Intervista a Vladimir Derevianko ‑ prima
parte
11 agosto 2007
Dall'1 settembre 2007 Vladimir Derevianko
assumerà la direzione artistica del MaggioDanza, la
compagnia di ballo del Maggio Musicale fiorentino.
Il grande ballerino russo mi ha concesso un'intervista
che presento in due parti.
La prima parte prende le mosse
dal suo nuovo impegno con il MaggioDanza e, passando
attraverso la sua biografia e la sua formazione artistica, tocca diversi temi:
la situazione della danza oggi, la figura di Rudolf Nureyev, il concetto di
contaminazione fra le arti, l'importanza della notazione coreografica.
Il "piatto forte" è rappresentato dalla seconda parte dell'intervista, nella quale Derevianko racconta il proprio rapporto con Galina Ulanova, Vladimir Vasiliev, Ekaterina Maximova e con alcune étoile
italiane, per poi entrare nella profondità di quei concetti che
costituiscono la sua Weltanschauung artistica.
Prima parte ‑
Seconda parte
MaggioDanza:
il Corpo di Ballo del Maggio Musicale Fiorentino, istituito nel 1967, che ha
visto alternarsi responsabili artistici e direttori quali Evgheni
Polyakov, Karole Armitage, Davide Bombana,
Elisabetta Terabust, Florence
Clerc e (dall'1 settembre
2003 al 31 agosto 2007) Giorgio Mancini. Dall'1 settembre 2007 il testimone
passerà a Lei che, per tre anni, assumerà la direzione della Compagnia. Come
neodirettore immagino abbia individuato la necessità
di una rivitalizzazione della Compagnia e del
repertorio. Quanta strada pensa ci sia da percorrere? E che tipo di strada:
piana o accidentata? E, se accidentata, quali sono i maggiori ostacoli che si
profilano all'orizzonte?
Quello che si riesce a fare dipende da quanto viene permesso di fare…
Vale a dire: budget oblige.
Vladimir
Derevianko.
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Foto Alessio Buccafusca
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Lei ha centrato al 1000! Non mi attendo che la
Sovrintendenza faccia la rivoluzione per me. Non mi attendo un miracolo: non
conosco ancora il budget che avrò a disposizione, ma non credo sarà da paura.
Per contro so di poter dare tanto: ho creato una compagnia a Dresda e nulla mi
sgomenta. Le faccio l'esempio di un professore che esegue un trapianto di
fegato e ha successo nell'80% dei casi: non c'è una ricetta che decreti il
successo, però le cose, lui, le sa fare.
Ci sono comunque alcuni punti imprescindibili, a partire dal numero minimo di produzioni da rappresentare
su un palcoscenico grande. Il Teatro San Carlo di Napoli ha una sola produzione
con cinque spettacoli che sono rappresentati sul palco di quel teatro, mentre
il resto viene dato in teatri minori. Questo significa
che la Compagnia ha dimenticato di esercitare la professione. È come se ad un giornalista si imponesse di scrivere solo cinque
articoli all'anno e tutti dello stesso tipo: si scorda dove si trova la
tastiera della macchina per scrivere! Qualsiasi tipo di professione ha bisogno
di un costante esercizio. Certo, lo strumento più difficile è il corpo umano,
ma ‑ a parte gli appena citati giornalisti – possiamo
agevolmente chiamare in causa gli scultori o i musicisti: lo strumento, nel
caso di questi ultimi, sarà le mani per il pianista, le labbra (oltre che alle
mani, s'intende) per chi suona i fiati…
A ruota segue un altro punto imprescindibile: il numero di
produzioni serve a costruire il repertorio su cui vivere. È solo in questo modo
che i giovani possono crescere.
Nel panorama italiano – difficile per la danza – sono in una
situazione favorevole la Scala e forse l'Opera di Roma. Le altre Compagnie
hanno problemi. Quella di Firenze non posso per ora dire di conoscerla in tutte
le sue sfaccettature, perché l'ho vista una sola volta, quindi a settembre
arriverò a Firenze e cercherò di avere un quadro chiaro. Sicuramente occorrerà
lavorare sodo se si vorrà puntare sulla qualità del repertorio. Giorgio Mancini
ha programmato la stagione 2007-2008 (un direttore
uscente deve garantire il cartellone della stagione successiva) e io rispetto tale programmazione. Probabilmente riusciremo
ad avere due o tre spettacoli in più. Perciò il primo anno è già fissato; per i
due che seguiranno garantirò nuove produzioni. I
risultati si vedono dopo un quinquennio, non dopo un triennio, però – come le
dissi – nulla mi fa paura perché conosco la mia capacità di dare. Dunque se il
budget non sarà esaltante punteremo sulla qualità del
lavoro: creare un repertorio – si sa – costa; scene e costumi costano (anche se
non come nell'opera). Il contemporaneo costa meno, ma una Bella addormentata
è una Bella addormentata!
A voler parlare della situazione della danza in Italia, non
trascurabile è poi la problematica legata all'età pensionabile.
Certo. Il problema è che oggigiorno non esistono
Compagnie senza aggiunti, mentre occorrerebbe avere un corpo di ballo stabile.
Ma chi va in pensione oggi non si trova nella stessa condizione di chi ci
andava ieri, perché ci va ad un'età dove non riesce a
ballare.
Al più è in grado di sostenere ruoli di mimo.
Esatto. Il direttore non può pretendere da tali persone i
miracoli, cioè che ballino ancora: sono eroi del tempo! Già a quarant'anni è
difficile ballare, benché alcuni fenomeni esistano…
Per riassumere, tre sono le cose fondamentali: riuscire a
rappresentare un congruo numero di spettacoli per poter
esercitare la professione; rappresentarli su un palcoscenico grande; creare un
repertorio. Se queste necessità vengono soddisfatte,
le diverse difficoltà si superano.
Lei è stato per tredici anni
direttore artistico e primo ballerino della Compagnia di Balletto della Sachsische Staatsoper Semperoper di Dresda (con Lei divenuta Ballett
Dresden): una Compagnia considerata oggi una delle
più importanti in Europa, cosmopolita, con un repertorio amplissimo,
protagonista di numerose tournée e che ottiene sempre il tutto esaurito
nella sua città. (Tra l'altro, sia per sottolineare
l'importanza che con Lei ha raggiunto il Ballett Dresden nel panorama ballettistico sia come tributo alla
Sua carriera, nel 2004 Lei ha ricevuto il Premio Positano "Léonide Massine" per l'Arte
della Danza; premio che aveva peraltro già ricevuto nel 1983 come giovane
stella). Dopo i tredici anni di Dresda, si accinge a lavorare alla direzione di
una Compagnia italiana. Abbiamo ricordato che la danza in Italia non versa in
ottime condizioni: Le chiedo perciò quanta della Sua preziosissima esperienza
pensa che riuscirà a "riversare" in una Compagnia italiana.
In Germania c'è stata un'importante tradizione. Pensiamo
anche solo al nome di Pina Bausch e al Tanz Teather. In Italia ci sono giovani non famosi ma bravi, che
hanno le loro compagnucce le quali si trovano però a
combattere per ottenere aiuti dagli Enti lirici.
Ritengo che occorrano esperimenti che affilino la tecnica e
che raggiungano la capacità emozionale del pubblico attraverso la proposta di
temi adatti, condivisibili.
Purtroppo i coreografi contemporanei spesso presentano l'étude, lo schizzo, il workshop, l'esperimento
in vitro: questa non è che una lunga catena per
arrivare a qualcosa; e un esperimento, pur riuscito bene, rimane un esperimento
che, non solo non coglie l'attenzione del pubblico, ma – il che è più grave –
la allontana. Oggi tutti fanno coreografia, tuttavia la coreografia
seria non è la norma. Avere una buona creatività non significa infatti essere validi coreografi, se non si è mai usciti
dalla propria regione, privandosi quindi della possibilità di ampliare gli
orizzonti.
A questo proposito mi torna alla mente una barzelletta russa
che reputo sintomatica e singolarmente adatta al nostro tema. Un čukča porta ad un
editore un proprio manoscritto. L'editore, dopo aver letto
l'opera, convoca l'autore e gli domanda: "Ma lei ha letto Tolstoj, Balzac,
Cervantes?" L'altro, pur stupito, spiega pazientemente: "Čukča essere scrittore, non lettore."
Ah, sì! È davvero calzante! E particolarmente gustosa!
Visto che ho fatto una virtuale
incursione nella Čukotka, desidererei rimanere
in terra russa. Lei è nato ad Omsk e ha studiato
all'Istituto coreografico di Novosibirsk, prima di andare all'Istituto
coreografico di Mosca e quindi al Boloj. Quanto è
stata importante la Siberia nella Sua storia di uomo e di artista?
Alla Siberia, un luogo così profondo e distante da Mosca,
sono collegato dai miei primi passi mossi nella musica e nella danza.
Derevianko, comunque, è nome
d'origine ucraina, non siberiana.
Sì. Nel 1800, in un periodo di grande fame prerivoluzionaria, dall'Ucraina sono partite, per fondare
un villaggio, alcune famiglie: quelle di due fratelli Derevianko
e altre diciotto; in totale, dunque, venti famiglie. Il villaggio l'hanno fondato a 1400 chilometri da Mosca: Novokiyevka (Nuova Kiev). Lì hanno cominciato a coltivare
la terra, poi hanno acquistato cavalli, hanno intrapreso la vendita del grano e
sono diventati benestanti. Non era, tuttavia, intelligentsija.
Era imprenditoria agricola.
Vladimir Derevianko
in L'Uccello di Fuoco di Uwe Scholz, Teatro Mercadante di
Napoli.
© Foto
Alessio Buccafusca
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Esatto. Mia mamma, invece, ha
studiato in un istituto farmacologico, poi è andata al fronte, è tornata nel
1945 e ha terminato gli studi anche in un secondo istituto (istituto medico) ed
è diventata primario in chirurgia. Successivamente è
stata spedita a Vladivostok, Khabarovsk, Nikolaievsk-na-Amoure. Io sono nato ad
Omsk, ma quando avevo un anno ci siamo spostati nella taigà di Ussuri. Ad Omsk ho vissuto di
nuovo dai sette ai dieci anni e ho intrapreso lo studio del violino e della
danza. E la mamma ha chiesto il prepensionamento veloce per potermi seguire. Dunque, frequentavo le lezioni di danza, quelle di violino e
la scuola professionale. La maestra di danza voleva che io mi dedicassi
completamente alla danza, mentre il maestro di violino al violino. Ci trovammo
perciò di fronte alla scelta: scuola coreografica o conservatorio? La mia
insegnante di danza riteneva di avere fra le mani un materiale straordinario e
quindi individuò due sole accademie adatte a forgiare la mia personalità
artistica: Mosca e Pietroburgo. Inviammo le domande sia alla scuola
coreografica sia al conservatorio. La scuola coreografica rispose per prima e
così intrapresi la carriera di ballerino. Devo dire che questa è una cosa che
mi segue. Infatti, quando fu la volta di attendere la risposta dalle accademie
di Mosca e di Pietroburgo, la situazione si risolse con la stessa modalità: rispose prima Mosca e io partii per Mosca. Vede?
Non ho avuto pazienza d'aspettare e il destino s'è fatto.
A Mosca c'è un'enorme concentrazione di gente bravissima: sono,
però, tutti immigrati, poiché i più dotati venivano
spediti (o, in tempi recenti, ci arrivavano da soli) a Mosca o a Pietroburgo. Visto che siamo in Italia potrei usare la similitudine del
calcio, sport che è nel sangue degli italiani: i migliori sono inviati in altre
squadre.
C'è un costume che mi pare estremamente
significativo e non riprodotto (o non riproducibile, se vuole) in Italia. Noi
del Boloj conoscevamo tutti e tutti conoscevano noi: dagli artisti del teatro di prosa ai
musicisti. A Mosca si faceva salotto a casa di
qualcuno con il "čaj", il tè. In
Italia un'amicizia con – ad esempio – il direttore d'orchestra è impensabile;
oggigiorno, quando c'è grasso che cola, due ballerini hanno scambi di vedute
andando a pranzo insieme: nulla più.
Per ricreare qui ed ora un poco di
atmosfera intensamente russa, mi permetto di chiederLe di soddisfare una mia
curiosità. Qual è il Suo patronimico (che, dopo il nome, e usato con esso in
funzione di vocativo, in russo equivale al nostro dare del lei)?
Mi chiamo Vladimir Il'ič. A
proposito di dare del lei, il mio maestro, Vladimir Leonidovič Nikonov, a volte scherzava rivolgendosi a me con un "E
allora, Vladimir Il'ič?" È curioso come a
tutti i compositori russi ci si riferisca con nome e cognome (Sergej Rachmaninov, Rodion Ŝcedrin…): solo Čajkovskij
si usa chiamarlo Pëtr Il'ič
Čajkovskij.
Tornando alle Sue radici, mi spiegava che esiste un
collegamento imprescindibile con i primi passi che Lei ha mosso nel mondo della
musica e della danza.
Esatto. La mia cultura rimarrà per sempre il mio patrimonio.
Devo dire che, però, non ho nostalgia. La nostalgia c'è quando uno non sta
bene, invece nel momento in cui si realizza come essere umano da tutti i punti
di vista (privati e professionali), la nostalgia non trova posto. Ho attraversato
un lungo periodo nel quale non potevo vedere né gli amici né mia madre e
allora, sì, stavo malissimo.
Esistono casi in cui le radici vengono
recise. Un nome su tutti: Rudolf Nureyev che defezionò nel 1961 (seconda fu –
due anni dopo – Natalia Makarova). Quali lacerazioni
comporta la defezione? Sono lacerazioni guaribili?
La reazione è individuale. Non bisogna però dimenticare che
innanzitutto è un rischio poiché si tratta di un salto nel buio. Nureyev si è
trovato in Europa, solo, alla ricerca di una compagnia. L'Opéra politicamente
non ha potuto prenderlo, quindi lui era uno in cerca di lavoro, uno che – al
massimo – faceva qualche lavoro saltuario. Occorre perciò creare qualcosa,
perché si è primi nel buio. Maja Plisetskaja
diceva: "Se sei secondo o terzo non interessa a
nessuno." Nureyev è stato il primo. Anche quella di Natalia Makarova, ovviamente, è stata una scelta coraggiosa. Per
Nureyev parlerei di gran coraggio, estrema intelligenza e un po' di fortuna.
Egli è stato una persona capace di bilanciare i rischi con ciò che definirei
sana incoscienza. Ha, cioè, considerato il rischio e ha calcolato di che cosa
si sarebbe privato. È un mito: un mito che rimarrà
nell'enciclopedia per sempre. Sì: lui è immortale.
Se dovesse sintetizzare Nureyev in pochi aggettivi, quali userebbe?
Grande e coraggioso. Io non l'ho conosciuto molto, comunque
– avendo lavorato con Noëlla Pontois
– il periodo Nureyev all'Opéra di Parigi l'ho vissuto. Egli era lungimirante:
qualsiasi cosa facesse, alla fine risultava vincitore.
Maja Plisetskaja usava l'espressione "winners take all", chi vince
prende tutto. Egli ha affrontato ogni tipo di danza e ha lavorato con i più
importanti tra i coreografi: conosceva la danza da dentro e da fuori.
Nureyev non aveva pazienza, disprezzava la mediocrità,
odiava l'intolleranza verso la propria persona e i propri lavori e sapeva
essere cattivo. Non a caso lo chiamavano
"wild", selvaggio: una definizione perfettamente calzante perché lui
diventava una bestia feroce. Si assisteva a scene turche! Rudolf era violento e
volavano sedie, c'erano thermos sbattuti in faccia agli assistenti. Era una
persona non estremamente colta; sì, perché
l'intelligenza non ha nulla a che spartire con la cultura. Eppure le
coreografie dei classici, all'Opéra, sono quelle di Nureyev e non quelle di Petipa. Inoltre la generazione dei giovani è stata creata
da Nureyev. Il vero Roi Soleil della danza è lui! Io sono devoto a Vasiliev: è per me il più grande, tuttavia Nureyev è un
fenomeno a parte. Era vincitore in qualsiasi situazione, l'ho detto. Però era solo come un cane. Non aveva rapporti d'amore, ma
soltanto passioni che andavano e venivano. Forse alla fine doveva rimanere
solo, data la sua profonda intolleranza verso gli altri. I pochissimi amici che
aveva erano i sopravvissuti alla tempesta.
Con l'apparizione di Nureyev si cominciò a parlare di danza
maschile.
Vorrei soffermarmi sulla danza maschile e fare riferimento al
"Grand Prix" da Lei vinto nel 1978,
a proposito del quale è stato detto che si tratta di un premio speciale
"dato al giovanissimo Derevianko proprio per
sottolineare le sue straordinarie qualità fisiche e la sua unica personalità,
che involontariamente ha aperto una nuova strada alla danza maschile." Dunque per Lei la danza classica è donna o è uomo? E la
danza contemporanea?
Vladimir Derevianko in L'Uccello di
fuoco di Uwe Scholtz,
Teatro Mercadante di Napoli.
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Foto Alessio Buccafusca
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Le diverse forme d'arte, e tra esse la danza, dipendono
dalle personalità che le influenzano. La rivoluzione la fa
l'individuo, uomo o donna che sia: Martha Graham era donna, mentre Rudolf
Nureyev uomo.
La danza non può avvalersi della parola, perciò devi saperti
esprimere tenendo conto di questa mancanza: se non hai cultura, intelligenza,
qualità forti, ti perdi. Maja Plisetskaja diceva che
le persone brave sono brave un po' in tutto. Esistono,
ad esempio, bravi ballerini che sono anche bravi
scenografi. Certo, attualmente siamo specializzati in
campi ristretti. C'è il chirurgo del ginocchio, quello della colonna
vertebrale… Saper fare tutto è difficile, quindi occorre vedere che cosa manca
alla propria personalità per cercare di sopperire intelligentemente alle
mancanze.
La danza contemporanea è unisex: la donna può diventare uomo
o viceversa o addirittura androgino. La danza contemporanea (cioè la danza
formatasi e sviluppatasi a partire dall'anteguerra) è
iniziata in Germania con Mary Wigman, Kurt Jooss e Gret Palucca
e, in America, con Isadora Duncan e Martha Graham. Dipendendo perciò dalle
differenti personalità, occorre dire: "questa è
danza contemporanea di Tizio", "questa è danza contemporanea di
Caio". Gli anni Sessanta hanno visto l'inizio di
un forte interesse per la danza contemporanea e negli anni Settanta hanno
cominciato a formarsi diverse compagnie. In Francia il solo classico rimasto è
quello dell'Opéra! Tutto il resto è contemporaneo. Forse se ne sono accorti
tardi. Tre o quattro anni fa incontrai Brigitte Lefevre,
che promosse la danza contemporanea grazie al suo ruolo di "Inspecteur principal de la Danse" presso la "Direction de la Musique et de la Danse" al Ministero della Cultura. Be', ella mi disse:
"La seule compagnie classique est maintenant l'Opéra!" In
Italia il problema è più serio perché qui si abbandonano le proprie tradizioni.
Basti pensare a Cecchetti: i suoi ultimi allievi sono
morti, il suo metodo non è stato scritto e quindi è irrimediabilmente perduto.
Se qualcuno mi dice che usa il metodo Cecchetti, non
ci credo! Il metodo Vaganova, sì, che è stato
scritto. Anche la tecnica Bournonville è rimasta
attraverso i suoi balletti, più o meno cambiati. I
lavori di Petipa che si rappresentano al Kirov non sono esattamente quelli originali. Così come i
cantari si sono tramandati di bocca in bocca, i balletti si tramandano di passo
in passo e si modificano a seconda di chi se li
ricorda e del modo in cui se li ricorda. La possibilità dei film e dei video,
infatti, è nata da poco. È inesorabile, il tempo! Come ogni opera vivente, il
balletto (che non giace perché non viene scritto)
cambia da interprete ad interprete. Ormai la danza è globalizzata: c'è il
metodo americano, il metodo russo, il metodo di
nessuno…
Effettivamente viviamo in un'era di globalizzazione da una
parte e di contaminazione fra le diverse forme d'arte dall'altra. La danza,
quale rapporto intrattiene con la contaminazione, con il connubio?
Il concetto di connubio è interessante, ma per funzionare
deve essere un connubio molto serio. Se invece mi muovo in questa direzione solo
per poter dire "ho fatto", non va bene.
Il balletto è un'arte sintetica nel senso che richiede design,
costumi, luci, scenografia, regia, coreografia. Quando una produzione è
realizzata e si tirano le somme, il risultato dà contezza del modo in cui si è
lavorato e dello scopo che si è voluto perseguire: se la produzione non è di
spessore, il pubblico non tornerà. Prendiamo il cinema, che è l'industria più
grande: quale strategia adotta per mantenersi, vendere gli spettacoli, fare
incassi? Semplicemente quella di un'offerta enorme, sostenuta dal meglio del
meglio: attori da svenimento in quanto a bravura e a bellezza, per non parlare
degli effetti speciali… Enorme a tal punto che lo spettatore si trova
addirittura spiazzato quando deve scegliere quale film andare a vedere.
Una puntualizzazione: è giusto che si prendano le distanze
dal genere entertainment. Questo, però, non significa non cogliere in
tale genere un mezzo opportuno per veicolare messaggi,
per avvicinarsi – cioè – al pubblico e formarlo. Le spedizioni punitive,
infatti, sono inammissibili. La gente va prima avvicinata e poi educata. Se uno
rifiuta di venire educato, non puoi prenderlo subito a
forza ed imporgli: "Adesso tu impari!" Puoi, però, avvicinarlo e
formarlo, forgiarlo. Il pubblico va "creato"…
… ammannendogli la qualità.
Vladimir
Derevianko in L'Uccello di fuoco di Uwe Scholtz, Teatro Mercadante di Napoli.
© Foto
Alessio Buccafusca
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Esatto: grande musica, bellissime scenografie… Va cioè messo
nelle condizioni di provare emozione. Tornando alla danza, l'emozione deve
essere suscitata naturalmente a partire dal movimento
e dai corpi: quando si è raggiunto un tale traguardo, si può mirare a far
comprendere le idee che questi corpi esprimono. Si è raggiunto allora
l'obiettivo che la comunicazione artistica si prefigge; e non si corre il
rischio di perdere il pubblico.
Prima Lei faceva cenno al fatto che i balletti non sono
scritti. Ho qui davanti a me un volumetto sulla teoria della composizione
coreografica di Léonide Massine,
che prende le mosse dalla conferenza-dimostrazione tenuta da Massine in primis all'Opéra nel 1972 e successivamente all'Institute of Choreology di Londra e alla Tanzakademie
di Vienna. Qual è il senso della notazione coreografica, tenendo anche a mente
che esiste un rapporto di complementarietà tra balletto "notato" e balletto filmato?
Massine… Di suo ho ballato Pulcinella
e Gaîté parisienne.
Esistono più metodi di notazione. Quello maggiormente
popolare è rappresentato dalla "Benesh notation": è quasi uno "scrivere" i
movimenti sulle note della musica. Scrivere la danza è complesso. Non esiste
danza senza musica o ritmo, oggi, quindi la danza ha un tipo di scrittura che
si sovrappone alla scrittura musicale.
È indicativo che Balanchine non
operasse distinguo di sorta tra due necessità: quella del musicista e
quella del coreografo. Entrambi, infatti, devono garantire a chiunque lo voglia, la possibilità di una corretta esecuzione delle
proprie creazioni. Ma mentre il musicista - desidero aggiungere - ha fra le
mani un mezzo idoneo come la notazione musicale (escludo dalla mia
affermazione, naturalmente, la scrittura delle composizioni dell'avanguardia
degli anni Settanta che ci ha proposto una serie di esperimenti sul pianoforte
preparato) il coreografo il suo mezzo deve in sostanza
inventarselo.
A proposito della Sua affermazione che non esiste danza senza
musica, alcuni – al contrario – pensano che si possa fare danza anche in
assenza di musica.
La forma iniziale di danza era tribale (non individuale) ed
è nata sul ritmo e – prima che esistesse il suono – si è partiti dal rumore. Quindi, no, non può esistere la danza senza la musica.
Poco fa abbiamo affermato che è necessario – a maggior ragione
in assenza di budget corposi – puntare sulla qualità del repertorio. Lei si è occupato di ricoreografare (mi
passi per ora il termine, visto che Le chiedo anche di parlare di questo Suo
operato) alcuni classici. In che rapporto stanno la qualità e la revisione dei grandi balletti narrativi?
Revisionare lo intendo nel senso di ridinamizzazione,
rivitalizzazione, rimodernizzazione: tutto ciò
significa puntare sulla qualità di oggi.
Premetto che non mi ritengo un coreografo perché non creo
nulla di nuovo: ho dato una mia lettura del balletto classico. Ho tolto quello
che è stato superato dal tempo. La mia è stata una revisione
dal punto di vista musicale, drammaturgico e scenografico. Con Giselle
ho usato il bisturi del chirurgo estetico: ho dinamizzato i tempi drammaturgici
e ho operato alcuni tagli pantomimici che – per vero – non si avvertono. Non è
rappresentando un'opera così com'è stata creata, che se ne riproduce lo
spirito; viceversa, è lo spirito che riproduce l'opera
e su tale spirito bisogna lavorare per eliminare le ridondanze ormai non più
attuali, non più accettabili e ricompattare in tal modo l'opera stessa.
La revisione musicale dei balletti
è stata condotta all'insegna di un grande rispetto dello spartito (ho studiato
violino: come potrei maltrattare il testo su cui mi trovo ad intervenire?) e
per questo mi sono avvalso della collaborazione di compositori che mi hanno
aiutato ad armonizzare i pezzi che venivano prima e dopo un taglio (spesso,
infatti, si trattava di due tonalità differenti). Un tipo di revisione
del genere è indispensabile: fare – oggi – per venti minuti la stessa cosa
diventa paranoia!
Ho portato l'esempio di Giselle ed
ora vi accodo quelli di Don Chisciotte e di Chopiniana.
In Don Chisciotte, drammaturgicamente parlando, ho
cambiato molto. Le opere di Petipa sono deboli dal
punto di vista drammaturgico: non si può vivere per sempre di divertissement!
Occorre un'azione che fluisca. Con tutto il cinema che c'è, la gente è viziata.
Il cinema e la televisione sono una guida in termini di fonte che influenza i fruitori degli spettacoli. Si tratta di mezzi che orientano
il gusto, perciò se a teatro la gente si addormenta e al cinema no, qualcosa
che non va ci deve pur essere. Ecco perché l'astratto è cosa per pochi e nel teatro ha vita breve.
Vladimir
Derevianko in Il rosso e il nero di Uwe Scholtz.
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Foto Alessio Buccafusca
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Tornando al discorso sulla necessità di rimodernizzazione
dei classici e riferendoci soprattutto a Petipa, non
è un caso che al Boloj i suoi lavori si diano nella revisione di Grigorovič e
all'Opéra in quella di Nureyev.
Teniamo conto anche di un'altra questione. Bisogna puntare
sulla qualità, abbiamo detto prima. Bene. Non significa forse puntare sulla
qualità, l'adattare (nel senso di rimodernizzazione
così come spiegata sopra) un balletto alla compagnia che lo andrà a
rappresentare? A Dresda io non avevo una compagnia accademica (non c'era, cioè,
la scuola interna), ma una compagnia che ha raggiunto 60
elementi, provenienti da 30 paesi. È lampante che occorreva
amalgamare quelle differenti personalità, perché realizzare un Petipa, magari chiamando qualcuno dal Kirov
a rimontarlo, non sarebbe stata una scelta vincente. Se prendiamo il Boloj, certo, là tutti erano belli,
lunghi, con magnifici colli del piede; sembravano prodotti con lo stampino… Io,
invece, ho fatto sempre i conti con gli interpreti che avevo sul luogo, creando
perciò qualcosa che aveva il diritto di esistere. Ecco, dunque, il lavoro che
dovrebbe essere intrapreso con la Compagnia del MaggioDanza.
A questo punto mi corre l'obbligo di citare la dichiarazione
programmatica che ha fatto durante il Suo incontro con
i ballerini di MaggioDanza, in occasione del primo
dei tre spettacoli estivi a Villa Strozzi dedicati ai Ballets
Russes: "Metto la mia esperienza e la mia storia
di danzatore a vostra disposizione: spero di trovare e di offrirvi situazioni
stimolanti artisticamente. Vorrei aiutare il vostro lavoro, basato su tanti
sacrifici, nella consapevolezza di dover inventare molto, soprattutto quando le
risorse non sono infinite: faremo tanta arte, con i
mezzi dell'arte." Dopo quanto ha esaustivamente esposto,
la Sua dichiarazione è chiarissima.
Sì, certo. Come dicevo, visto che non posso aspettarmi
budget enormi e che mi trovo di fronte ad una stagione già programmata,
lavorerò con quanto a mia disposizione e il prossimo anno mi muoverò su nuove
produzioni. Dalla natura stessa, del resto, non si può soltanto prendere e
l'uomo non osserva molto le cose; sembra riluttante a fare tesoro
dell'esperienza, che pure lo accompagna del continuo. Se pensiamo ai
cambiamenti climatici non dobbiamo dimenticare che
essi ci sono sempre stati in migliaia di anni. Quindi
sono imputabili all'agire umano, anche se non completamente. Con questo intendo
dire che occorre prima capire e poi far capire che
tutto ha un limite: bisogna prendere ma bisogna anche dare.
Prima parte ‑
Seconda parte