Odissea fra corpi e forme. Intervista al pittore Rafael Dussan
18 settembre 2009
Sui muri bianchi di calce le immagini scorrono, silenziose
ed eloquenti al tempo stesso. Il piccolo studio milanese di Rafael Dussan ha qualcosa di insolito
rispetto al disordine bohémien, al
caos primigenio che imperversa negli atélier
di diversi artisti: c’è una sorta di tranquillo nitore, di concentrata quiete
michelangiolesca negli schizzi appesi alle pareti. E il riferimento a
Michelangelo, alla faticosa maieutica attraverso cui la forma, il corpo, emergono dall’informe, sembra il filo conduttore
privilegiato per comprendere l’opera dell’artista colombiano: il corpo, conteso
e dilaniato in un’eterna dialettica fra repressione e liberazione, fra
incatenamento e danza dionisiaca, fra punizione ed erotismo, trionfa in ogni
sua forma.
È difficile riscontrare nel percorso di un artista una tale
costanza tematica. La tua opera muta, ma ruota
fedelmente intorno allo stesso soggetto: il corpo. Cerchiamo di risalire alle
origini del tuo rapporto con l’arte.
Ho iniziato a disegnare molto presto. Mia zia era pittrice e anche mio
padre dipingeva.
Sei figlio d’arte dunque…
Inicio y final (2007)
©
Rafael Dussan
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In un certo senso sì, ma ho cominciato seriamente a dipingere molti anni
più tardi. Per molto tempo le mie inclinazioni sono state di natura totalmente
diversa, religiose e sociali (un binomio che in America Latina si incontra frequentemente). Di fatto i miei studi andarono
di pari passo con i miei interessi: mi laureai in filosofia e teologia, niente
a che vedere con l’arte quindi. La mia vita sembrava
anzi prendere tutt’altro corso: passai otto anni in seminario e venni ordinato prete.
Sembra che fino a questo momento la tua vita sia l’esatta
negazione di quanto hai sviluppato successivamente:
niente a che vedere con l’arte, e niente a che vedere con il gusto del corporeo
che permea così fortemente le tue opere.
Di fatto il fragile equilibrio che avevo costruito non poteva durare e si incrinò molto presto in una crisi che mi fece mettere in
discussione tutto. Vari aspetti della vita religiosa erano totalmente
incompatibili con la mia personalità e i miei desideri più profondi. In
particolar modo soffrivo per l’autoritarismo della vita ecclesiastica, per la
necessità di votarmi a un alterocentrismo alieno al
mio carattere. L’assenza dell’arte aggravava ancora di più il mio senso di insofferenza e di estraneità: mi sentivo in trappola.
Così mi decisi: rinunciai all’abito e mi ritrovai al punto di partenza, libero.
Avevo 26 anni. Iniziai a lavorare come insegnante di
liceo e ripresi a dipingere. Nell’89 ho esposto per la
prima volta i miei lavori in una mostra personale a Bogotà.
Dopo un percorso esistenziale di questo tipo mi viene
spontaneo chiederti come fossero le tue prime opere, quali fossero le
caratteristiche del tuo stile di partenza.
Animalidad vegetal (2007)
© Rafael Dussan
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Astrattismo. I miei referenti principali erano allora Manuel Hernandez ed Edgard
Negret, che si erano formati in un background artistico, quello newyorkese,
in cui l’astrattismo era una scelta praticamente obbligata.
Oltre all’influenza dei tuoi maestri mi sembra comunque che lo
stile astratto fosse anche lo sbocco più naturale di un periodo di compressione
e claustrofobia esistenziale come era stata l’ultima
fase della tua “vita religiosa”.
Sì, indubbiamente nella mia prima fase pittorica l’astrattismo ha
rappresentato soprattutto un’esplosione di energie, un prorompente gesto
liberatorio.
Ho vissuto l’inizio della mia produzione artistica in modo molto
soggettivo: nella fase astratta non c’è stata tanto la
ricerca di uno stile, quanto fondamentalmente e soprattutto espressione,
svincolamento.
Dal punto di vista artistico, quindi, il tuo periodo astratto
ha costituito una fase prettamente transitoria.
Infatti. Nel ’93 partii
per Parigi e frequentai per due anni un corso di incisione
che innescò in me una nuova crisi. Crisi artistica in questo caso. Da una parte
cominciai a superare l’astrattismo: dall’informe iniziarono ad
emergere timidamente i primi corpi; dall’altra, per la prima volta, iniziai a
percepire chiaramente le mie carenze nel disegno. Nel momento in cui iniziava a
maturare l’esigenza della forma, cresceva in me la coscienza della difficoltà,
o meglio: della mia incapacità di definirla. Tornai in Colombia totalmente in
crisi e mi ritirai a vivere in campagna con alcuni amici.
Fu uno di loro a trovare la chiave di lettura adatta non tanto a
risolvere la mia crisi, quanto a farmela comprendere fino in fondo. D’altra
parte il mio amico era psicanalista e musicista, quindi poteva capirmi...
In quanto psicanalista?
No, in quanto musicista! Nessuno più di un
musicista può capire e condividere l’ossessione per la forma, per la sua
costruzione e definizione. Di fatto il mio amico andò subito al nocciolo della
questione chiedendomi d’emblée se per caso avessi paura del corpo. La sua
domanda mi spiazzò; improvvisamente capii da cosa dovevo partire: impadronirmi
del corpo, affrontarlo e dominarlo.
Come aveva detto il mio amico, prima di distruggere la forma, dovevo
assimilarla.
Come hai reagito quindi? In che modo hai iniziato ad
affrontare la problematica?
Paola la esclava
(2009)
©
Rafael Dussan
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Ho iniziato a studiare, a studiare sul serio.
In parte, però, l’aiuto principale mi è arrivato in modo del tutto spontaneo
dall’esterno, da un mutamento imprevisto.
Cioè?
Nel ’97 ho ricevuto l’invito ad andare ad insegnare in una piccola città caraibica della Colombia
del Nord: Cartagena de Indias. Antiche case coloniali
dai colori vivaci, spiagge bianchissime incorniciate nel verde tenero delle
palme e nell’azzurro abbagliante del mar dei Caraibi… Sembra un’immagine da
cartolina, lo so, ma in realtà Cartagena è molto di più: il trionfo della
cultura afroamericana, della sintesi perfetta fra anima e corpo, magia e
sensualità.
Ho un’immagine che mi si è impressa con forza nella mente e che per me
costituisce la sintesi più profonda di Cartagena: la nudità scultorea,
color ebano, delle donne nere che lavavano i panni. Erano completamente nude,
ma la loro nudità, scioccante in qualsiasi altro contesto,
sembrava trasudare in modo del tutto naturale dalla luce abbagliante di
Cartagena.
Sicuramente il luogo ideale per “impadronirti del corpo”. Le
immagini che hai evocato ricordano l’impatto di Gauguin con la realtà di Tahiti,
ma se per Gauguin l’incontro si era sintetizzato nella conquista di una nuova,
inedita dimensione coloristica (e tematica), credo che
nel tuo caso la metamorfosi abbia influito soprattutto sul disegno, sulla
definizione della forma corporea.
Non solo: Cartagena per me rappresentava anche il riemergere di un
immaginario visivo risalente alla mia prima adolescenza trascorsa ad Haiti, dove mio padre era stato trasferito come
funzionario bancario. In questo senso il soggiorno a Cartagena ha costituito
una sorta di ritorno al passato che ha liberato immagini sedimentate anni prima
in me, consentendomi in questo modo di raggiungere pienamente la maturità
artistica.
Per quanto tempo ti sei fermato a Cartagena?
Quattro, cinque anni. Dopo di che sono partito per l’Europa e sono
tornato a Parigi per iscrivermi nuovamente al corso di incisione,
molto più forte e sicuro di me rispetto alla prima volta. Da allora, eccettuati
alcuni viaggi per allestire mostre a Bogotà, sono rimasto in Europa e dal 2002 mi sono trasferito in
Italia.
Il tuo secondo soggiorno europeo, ti ha visto tutt’altro che
timido: hai allestito numerose mostre in gallerie di prestigio e alcune delle
tue opere sono ora ospitate in esposizione permanente al Musée
de l’Erotisme di Parigi e al Museo Erotico di
Venezia, nonché in diverse collezioni private.
Durante il tuo percorso sei entrato in contatto con almeno tre
realtà artistiche differenti: la colombiana, la francese e l’italiana. Che differenze noti a livello di recezione e produzione
artistica?
Sono mondi completamente differenti. In Colombia la produzione artistica
è rimasta strettamente ancorata al referente europeo. Non è un caso che anche
la fortuna della mia opera sia stata influenzata favorevolmente dal mio
trasferimento a Parigi prima, e in Italia poi. L’ambiente francese è selettivo
ma stimolante, la produzione artistica viene condivisa
e fruita anche dai giovani. L’Italia invece è il paese dei paradossi: il
passato, onnipresente, dovrebbe fungere da stimolo e invece agisce come
elemento deterrente: fra passato e presente non esiste continuità, la modernità
viene spesso recepita come una sorta di sacrilegio, di
delitto di lesa maestà verso il passato. Non a caso, per reazione, le
avanguardie in Italia finiscono per essere molto più radicali che altrove. A
livello più personale, un'altra caratteristica tipicamente italiana che vivo
con insofferenza è il contrasto fra sacro e profano, e in particolar modo la
repressione che il potere religioso esercita in modo anche oggi così forte,
complice una mentalità ancora fortemente radicata.
La sensibilità al tema dell’oppressione esercitata dal potere
(religioso in particolar modo) e soprattutto l’insofferenza rispetto alla repressione dell’erotismo mi sembrano temi ricorrenti nei
tuoi lavori. Hai illustrato opere letterarie demonizzate in passato, come L’Anticristo di Nietzsche e Histoire de l’oeil di
Georges Bataille.
È di due anni fa, invece, il tuo incontro con un altro grande
“maledetto” della letteratura europea: Oskar Panizza.
Nel 2007 ho prodotto una serie di opere ispirate al Concilio d’amore. Tragedia celeste, un testo teatrale la cui
pubblicazione, nel 1899, aveva valso al suo autore un anno di carcere. Il testo
di Panizza mi ha colpito in modo profondo per la sua verve polemica e
per l’incisività della sua satira. Dal tema si può capire facilmente perché
l’opera abbia suscitato una repressione così ferrea nella cattolicissima
Baviera: furioso per la depravazione diffusa alla corte papale
di Alessandro Borgia, Dio invia agli uomini il flagello della sifilide.
Che peraltro, anni più tardi contrarrà lo stesso Panizza, il quale morirà pazzo in manicomio come Nietzsche.
Temi sempre scottanti, quelli affrontati da Panizza. Cinque anni prima, in coincidenza con la
proclamazione del dogma dell’immacolata concezione, aveva pubblicato un
pamphlet intitolato L’immacolata
concezione dei Papi, tempestivamente ritirato dalle autorità bavaresi.
Inquisitor
© Rafael Dussan
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Capirai quindi… il tema mi era decisamente
congeniale. Ho letto il testo con interesse e dipinto con vero coinvolgimento, tanto
più che in coincidenza con la mostra ha iniziato a maturare nel mio stile un
mutamento profondo, che oggi è approdato a un cambiamento radicale.
Una domanda al volo: sei riuscito a esporre le opere sul Concilio d’amore in Italia?
Sì, a Ferrara, alla galleria “Blancheart”
di Milano e alla galleria “Meridiana” di Pietrasanta, in Toscana. Hanno avuto
molto successo anche a Parigi (le ho esposte in una personale alla galleria “Nuitdencre”)
e a Bruxelles.
Accennavi a un mutamento di stile iniziato nel 2007.
Sì. Lo sfondo (generalmente vuoto, privo di coordinate spaziali, dipinto
ad acrilico) ha iniziato a riempirsi di forme: una vera e propria
proliferazione ipertrofica di corpi che è approdata ad
una sorta di astratto organico. Le mie tele si sono trasformate in una specie
di sottobosco pullulante di corpi fortemente
sessualizzati.
È un esito curioso, in un certo senso molto coerente con il
tuo percorso. Sei partito dall’astrattismo, in un
momento in cui non dominavi ancora la forma e sei approdato ad un astrattismo
che al contrario, sembra sorgere proprio dalla forma e dal suo pullulare.
Anche nel disegno, nella delineazione della forma ha iniziato a prodursi
un cambiamento. Oltre al consueto uso del carboncino ho iniziato anche a
disegnare direttamente con il pennello, con tratti neri lunghi e decisi.
Hai parlato del 2007 come di una fase di transizione dal punto
di vista stilistico.
Sì, oggi sento di essere entrato in modo compiuto in una nuova fase. Il
colore è ora una presenza episodica: ho decisamente
sposato il bicromatismo bianco-nero.
E nel disegno? Il pennello ha definitivamente soppiantato il
carboncino?
No, pennello e carboncino continuano a convivere, anche se ultimamente
tendo ad usare il carboncino prevalentemente per la
definizione dei tratti somatici, dell’espressione.
Questo mi sembra un ulteriore
cambiamento: ricordo che nelle tue opere passate i personaggi erano privi di
una vera e propria caratterizzazione somatica, come se fossero corpi senza
volto.
Mi piacerebbe vedere le ultime opere in cui è maturata la tua
metamorfosi stilistica. So che stai preparando una nuova mostra.
Sì, una mostra per me molto importante: in primo luogo perché si
svolgerà a Cartagena, città che come ti dicevo ha svolto un ruolo chiave nel
mio sviluppo artistico; inoltre mi ha stimolato in modo particolare il luogo
che ospiterà l’esposizione: un antico palazzo coloniale che in passato era
stato la sede dell’Inquisizione spagnola.
Un ambiente suggestivo e
particolarmente congeniale alla tua sensibilità. Qual è il tema che hai scelto
per le tue opere?
In questo caso è stato l’ambiente stesso ad
ispirarmi: le opere ruotano appunto intorno al tema dell’Inquisizione, della
repressione esercitata dal potere religioso. Naturalmente, prima di scegliere
concretamente il soggetto delle opere, ho dovuto documentarmi in modo
approfondito. Ciò è andato ben al di là di un semplice
studio: mi ha aperto un vero e proprio mondo sconosciuto.
Cos’hai letto nello specifico?
Prima di tutto il Malleus Maleficarum, un manuale scritto alla
fine del Quattrocento da due frati domenicani per agevolare gli inquisitori nel riconoscimento
delle streghe. Quel testo, freddo e analitico (quasi “scientifico” nel suo
genere) è lo specchio fedele della demonizzazione della donna, della femminilità
in generale anzi, e del corpo femminile in particolare. Ho letto anche una tesi
di dottorato, incentrata sull’attività dell’Inquisizione spagnola a Cartagena
nell’ultimo decennio del Settecento. Due dei casi citati sono diventati
l’ispirazione principale delle mie opere: il primo riguardava una donna di
colore accusata di stregoneria, deportata a Cartagena dall’Avana e giustiziata;
nel secondo caso gli imputati erano invece due lavoratori neri di una
piantagione di canna da zucchero, deportati a Cartagena sotto accusa di sodomia
e giustiziati.
Mentre parla, Dussan srotola sul
pavimento dell’atélier alcune tele, che verranno
intelaiate direttamente a Cartagena. Mi rendo improvvisamente conto di un’ulteriore metamorfosi, di carattere “dimensionale”: mentre
le dimensioni delle opere precedenti erano normali o ridotte, ora prevale il
grande formato. Sembra di contemplare dei grandi affreschi, e dell’affresco le opere riportano anche un’altra caratteristica:
l’aspetto sacrale. Provo ad immaginare le grandi tele
affisse alle pareti imponenti del museo colombiano, su cui si staglieranno con
la loro potenza scultorea in una sorta di apocalittica epifania profana.
L’antico palazzo dell’Inquisizione si trasformerà in una sorta di chiesa, o di
tardivo autodafé in cui le vittime giudicheranno i giudici-carnefici.
Ciò che mi sorprende, tuttavia, è il
fatto che le vittime non si configurino realmente come tali: la
contrapposizione di base sembra piuttosto risolversi in dicotomia
pesantezza-leggerezza: mentre le figure degli inquisitori giganteggiano tristi
sotto le grevi cappe nere, le figure delle vittime, chiare e scultoree nella
loro abbagliante nudità, sono caratterizzate da un’estrema levità: in alcune
sequenze, palesemente, si sciolgono dalla prigionia e danzano. In particolar
modo mi colpisce un imponente trittico; nella parte centrale si stagliano le
figure degli inquisitori, sparute sagome corvine palesemente atterrite dai
personaggi che campeggiano ai loro lati: due figure femminili dall’imponenza scultorea, quasi michelangiolesca. Le donne raffigurate
(bianchissime e contrastanti con il nero cupo degli inquisitori) sono
incatenate, eppure non hanno niente che le faccia
apparire come vittime: sembra al contrario che stiano processando i loro
carnefici.
Rispetto ai tuoi lavori precedenti il mutamento stilistico è
davvero rilevante. Prima della svolta del 2007 i tuoi dipinti trasudavano
influenze rinascimentali: ciò che colpiva della tua opera era la sua coraggiosa
“inattualità”. Oggi i referenti pittorici sono meno palesi.
In un certo senso però sento che anche oggi la mia pittura sintetizza
alcuni aspetti della fase precedente: il mutamento iniziato nel mio stile a partire dal 2007 non rappresenta una cesura, ma una
metamorfosi che si sviluppa sul filo della continuità; non a caso alcune opere
che esporrò a Cartagena sono la trasformazione, o meglio l’attualizzazione, di
opere precedenti: Inquisitore che balla
la cumbia, per esempio, non è altro che una delle
opere che in passato ho esposto in una mostra a Pietrasanta, in Toscana. Anche
i referenti per me rimangono gli stessi: Leonardo per il disegno; Michelangelo
per la potenza dell’impronta corporea e per l’emergere della forma
dall’informe, Bruegel e Hieronymus
Bosch per la rappresentazione dei gruppi e per il senso del grottesco, Turner
per la pennellata, Klimt e, soprattutto, Schiele per
la centralità dell’erotismo.
Inquisitor bailando la cumbia (2007)
©
Rafael Dussan
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È vero però che ultimamente sento un’affinità particolare, in un certo
senso del tutto nuova, per Goya.
Le opere per la mostra di Cartagena, in effetti, richiamano in
modo marcato le “pitture nere” della Quinta del Sordo.
Un’ultima domanda, prima di concludere
la nostra chiacchierata: dalla vocazione religiosa dei tuoi vent’anni sei
passato ad una critica corrosiva della religione come istituzione. Che ruolo ha
ancora la religiosità nel tuo percorso artistico e che modifiche ha subito il
tuo originario orientamento cattolico?
Anche in questo senso, come ti dicevo riguardo allo stile, parlerei di
metamorfosi più che di cesura: il sentimento religioso non è scomparso, ha
semplicemente “cambiato pelle”, spogliandosi degli orpelli più superficiali.
Negli ultimi anni ho iniziato a sentire una forte sintonia con la filosofia
buddhista.
Non a caso, la forma di religiosità più
scevra dagli aspetti istituzionali della “religione”.
La più libera: il buddhismo è l’antico gnozi seautòn, il “conosci te stesso” di
Socrate, ed è anche senso dell’hic et nunc, la percezione di
vivere in una realtà “impermanente”.
L’eterno fiume di Eraclito in cui “scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo”…
In fondo, esattamente ciò che cerco di tradurre nelle mie opere:
rappresentare corpi in movimento, presenti e inafferrabili al tempo stesso.