emotiva e, sebbene non sia uno strumento così potente da provocare dei danni imminenti, in mano a terapisti inesperti che non sanno gestire la relazione d'aiuto, può rivelarsi, alla lunga, uno strumento quanto meno controproducente se non dannoso in alcuni casi (vedi casi di autismo grave o casi di coma).

Mi pare (non ho statistiche alla mano) che la mt conti su un numero di operatori per la maggior parte uomini, mentre la danzamovimentoterapia (dmt) sulla maggioranza dell'altro sesso. È vero? Perché?

Non so se questo corrisponde a un dato certo. Io posso solo dire di conoscere molte colleghe che esercitano la musicoterapia. Credo che la cosa possa forse valere per la danzaterapia, nel senso che la percentuale di donne che si avvicinano all'arte della danza è statisticamente maggiore di quella degli uomini e di conseguenza il bacino da cui attingere, per i danzaterapeuti, è prevalentemente formato da figure di sesso femminile.

In ambito terapeutico la musica è usata non solo dai musicoterapisti, ma anche dai danzamovimentoterapeuti. Il 21 e il 22 novembre 2009 hai tenuto un seminario teorico-pratico riconosciuto nell'ambito della formazione permanente APID (Associazione Professionale Italiana Danzamovimentoterapia): "L'importanza della musica nel setting dmt: criteri di selezione e ascolto consapevole". Due domande. La prima: perché si è avvertita a livello APID la necessità di un tale seminario? La seconda: puoi sintetizzare quali sono i criteri di scelta dei brani musicali durante una seduta di dmt, dove si annidano i rischi di una scelta infelice e quali possono essere le conseguenze di tale scelta?

Da tempo collaboro professionalmente con alcune colleghe danzaterapiste e in particolare con la dottoressa Elena Fossati, nel cui studio "Lo Spazio" tengo dei laboratori per bambini e per adulti. L'idea di integrare le discipline era nei nostri cuori (le idee che contano nascono nel cuore e non nella mente) da tempo. Dopo il convegno sulle arti integrate tenutosi ad Assisi un paio di anni fa, che ha visto la partecipazione di Danzamovimentoterapisti, Musicoterapisti e Arteterapeuti, abbiamo sentito che era giunto il momento di fare e non più solamente parlare. La dottoressa Fossati, in qualità di vicepresidente della sezione APID Lombardia, ha proposto al direttivo APID l'approvazione di un seminario di musicoterapia applicato al contesto della danzaterapia, nell'ambito del percorso di formazione permanente che noi professionisti facciamo ogni anno. Ecco che la nostra idea è divenuta realtà e il 21 e 22 di novembre abbiamo dato inizio a qualcosa che speriamo possa essere solo il primo degli incontri d'integrazione tra le due discipline.

Per quanto riguarda la seconda domanda, è difficile, come tu puoi capire, sintetizzare dei concetti che sono stati elaborati da vari punti di vista (anche pratico) nell'arco di due intense giornate di lavoro. Cercherò, comunque, di farlo come posso.

Nelle due giornate di lavoro ho cercato di mettere in evidenza come la parola "musica" racchiuda una serie di complessi significati, difficilmente riducibili a una mera definizione. Innanzitutto nella musica non ci sono solo i singoli suoni, che di per sé hanno già determinate caratteristiche fisiche acustiche, che da sole sono in grado di comunicarci delle informazioni. Per esempio la sola altezza di un suono (acuto o grave) ci può dare un senso di gioia o al contrario una sensazione cupa, di tristezza o seriosità. Partendo dall'analisi dei parameri del suono (intensità, pitch – altezza ‑, profilo melodico, durata, tempo, timbro, riverbero) fino ad arrivare alla combinazione dei vari suoni e quindi all'analisi dei parametri musicali (dinamica, agogica, metrica, ritmo, tempo, profilo melodico, profilo armonico, tessitura, registro, estensione) abbiamo verificato come tutti questi elementi combinati insieme danno vita alla forma musicale. La musica è l'interrelazione che magicamente avviene tra tutti questi elementi combinati "ad arte" dal compositore. Così come avviene nell'arte pittorica: quello che trasforma una serie di righe e colori in arte è la relazione tra questa riga e quell'altra, il modo in cui un colore ne echeggia un altro nel quadro.

Analogamente avviene anche nella danza, che non è solo un'accozzaglia di movimenti corporei scollegati. L'interrelazione di quei movimenti è ciò che dà completezza e integralità; una coerenza e una coesione vagliate dai più alti livelli del nostro cervello.

Puntualizzato questo, abbiamo fatto un breve ma dettagliato excursus tra i settori nel nostro cervello andando a vedere come la musica va a stimolare quasi tutte le aree e come esse siano le stesse aree che presiedono abilità come il movimento, il linguaggio, l'elaborazione e l'immagazzinamento dei ricordi e ‑ da ultimo, ma non per ultimo ‑ la sfera delle emozioni.

La musica mobilita il corpo inducendo a trasferire l'armonia dei suoni in atti coordinati, speculari alle sue forme. Accanto ad una mobilitazione del corpo la musica è in grado di mobilitare emozioni: non solo quelle a noi più familiari, ma anche quelle meno frequentate, che giacciono sopite dentro di noi, difficili da definire per la loro nebulosità o che risultano inafferrabili per la loro fugacità e variabilità.

La musica ci soccorre nel toccare cose che sentiamo dentro, di cui non riusciamo a parlare, ma di cui ci sarebbe molto da dire; ci insegna ad ascoltare ciò che non sappiamo dire. L'ascolto musicale riesce insomma a promuovere una mobilità del corpo e del pensiero, che vengono invitati a muoversi più liberamente e a tentare percorsi inusuali.

Nell'ultima parte del nostro incontro abbiamo sperimentato personalmente come vi siano diverse condotte di ascolto in ognuno di noi (condizionate anche dall'acculturazione musicale dell'ambito sociale in cui siamo cresciuti) e come è possibile indirizzare l'ascoltatore su di un tipo di condotta piuttosto che su di un'altra.

Da tutto questo lavoro è risultato come non è certo una cosa scontata saper scegliere la musica che faccia da "sottofondo" (e su questo termine si è dibattuto parecchio) al lavoro di danzaterapia. Non basta scegliere in base al solo parametro ritmo, per esempio, perché in un brano musicale, seppur solo di percussioni, giocano anche il fattore tempo (l'andamento generale), il metro, la dinamica (il crescendo e il diminuendo di intensità), la presenza di pause o meno, l'accelerando e il ritardando (agogica). Se, poi, nel brano è presente una linea melodica, magari una voce, la scelta si fa ancora più complessa. Gli elementi combinati insieme influiscono sulla nostra percezione e sulla sfera delle emozioni a seconda che si segua una data condotta di ascolto piuttosto che un'altra. Risulta, quindi, fondamentale prima di tutto essere a conoscenza di questi fatti, poi averne consapevolezza nella fase di scelta dei brani da proporre, tenendo conto che una musica può dire cose diverse, a volte anche contrastanti. Perciò, se decido di usare quel tal brano devo essere preparato alla reazione di chi ascolta.

Se non si tiene conto di tutto questo, il rischio è che il terapista si prefigge un lavoro che non corrisponde affatto alla direzione in cui il nostro ascoltatore ci porta in risposta al brano proposto: cioè, egli si sintonizza su una condotta e su un "mondo", mentre il terapista è rigidamente bloccato nello schema che si è prefigurato nella fase di preparazione in base alla sua condotta d'ascolto. Quanti terapisti sono veramente consapevoli di tutte le risposte emotive suscitate da un brano proposto durante un lavoro di danzaterapia? È probabile che siano attenti al tipo di movimento compiuto durante la proposta musicale, ma forse poco all'emozione (ricondotta ad esempio a un ricordo, visto che l'area di attivazione del cervello è la medesima) che può aver evocato lo stesso brano proposto.

Il mio non vuole essere un giudizio, ma il lavoro proposto vuole essere solo uno scambio di competenze e professionalità in un mondo dove, a mio parere, l'interazione e l'agire in rete è qualcosa sempre più indispensabile se vogliamo raggiungere risultati stabili e duraturi in ogni campo.