Intervista al ballerino Fabrizio Laurentaci

6 marzo 2009

Vogliamo cominciare dal suo curriculum? Quali sono i punti che ritiene più importanti della sua carriera?

La mia è stata una carriera bizzarra, forse perché sono arrivato alla danza a quasi quindici anni. Non tanto tardi, tutto sommato, considerando la media standard del settore maschile nel nostro paese. Bizzarra soprattutto se penso che avevo già praticamente debuttato come professionista a 19 anni (come primo ballerino in una commedia musicale al Teatro Petruzzelli di Bari e contemporaneamente vivevo la mia prima "commissione" come coreografo) ma, pochi mesi dopo, venivo ammesso all'Accademia Nazionale di Danza di Roma al terzo corso perché dovevo… "ripulirmi". "Carino ma deve studiare pulito" – testuali parole della compianta Giuliana Penzi, ex direttrice dell'Accademia, scomparsa lo scorso anno. Con lei ho avuto modo di lavorare anche come coreografa, due anni dopo: mi scelse per danzare con il Gruppo Stabile dell'Accademia per una serie di spettacoli ad Atene e mi nominò portavoce del Corpo di ballo (sosteneva fossi un ragazzo colto). L'anno successivo danzai come primo ballerino con una compagnia di quelle sovvenzionate dallo stato: tanti spettacoli in giro per l'Italia. Cominciai a comprendere cosa volesse dire fare un mestiere un po' "nomade", com'è in fondo quello di diversi ballerini. I due anni al Teatro dell'Opera, tranne una produzione, non li ricordo con particolare gioia. Però lì capii che cosa significasse essere "impiegati tersicorei".

Una svolta fondamentale per me, come danzatore e docente, è stata la fortuna di aver incontrato colei che ancora oggi considero mia madre nella danza: Wilma Valentino. Con lei ho avuto un rapporto intenso, quasi filiale. Una "madre" severa ma anche saggia e affettuosa. Nonostante sia scomparsa da quasi cinque anni, percepisco i suoi insegnamenti, i suoi sguardi così eloquenti, sempre più vivi. L'incontro con Claudia Venditti ha segnato diversi anni del mio cammino, nel bene e nel male. Abbiamo avuto un rapporto professionale e di collaborazione ampio, ricco di alti e bassi, ma stima e rispetto non sono mai venuti meno. Sono stato suo partner e primo ballerino della sua compagnia per otto anni. A lei devo anche il mio primo stage come docente. Potrei enucleare altre tappe, eventi, soprattutto come coreografo, ma la pubblicazione del mio primo romanzo ed il conseguimento della Laurea di secondo livello hanno rappresentato per me una svolta da un punto di vista umano, oltreché professionale. Tornare dietro i banchi di scuola a quarant'anni suonati per concludere o iniziare un percorso, non è semplice. In più ero inizialmente visto come "diverso", poiché insegnavo modern jazz: per alcuni venivo dalla televisione. Tuttavia con un po' di umiltà, di sana volontà e tanto lavoro sono riuscito a concludere il percorso nel migliore dei modi. E poi ho virato.

Una sua creazione (Il sorriso ai piedi della scala, 1993) fu interpretata da Vladimir Derevianko. Mi può raccontare questa esperienza?

È un'esperienza "dolceamara" quella legata al Sorriso. Città della Musica, 1993: poteva essere un evento notevole, incredibile (e per certi versi lo è stato), ma rappresentò una debacle finanziaria per mio fratello che ne era l'artefice. Fu proprio lui a parlarmi del racconto di Henry Miller a cui mi ispirai per la coreografia. Feci molte ricerche per ricreare nel mio immaginario quello che poi divenne il balletto. Augusto non poteva essere che Volodia Derevianko. Lo chiamai e ci incontrammo appena possibile. Era intrigato, ma super impegnato. Dovetti attendere due mesi e mezzo per il suo" sì" definitivo. Ipotizzai altri interpreti, nel caso non avesse accettato: ma avevo pensato a lui dall'inizio e non riuscivo a pensare ad un altro interprete credibile. Ricordo che arrivò a Bari tre o quattro giorni prima della serata di gala e si mise subito al lavoro, nonostante venisse da una Gala ad Amburgo con Neumeier e poche ore di sonno. Un serissimo professionista, ma anche divertente e arguto. Il mio balletto gli piaceva, ma ha sempre avuto perplessità sulla partitura, fin dall'inizio. Credo avesse proprio ragione. Avrei dovuto ascoltarlo, anche perché non parlava solo da interprete. Oggi saprei come intervenire sulla partitura meglio di allora e a vari livelli. Purtroppo le vicissitudini di Città della Musica ci hanno allontanato, ma ho continuato a nutrire molta stima e affetto nei suoi confronti ed un piacevole ricordo delle ore trascorse insieme. Vista la sua competenza, oltre all'innegabile cultura,sono certo sia un ottimo direttore.

Esistono molti modi di pensare al corpo: il corpo in pittura, oggetto - ad esempio - di un nudo accademico; il corpo che viene fotografato; il corpo che parla attraverso il linguaggio studiato dalla DanzaMovimentoTerapia. Che cosa rappresenta il corpo per Fabrizio Laurentaci ballerino? E per Fabrizio Laurentaci coreografo?

Come danzatore considero il corpo come pura energia vivente nello spazio; come coreografo cerco di canalizzare, articolare, attraverso una regia del movimento, quello che attraverso il corpo vorrei esprimere. Studiare il linguaggio del corpo, non solo umano, consente al coreografo come al danzatore di esprimere pulsioni, aneliti e percezioni .Il corpo è forse il mezzo di espressione più ricco e complesso che la natura ci ha dato e in più lo portiamo costantemente con noi. E per corpo intendo tutto ciò che da esso può scaturire, anche la voce. Che cosa c'è di meglio? Bisognerebbe sensibilizzare maggiormente i ragazzi, non inibirli. Hanno già tanti complessi, soprattutto nell'adolescenza. Il corpo è per me tempio dello spirito, la mia orchestra (è uno strumento polifonico), il tramite fisico fra le dimensioni.

Come nasce una coreografia? Da dove prende le idee?

C'è sempre qualcosa che abbiamo necessità di dire e l'arte (quando la raggiungiamo o quantomeno ce ne avviciniamo) è il nostro mezzo. Ho varie cose che ronzano nella mia mente intorno ad un tema ed il difficile ‑ almeno per me ‑ è trovare il motivo o la motivazione che le unisca in unico indiscutibile corpus. Amo il cinema, la musica, la letteratura, la pittura, perciò la fonte dell'ispirazione si presenta in contesti e in momenti apparentemente distanti dalla tematica che andrò a sviluppare, salvo poi comprendere… Be' è un po' come la sceneggiatura di un film, disseminata di indizi, frammenti che poi si ricompongono. Le idee baluginano talvolta anche da una banale conversazione. Un coreografo, come un regista o uno scrittore, deve avere le antenne sempre pronte a recepire.

A volte lei si è adoperato per il marketing, pubblicizzando un prodotto attraverso un'idea coreografica, in particolare assemblando danzatori e modelle.

L'ho fatto quand'ero molto giovane, ed è stata una palestra notevole. Si imparano diverse cose. Tra l'altro sono stato anche fortunato a farlo in un momento in cui c'era voglia di dare la possibilità a giovani emergenti. I budget che avevamo a disposizione non erano irrisori. Penso che la danza sia consona alle necessità visive della moda.

Che cosa pensa della sinergia tra le arti?

Credo sia un'ottima cosa, a patto che a porla in essere siano operatori che sappiano farne buon uso. Più d'una volta mi è capitato di assistere a lavori pretenziosi con inutile sperpero di fondi: un trionfo del cattivo gusto spacciato per arte innovativa. E pensare che esistono dei veri talenti in grado di fare cose mirabili con poco. La sinergia è un concetto insito nella natura stessa delle cose, ma le singole entità energetiche devono comunque essere comprensibilmente impiegate. Riconosco che leggere il linguaggio dell'arte spesso non è facile, soprattutto quando innova sul serio. Ma il compito sostanziale dell'arte è, e dovrebbe essere, comunque, cercare di rendere semplice ciò che semplice non è.

Che cosa pensa della situazione attuale della danza in Italia?

La danza in Italia non è vista o contemplata come un lavoro, una professione a tutti gli effetti. E questo fa sì che esistano limitazioni nella sua cultura e nella sua diffusione. In realtà non esiste da noi ancora una cultura della danza. E per diffusione intendo quella capillare: provi a immaginare cosa possa essere nell'immaginario dei ragazzi di paese un loro coetaneo che fa danza; e quali spettacoli, oltre i "nemici" della De Filippi crede possano vedere le ragazze che la praticano. Andando in giro per l'Italia a montare coreografie anche nei paesi, mi sono imbattuto in situazioni di ignoranza alle quali non si può porre rimedio se non subentrano stimoli importanti a sanarle. La cultura è un processo graduale e capillare, e come tale va seguito con devozione. Se i ragazzi non vedono e non sentono altro, come si può pretendere che si evolvano. E questo limita molto anche il potenziale vivaio. Da ragazzo, tra i 15 e i 19 anni, ho avuto la fortuna di assistere a tanti spettacoli al Teatro Petruzzelli che in quel momento vantava la più bella stagione teatrale d'Europa. Poter vedere Kylian e Forsythe per cinque sere di fila ha determinato in me il desiderio di fare il coreografo. Per salire più a monte ‑ e concludo ‑ non trova assurdo che un paese che detiene il 70% del patrimonio artistico mondiale, che dovrebbe produrre ed esportare cultura, si ostini invece a produrre tutt'altro? È questa la realtà, amara e grottesca nel contempo. Mi spiace ma non concluderò la conversazione con l'ottimismo a tutti i costi: c'è bisogno di verità ora, non di finte consolazioni. Sa quante forme di violenza verrebbero mitigate se riuscissimo a sensibilizzare fin dalla scuola i ragazzi alla conoscenza del loro corpo? E questo non sono certo il solo a pensarlo. Conoscersi consente di accettarsi, di rispettarsi e di viversi, dentro e fuori.