Intervista al coreografo Andrea Cagnetti

Andrea Cagnetti e Gloria Chiappani Rodichevski durante lo stage internazionale di danza Danser ensemble – Danzare insieme (Borgo Cardigliano di Specchia, 20-27 luglio 2008), mentre preparano la lettura delle poesie per lo spettacolo finale.

© Foto Alexandre Rodichevski

1 agosto 2008

Le tue radici affondano nell'arte, essendoti diplomato presso VI Liceo artistico di Roma. Quali messaggi ti dato questa prima formazione?

Per essere più precisi sono passato dal 4° anno di frequentazione del Liceo Scientifico al Liceo Artistico (e mi hanno retrocesso: dopo aver passato gli esami in tutte le materie, educazione fisica inclusa, mi hanno ammesso al terzo anno, potevo scegliere tra il 5° Scientifico o rifare il terzo e poi maturarmi con il 4°) proprio perché avevo deciso a 16 anni di volgere la mia carriera verso quella coreutica. Quindi ho scelto il Liceo Artistico perché già al tempo ritenevo che la danza potesse rappresentare il termine comune a tutte le arti, e le ultime lezioni di latino mi avevano regalato il nome della mia futura compagnia di danza contemporanea ARSmovendi. Ho vissuto l’esperienza del liceo artistico con la gioia di chi persegue un obiettivo. Ho assorbito tutte le nozioni artistiche relazionandole all’arte del movimento e “fisicizzarle” mi consentiva di sentirle con profondità. Scoprii una nuova interpretazione dello studio scolastico.

I professori erano degli artisti e finalmente avevo di fronte a me dei reali interlocutori che non ritenevano la danza solo una perdita di tempo che mi teneva lontano dai libri: ricordo con gran piacere i confronti con la professoressa Cicala di Modellato, con Mazzacurati d’Architettura, la professoressa Graziosi di Italiano. La professoressa Cicala mi chiese di creare un bassorilievo da porre all’ingresso di un teatro ideale come primo lavoro ed io creai un bassorilievo per un teatro dove si rappresentava solo ed esclusivamente uno spettacolo di danza con la musica dal vivo dei Pink Floyd. Il Liceo Artistico era “diverso”, gli insegnanti non avevano distacco: insegnare l’arte significa entrare in contatto umanamente e loro credevano nel mio progetto, lo alimentavano e mi fortificavano.

Ritenevo, ritengo, che per sentire in modo intenso un’opera d’arte sia necessario essere padroni della tecnica usata, saper riconoscere la struttura e poi fruire l’opera dimenticando tutte le nozioni. Sperimentavo la danza riproducendo forme e ritmi con la matita, con la china, con gli acquarelli, con la creta. Non sono da sottovalutare le lezioni di anatomia utilissime per lo studio della biomeccanica. E poi sul banco c’era sempre un foglio bianco da riempire: questa era la prova più difficile che ho passato con naturalezza, al Liceo Artistico non è concesso non essere creativi. Ho avuta la possibilità di studiare la Storia dell’Arte con grande impegno riconoscendo negli autori l’identità psicologica all’interno del contesto storico e questo mi è servito per trasporre la loro esperienza sul mio vissuto, andare così a fondo mi ha concesso di ripulire il rapporto odio-amore che avevo con i musei. Difatti direi che le mie radici prima di affondare, sprofondavano nell’Arte: i miei genitori mi hanno portato in grandi musei già da piccolissimo e mi ricordo che ne uscivo con forti mal di testa, sicuramente per i troppi input che ricevevo, ma ogni volta che uscivo sentivo che qualcosa in me era cambiato, vivevo la sensazione di apertura mentale verso nuove idee concepibili.

A tredici anni hai cominciato a studiare danza jazz. Mi vuoi raccontare questo tuo percorso?

La danza mi ha sempre affascinato. A quattro anni, quando i miei genitori invitavano degli amici per cena, io ad un certo punto della serata improvvisavo degli spettacoli scegliendo dei dischi di musica classica di mia madre e nudo cominciavo a muovermi ispirato. Da lì il mio interesse per la danza è passato attraverso diversi stadi. Alla fine delle elementari e durante i tre anni delle medie sono iniziate le feste con i compagni di classe: formavamo dei gruppetti e ci applicavamo seriamente nel ricercare il nuovo ritmo, il nuovo passo, ballare a queste feste era veramente gratificante. Un momento sociale pulito, spensierato e di aggregazione. Il mio interesse si è arricchito in quegli anni del desiderio di avere un bel fisico e soprattutto essere agile. Accompagnato da mia sorella, più vecchia di quattro anni, mi sono convinto a cercare la giusta scuola di danza. La selezione è stata lunga e la mia scelta è caduta su una palestra di borgata, dove si “sputava il sangue” e dove anche gli specchi sudavano. Completamente fuori dal mio contesto sociale, decisamente borghese, in quel gruppo, in quella sala, scoprivo una parte di me più vera, istintiva, dove riuscivo ad esprimere liberamente me stesso dimenticando le sovrastrutture sociali che un quartiere come quello della Balduina ti imponeva tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.

Il mio primo insegnante di danza era un ragazzo che fino a venti anni aveva fatto, per tradizione familiare, il muratore, ed i suoi denti finti raccontavano le guerriglie urbane tra le bande di Primavalle. Un ragazzo che a vent’anni ha deciso di cambiare la sua vita sposando la danza e con la stessa grinta ed energia di un tempo ha ottenuto immediatamente dei risultati, non come conseguenza dell’educazione tecnica della danza, ma per l’istinto, e per l’animo animalesco che lo spingevano ad esprimersi con la danza. Era questo che volevo da un insegnante: che svegliasse in me quell’istinto. Gilberto attraverso la danza Jazz mi ha fatto questo grande dono, un regalo che conservo ancora lucido e che è la motivazione prima ad andare avanti. Anche se, stilisticamente ed intellettualmente parlando, mi sono allontanato da quel discorso, riportando il mio istinto della danza alle mie origini fatte di quel salotto con cristalli e tappeti dove si parlava di questo o di quell’altro direttore d’orchestra, la natura, lo stimolo che trovo in me stesso è un lume acceso da Gilberto Nati. Con lui ho studiato per i primi sette anni la danza Jazz ed il Funky, ma sentivo che avevo una natura diversa e nel 1990 mi sono ritrovato a Cannes da Rosella Hightower dove la mia formazione si è arricchita anche di altri stili: tra questi la danza contemporanea.

Vuoi lasciarmi una definizione di danza jazz?

La danza Jazz trova le sue origini nelle danze tribali africane e racconta la passione e le emozioni dell’uomo con un linguaggio contratto, nervoso, scritto sugli accenti, sul ritmo della musica, quindi molto vicino ad una forma primitiva di espressione. È una danza elegante che sa essere tanto sinuosa quanto potente ed esplosiva.

Parliamo ora della tua attività di coreografo. Abbiamo detto che ti sei formato presso l'Istituto Internazionale di Danza Rosella Hightower di Cannes, ma anche presso il Teatro del Movimento di Jacques Lecoq di Parigi, per poi entrare far parte del LEM (Laboratoire d'Etude du Mouvement). So che ami definirti un "mover" più che un coreografo. Perché?

Cannes e Parigi sono state due tappe molto importanti per la mia identità artistica.

A Cannes ho incontrato Edward Cook, al tempo coreografo della giovane compagnia della quale facevo parte. Cook mi ha trasmesso degli insegnamenti che legano il valore della vita a quello dell’arte: mi ha insegnato ad essere me stesso nella danza, a non voler ricercare il senso estetico fine a se stesso, mi ha completamente purificato dal gesto legato ad una particolare tecnica, ad un cliché. Mi ha spronato a cercare dentro di me il mio movimento, e questo suo stimolo dà vita ancora oggi alla mia ricerca, ricerca di una dinamica che cambia   non potrebbe essere diversamente   con il cambiare della mia persona, della mia crescita, delle mie esperienze e con il cambiare delle persone che mi circondano. Sono stato poi a Parigi per coronare il mio percorso: avevo sentito parlare del Teatro del Movimento da Luisa Mele, una collega di mia madre, psicoterapeuta. Avevo bisogno di conferme. Jacques Lecoq parlava la mia stessa lingua, aveva capito come decodificare un messaggio artistico, un’emozione per tradurla in movimento. A lui serviva per indossare la maschera, quindi dover fare a meno della mimica facciale e trasporre sul corpo l’espressività. Sia la scuola sia il L.E.M. mi sono stati molto utili per arricchire questi concetti e per apprezzare il rigore richiesto da Lecoq nel trattare il teatro, il movimento, l’arte. Nel L.E.M. ho incontrato professionisti molto più grandi di me e mi sentivo proiettato in qualcosa di molto serio: era finito il tempo della “danza-gioco”; iniziavo ad intellettualizzarla, ma senza perdere il brio del gioco.

Per arricchire il mio vocabolario ho studiato anche Ginnastica Artistica, Yoga, Kung Fu d’Okinawa, Tai Chi, Aikido, Aiki Tai So e tutte queste discipline ora fanno parte attivamente del mio linguaggio coreografico. Spesso alcuni colleghi criticano i miei spettacoli dicendo che quella non è danza ed io lo so: è movimento. Per questo tolgo l’imbarazzo e preferisco definirmi "mover". In realtà dentro di me ho un concetto di danza che si sta avvicinando sempre più rapidamente al mio modo di interpretarla: come nella musica il ritmo, articolandosi, si trasforma in armonia, l’estetica delle forme avvicinandosi alla naturalezza dell’animo diviene danza.

Il 1999 è l'anno che segna la fondazione della tua compagnia di danza contemporanea: ARSmovendi. Quale definizione daresti della danza contemporanea?

Mi rifaccio ad uno degli insegnamenti di Jacques Lecoq: lui aveva creato il laboratorio di ricerca dello studio del movimento, unico contesto dove si poneva allo stesso livello degli altri, perché riconosceva il suo limite. Diceva che le dinamiche sono in continuo evolversi: esprimere con un movimento la forza cromatica del colore rosso oggi, in questo momento, non è la stessa cosa di tre anni fa e non lo sarà domani. Lasciamo perdere le definizioni scritte sui libri. Per me la danza contemporanea è un filtro che trasforma in dinamica fisica, in movimento, la realtà che ci circonda e che vive dentro di noi. Il giorno in cui mi renderò conto di essermi fossilizzato su un modo di ballare cambierò lavoro per correttezza e per rispetto alla danza.

Le produzioni ARSmovendi non vengono date solo in Italia: parliamo infatti di Messico, California e Slovacchia. Qual è l'importanza del confronto con le realtà di danza contemporanea extraitaliane?

Il confronto di queste realtà con l’Italia è molto triste. All’estero la danza contemporanea è cosa seria e per questo seguita e supportata. In Italia ci sono troppe realtà svilenti che allontanano il pubblico e quindi l’interesse politico ed economico. Il confronto tra l’est europeo e l’America è molto interessante. In Slovacchia si stanno aprendo alla danza contemporanea e lo fanno con lo stesso rispetto ed umiltà che riservano per la danza classica e le danze folkloriche. Negli States la danza contemporanea è argomento trattato nelle Università come materia di ricerca e questo dice tutto. Il Messico vive una danza contemporanea ancora di un tempo, è radicato in una tradizione che gli appartiene forte ed anche i temi sono affrontati con un pathos che non appartiene più alle dinamiche italiane, ma vogliono capire e hanno una gran voglia di arricchirsi, disponibilità, apertura, umiltà. Per mia fortuna i miei spettacoli sono stati apprezzati in tutti questi posti, ed il successo lo attribuisco al fatto che sono costruiti sulla struttura del significante, le emozioni vengono decodificate per essere tradotte in energia dinamica pura. Questo fa sì che basta essere umani per ricevere il mio messaggio e soprattutto che con la danza semplicemente racconto, non do mai delle affermazioni “universali”.

Andrea Cagnetti insegnante: allo IALS di Roma per le lezioni ministeriali e professionali di danza contemporanea, al Centro Danza ARSmovendi (che è anche residenza creativa e produttiva dell'omonima compagnia), al Liceo Coreutico di Satriano, presso il Centro Los Talleres a Città del Messico, presso il Centro Spector Dance a Monterey in California. Come si fa ad insegnare la danza contemporanea?

Per insegnare la danza contemporanea è necessario riabilitare i muscoli del corpo alle tre qualità che conferiscono il movimento: il tirare, lo spingere, il rilasciare. Soprattutto chi viene già da una diversa esperienza di danza ha la testa piena di nozioni, posizioni e passi, mentre per essere buoni ricercatori del movimento “vero” bisogna affidarsi a queste tre qualità e basta. Gli esercizi di riscaldamento devono essere semplici e ripetuti molte volte perché il cervello venga informato in modo chiaro: non sono necessarie, anzi sono inutili, lunghe sequenze coreografiche che passano da un braccio all’altro, dalla punta del piede alla testa e per una sola volta, in questo modo si affascina l’allievo che pensa di fare chissà che cosa, ma in realtà si manda in confusione il muscolo che riceve troppe informazioni tutte insieme e non sufficientemente ripetute perché possano essere esercizio fisico. Poi bisogna risvegliare i sensi del corpo degli allievi perché sono il primo strumento che viene utilizzato sia per ricevere il messaggio sia per tradurlo in movimento. La presenza scenica, l’espressività e l’energia della scena sono fondamenti che potrebbero fare a meno di uno studio tecnico se l’allievo avesse mantenuto la sua sensibilità. Poi si deve istruire l’allievo sulle regole teatrali di regia, dei tempi, e della drammaturgia della scena. Tutte queste nozioni si possono impartire in modo distinto oppure in una unica soluzione più istintiva: facendo ballare!

La danza è arte effimera per eccellenza. Tu che ti occupi di danza contemporanea e che trovi particolarmente fecondo lavorare con la multimedialità, come ti poni di fronte al concetto di effimero?

L’arte è effimera? Io scopro un lato romantico grazie allo studio scientifico dell’arte. Quando comincio ad avere un rapporto confidenziale con i danzatori svelo quest’aspetto della danza: il gesto che compio non dura un istante, è un fascio luminoso che viaggia e tutti i miei spettacoli sono ancora in viaggio nello spazio, nell’universo dove finalmente un giorno incontreranno il suo confine per spingerlo con grazia e prepotenza allo stesso tempo e così una nuova forma ed una nuova dimensione saranno condizionate dalla qualità dell’energia sviluppata da quel gesto. Ballare fa bene all’universo. Oppure: se è vero che giunti al capolinea della nostra corsa avremo l’occasione di meditare sulla vita appena trascorsa, ci renderemo conto che non saranno solo le cose concrete, la realtà fisica ad aver colmato il nostro bagaglio, ma anche le speranze, i sogni, i semplici pensieri, come si può dire allora che l’emozione dipinta nell’animo di un uomo con la tinta più forte sia delebile?

Restiamo nel campo della multimedialità e della sinergia tra le arti. Da che cosa cominci per una tua creazione? Quali sono le forze in gioco che ritieni indispensabili per ben riuscire a veicolare i tuoi messaggi?

Quando inizio una creazione in genere sono ispirato dalla musica, altrimenti assemblo i vari componenti in modo coerente intorno al tema. Quindi, se il lavoro nasce da una mia esigenza, cerco una musica che mi tocca l’animo in modo particolare e da quel punto sensibile lascio che germogli l’opera e che da sola richieda gli elementi compositivi: lo stile del movimento, il numero e le qualità degli interpreti, le scenografie, il carattere generale dello spettacolo, le varie collaborazioni con le altre forme d’arte.

Nei miei lavori cerco la collaborazione con diversi artisti per conferire al prodotto una certa rotondità, diverse cromie; lascio che la scena contenga il mio sentimento, ma anche quello degli interpreti e degli altri artisti: scenografi, drammaturghi, attori, pittori, poeti… In questo modo sento che lo spettacolo assume un valore completo e capace di colmare la sfera emotiva del pubblico. Lo spettatore paga un biglietto per fermare il tempo, per uscire dalla routine e concedersi un momento di svago; per questo motivo ritengo che gli spettacoli debbano essere costruiti in modo semplice e riuscirvi è molto complicato: di un tema, di un’emozione, si devono individuare i caratteri fondamentali per tradurli in dinamica oppure esprimerli attraverso il carattere della scena, ricreare l’atmosfera. Ogni momento deve essere coerente con il sapore che si vuole trasmettere e giusto: che sia giustificato dalla scena precedente e da quella successiva, perché non caschi la scena, perché il mondo immaginario che si vuole creare non svanisca per una lieve incomprensione; tutto deve essere legato da un filo logico continuo che si snodi in modo da modulare i tempi generali dello spettacolo, in modo tale che questo non risulti noioso. I miei spettacoli vivono su due livelli: il primo è pieno di vita, nel senso che genera emozioni e per questo è fruibile da tutti. Il secondo contiene una linea più sottile alla quale non tutti riescono ad arrivare ma che c’è e che in ogni caso lascia una traccia nell’animo di chi si lascia andare ad una visione “libera” spontanea, istintiva.

Penso che la vita sia fatta di una serie di intrecci di vari elementi: l’amore, la famiglia, il lavoro, la società, il mondo interiore, la cultura e l’istinto… così amo completare e affiancare alla mia danza altre forme d’arte che si leghino tra di loro: la musica, la poesia, la pittura, la video-arte, la scultura, l’architettura. Ogni linguaggio artistico contiene due elementi comuni: il ritmo e la forma. A partire da queste componente tutto è riconducibile e assimilabile al movimento.

La danza contemporanea ha spesso lavorato con "corpi atipici": dal corpo anziano di "From Here to Maturity Dance Company" al corpo leso di David Toole o della "CandoCo Dance Company". Nella tua danza useresti corpi atipici?

Come ho scritto prima, gli interpreti sono scelti sulla base delle esigenze drammaturgiche. L’idea di scegliere un corpo “atipico” è sicuramente uno stimolo per un artist:, vuol dire proiettare la propria esperienza su di un'identità fisica e psicologica completamente distante dalla proprio. In passato ho avuto il piacere di lavorare con una danzatrice che aveva perso una gamba per un incidente stradale e che voleva ritrovare la sua agilità per passare l’audizione della “CandoCo Dance Company”. In quel periodo ho vissuto su di me la sua esperienza e non finirò mai di ringraziarla. Abbiamo ottenuto grandi risultati e mi auguro che in qualche modo lei abbia potuto coronare il suo sogno: esprimersi con il movimento del corpo.

Come ultima domanda, vorrei entrare nel vivo della tua creazione artistica, concedendomi dell'autoreferenzialità. Ho avuto il piacere di lavorare con te durante lo stage di danza internazionale Danser ensemble – Danzare insieme svoltosi dal 20 al 27 luglio 2008 a Borgo Cardigliano di Specchia (Lecce) dove tu hai tenuto una masterclass. Per lo spettacolo finale hai creato sei brevi coreografie. Le prime tre sono state ispirate ad altrettanti quadri dell'architetto salentino Antonio Capestro e danzate su pezzi di J. S. Bach (al violoncello Anna Maria Mastromatteo, del Conservatorio di Roma). Le altre tre, invece, sono state strutturate e danzate sulla recitazione di tre mie poesie che avevo dedicato ai quadri di Capestro. Come sono nate le coreografie?

Le coreografie su Bach e Capestro sono nate dallo studio della struttura delle Suite in modo da riconoscerne il ritmo, la composizione e la forma dell’armonia. Questi elementi, per studio, sono stati ricercati dagli allievi nei dipinti di Antonio perché la composizione dei dipinti suggerisse ai ragazzi la struttura della macro coreografia: dai movimenti dei corpi sullo spazio scenico ed il loro relazionarsi. Queste coreografie erano frutto di un'improvvisazione. Le coreografie realizzate sulle tue poesie sono opera mia. Sono state l’occasione per mostrare ai ragazzi come la musicalità del significante e la metrica possano contenere il significato, come la danza possa essere espressa dal corpo o dall’insieme dei corpi.