Leonardo Sciascia in un frammento
L. M.: poco più di trent'anni, piuttosto alto, fisico
asciutto, viso angoloso ma non disturbante, pelle olivastra. Si trasferì per
lavoro al Nord dove rimase per un paio d'anni. Durante tutta la sua permanenza
sofferse profondamente i ritmi dell'industrializzazione.
Poco loquace, lo immaginavo perso spesso nella nostalgia
della Sicilia da cui proveniva: una nostalgia di cui, per vero, non si
lamentava troppo apertamente. Era generoso d'una generosità non ostentata,
spassionatamente ammirato delle capacità intellettuali altrui, come sovente
accade nelle persone non acculturate, ma un poco distaccato da tutto e da
tutti.
Le nostre conversazioni non erano frequenti e non vertevano
su temi di particolare interesse: di lui apprezzavo l'immediatezza nel porgersi
e la sua non avidità, quindi parlare con lui rappresentava per me la
tranquillità derivante dalla coscienza che non avevo di fronte una persona ben
riparata da uno schermo e dalla quale occorre sempre attendersi un fendente.
Molte volte, durante il nostro pacato conversare, volle
esprimermi l'esigenza di ritornare al suo Sud, quel Sud che l'aveva sempre
nutrito d'una calma intensità; un Sud – insomma – che può aiutare a coltivare
la noia. Me lo ripeteva, questo concetto, anche se non esattamente con le
parole che userò ora per esprimerlo. La noia è un bisogno che si riesce a
soddisfare solo quando si trova l'hic et
nunc: occorre il luogo idoneo e molto tempo; nell'industrializzato Nord la
noia è status non possibile.
E perché io potessi ascoltare empaticamente questo suo
desiderio di noia, L. M. lo contestualizzava nei suoi luoghi e ciò lo faceva
diventare persino loquace. Nel suo parlare si snodavano i ricordi: l'Etna e i
paesi d'intorno, le campagne assetate, Leonardo Sciascia conosciuto solo negli
ultimi tempi.
Quando gli sentii fare questo nome, gli chiesi di
raccontarmi dello scrittore, ma L. M. me ne potè accennare soltanto: era cugino
di sua nonna Carmela e, quando egli lo conobbe, Sciascia non godeva di buona
salute; inoltre lo caratterizzava una forte riservatezza. Del resto L. M. non
fu mai spinto dalla necessità di penetrare la personalità dello scrittore e il
modo in cui il giovane lesse l'altro fu piuttosto singolare: non era l'uomo di
fama che lo interessava ma il siciliano; soprattutto uno che – appunto in
quanto siciliano – sapeva comprendere l'esigenza di noia che si annida nel
profondo e che occorre soddisfare, se si vuole sopravvivere alla deleteria
frenesia del Settentrione.
Quando un'esperienza o una presenza umana mi toccano, molto
spesso rispondo con la poesia. Così fu in quell'occasione. L. M. lesse Sicilia (Il tempo d'annoiarsi), appena
terminai di scriverla. La poesia venne pubblicata in volume dopo qualche anno.
Nel frattempo lui era tornato al Sud e là gli spedii il mio libro (Volto dietro la
foschia, Torino, 2003), sicura che esso l'avrebbe raggiunto in uno di
quei non rari momenti in cui il giovane si sentiva pago d'inazione.
Devo essere tranquillo
d'annoiarmi,
qui non si riesce.
Giù c'è il sole che lo segui ad ogni istante
fino a che scende nel ventre della terra,
qui non ci sono paesaggi da arrossare di tramonto.
Là io guardavo gli spazi sconfinati
con le oasi di noia in cui sedevo
concentrato a scacciare ogni pensiero.
Il sole entrava diritto a mezzodì
e tu stavi sull'uscio:
bevevi vino inebriante
fino alla luna
e lungo ogni notte, ora dopo ora.
Racalmuto, Castrofilippo, Naro, Sciacca, Montedoro:
campagne dalla molta sete
campi bruciati
o vigneti
e ulivi;
dopo il vallone di Racalmuto risalgo
quando è sereno
per vedere i fumi dell'Etna.
E ricordo Leonardo Sciascia,
cugino di mia nonna,
visto più volte a Contrada Noce.
Lo ricordo non come scrittore:
come essenza della Sicilia, uno di noi.
Forse uno che può essere tranquillo d'annoiarsi,
non so, non l'ho mai chiesto:
lo conobbi sofferente e riservato.
Chissà, l'avessi conosciuto prima
avrebbe magari scritto
del tempo che voglio avere d'annoiarmi
(così so che non fermo pensiero alcuno
nessuna voce
né la risacca.
Non rigurgito la nullità:
è l'inazione che m'appaga.)
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