Intervista a Maria Cristina Bucci, diplomata alla "Paolo Grassi" di Milano

16 febbraio 2007

Maria Cristina Bucci: diplomata all'Atelier di Teatro Danza della Civica Scuola d'Arte Drammatica "Paolo Grassi" di Milano, mi pare la si possa presentare come una personalità che vuole "volare alto". Sbaglio?

Se la metafora di "volare alto" ha a che fare con il sogno, sì, sono quel tipo di persona. Sono una sognatrice recidiva: spesso salto e poi riatterro. La mia storia è un'alternanza di voli e di cadute e, devo ammettere, anche le seconde mi piacciono molto. Certo, sbagliare, perdere e riconoscere di avere dei limiti non piace a nessuno, ma ho sempre pensato che il movimento, l'essenza della vitalità, nascesse dal disequilibrio, dalla tensione tra uno stato di perfezione e uno di imperfezione e quindi cerco di affacciarmi sul mio lato debole e terreno con gloria.

La tua formazione è variegata: oltre al diploma della "Paolo Grassi" hai alle spalle una laurea in filosofia, con indirizzo in estetica, hai studiato Modern Jazz, hai lavorato sia come danzatrice sia come coreografa… Quanto ritieni sia importante la poliedricità nel proprio percorso formativo?

Molto, e comunque ha i suoi pro e contro. La mia curiosità non mi ha permesso di scegliere una sola strada, ma ho dovuto attingere a svariate e spesso contrastanti fonti per mantenermi viva e "su di morale". A volte, sinceramente, credo di aver perso tempo ma, lasciando perdere la polpa succosa della ciliegia, qualche nocciolo mi è rimasto e ancora mi sostiene. L'hip hop, per esempio, breve e appassionata parentesi, mi ha lasciato la parola "flavor", che significa gusto, sapore ed è, per la mia danza, fondamentale: godere del movimento, provare piacere nel danzare. Anche lo studio della filosofia è stato fondamentale per imparare ad osservare e ad apprendere gli strumenti necessari per l'insegnamento.

I contrasti mi piacciono, vivono in me e mi divertono. Per citare Puskin, "la coerenza è la virtù degli idioti".

Che cos'è per te il corpo? E la voce? E il gesto non danzato?

Tutto dipende dall'intenzione che ci sta dietro. Sono tre strumenti che possono giacere muti oppure vibrare e quindi parlare. La macchina scenica li rende universali colmandoli di un senso scelto da uno che va a molti. La ricerca investiga i loro ambiti, li seziona, li alimenta, li codifica e trasferisce la loro realtà sul piano irreale della creazione artistica. Lo studio li allena, spesso li fa soffrire e poi li solleva.

Il corpo non è solo un involucro: dentro è pieno di organi, di sangue, di articolazioni, di anima. L'organismo è unico, un mistero. In esso si fondono la radice terrena e quella ultraterrena dell'essere umano. Esse nella danza duettano, si avvicinano, si allontanano, si sollevano a vicenda, collaborano. Non credo che un corpo non allenato possa fare una buona danza, ma sono convinta che il vero motore ed il merito stesso della bellezza di un movimento stia nell'anima. La danza è il danzatore stesso, con la sua sensibilità e la sua storia. La mia attività di insegnamento mi è stata molto utile per capire che si danza ciò che si è e a volte lo studio aiuta a sbloccare punti deboli di carattere esistenziale e allora avviene la meravigliosa metamorfosi, anche la danza cambia, l'anima sboccia. Ho assistito a qualche fenomeno del genere; per questo continuo ad insegnare.

Anche la voce è molto legata all'intimità di chi la usa, la più profonda intimità. Essa ci parla di noi; come il corpo: con l'esercizio, può essere dominata, ma, come la danza, è lo specchio di ciò che siamo.

Il gesto non danzato appartiene a tutti e tutti accomuna, per questo credo che sia stato scelto come linguaggio prediletto del Teatrodanza.

Come definiresti il Teatrodanza?

Domanda difficilissima questa, alla quale ‑ devo ammettere ‑ ogni volta do risposte diverse. Esso viene spesso associato alla ricerca estrema, un po' pesante, élitaria e poco comprensibile. Io credo che nasca da una sovrabbondanza di messaggi e da una inclinazione poetica di chi lo fa. Il codice, la forma non bastano più e allora l'utilizzo di tutte le forme di comunicazione possibili diventa materia di lavoro e metodo stesso. Credo che sia davvero difficile fare bene un'opera di Teatrodanza perché il fatto che ci sia un uso globale della comunicazione non toglie che in ogni campo (danza, voce, testo…) debba esserci una forte tecnica di base.

Ti do un tema molto ampio: Pina Bausch, la capofila del Teatrodanza.

Pina Bausch c'è riuscita: i suoi personaggi sono così reali che fanno soffrire. Eppure sono famose le classi difficilissime del Wuppertal Tanz Teather: quei danzatori che vediamo in scena apparentemente sporchi, sfatti, brutti, in realtà studiano ogni giorno la tecnica accademica a livelli altissimi.

Credo, inoltre, che la massima intuizione di Pina Bausch risieda nel suo metodo che oserei definire socratico: lei fa domande ai suoi danzatori e loro rispondono con l'improvvisazione. Il danzatore non è più un artista che ripete, ma diventa egli stesso messaggio. Credo che un coreografo debba avere familiarità e dimestichezza con la natura umana per riuscire a tirar fuori ("ars maieutica") il meglio dei danzatori che si trova davanti.

Tra gli altri, hai frequentato seminari con Amanda Miller. Che cosa pensi di Oberon's Flower, la sua personalissima rilettura del Sogno di una notte di mezza estate?

Purtroppo non ho visto questa coreografia, ma posso dire che l'incontro con Amanda Miller è stato per me rivelatore: la sua personalità così bizzarra, la sua elevatissima preparazione tecnica (ha lavorato come assistente a William Forsythe che, si sa, pretende interpreti estremamente dotati e preparati) e la sua totale libertà da schemi durante il processo creativo mi hanno suggerito che la coreografia deve sì avvalersi di tutte le risorse che ognuno ha, ma deve anche divertirsi e viaggiare liberamente, senza paura di sbagliare. Ricordo che per il "training" usava come accompagnamento una stazione radio presa a caso, con tanto di notiziari, pubblicità e interferenze varie.

Marinella Guatterini è stata tra i tuoi docenti alla "Paolo Grassi" e con lei hai seguito i corsi di Estetica della danza. In che cosa consiste un corso su tale argomento?

Il corso consiste in uno sguardo ampio e critico sulla storia della danza, tenendo presenti tutti i fattori che ne hanno determinato l'evoluzione ‑ storico, sociologico, politico, filosofico ‑ e tutti gli ambiti artistici e letterari ad essa vicini.

Condivido l'idea di Marinella Guatterini che oggi un danzatore, che non deve per forza essere anche coreografo, debba poter contare su una buona preparazione culturale. Non solo sulla storia della danza, ma anche sulla musica (saperla leggere, per esempio, è un grande vantaggio), le arti visive, la letteratura, la poesia, la storia. Quasi mai queste nozioni sono usate in sala prove, tuttavia arricchiscono la sensibilità e forniscono materiale di lavoro.

Per rappresentare la vita bisogna prima viverla, e un po' conoscerla.

Il corso di estetica della danza è stato una fortuna per me, ma purtroppo è una rarità; non capisco perché non ci siano cattedre di storia della danza nelle università milanesi.

Quali sono le problematiche legate all'uso della voce nel Teatrodanza?

La voce è spesso presa alla leggera dai danzatori e altrettanto spesso ignorata. In realtà è difficile avvicinare questi due strumenti che si muovono su livelli molto distanti. Nella mia esperienza lo studio della voce mi ha insegnato tante cose sulla danza, sembra strano, ma è così. L'importanza del respiro, dell'arrivare lontano con il suono, la postura, il valore dell'esercizio costante e della tecnica.

È stata mia insegnante Francesca Breschi, cantante del Quartetto di Giovanna Marini: mi ha potuto passare un po' del suo repertorio da canto popolare, che trovo molto affascinante e legato alle radici del movimento stesso.

Tra le personalità con cui hai seguito stage e seminari o con cui hai lavorato, quali ricordi maggiormente?

Brevemente, ecco le esperienze di studio che mi hanno lasciato di più.

Il corso di Teatro con Maria Consagra alla "Paolo Grassi" mi ha insegnato ad improvvisare senza l'intervento della ragione, a lavorare sullo "stream of consciousness", liberando corpo ed immaginazione.

Il corso monografico sull'ultimo anno di Mozart, tenuto da Francesco Degrada all'Università Statale di Milano: ho imparato ad ascoltare veramente la musica e ad amare l'opera.

L'incontro fortuito, durante una trasmissione televisiva, con un maestro di Tai Chi Chuan mi ha insegnato l'arte di ricevere e di restituire, e ad essere acqua.

Il primo seminario con Giorgio Rossi, dei Sosta Palmizi, a Cortona, con il quale ho imparato a danzare a modo mio. Il suo approccio alla danza poetico e sorridente mi ha contagiata e stimolata.

L'incontro con Michele Di Stefano e gli MK. L'utilizzo del corpo in senso schietto, non ornamentale. Trovo la loro sperimentazione davvero molto interessante ed attuale.

Il corso per danzatore interdisciplinare  della CEE organizzato da Adriana Boriello dove ho conosciuto il fascino del ritmo e del canto.

Nel 2002 hai lavorato al Teatro degli Arcimboldi come danzatrice in Iphigenie di Micha von Hoeke. Mi puoi raccontare quest'esperienza?

Bella esperienza. Location prestigiosa. Grande musica (Muti era il direttore d'orchestra). Coreografo di fama internazionale (Micha Van Hoecke) e grande budget… e mi sono ovviamente chiesta: perché mai continua questa disparità tra il riconoscimento agli enti lirici e l'indifferenza ai piccoli gruppi di ricerca di valore?

Nel 2006, invece, al Teatro alla Scala, sei stata danzatrice nel Don Giovanni, sotto la regia di Peter Mussbach.

La Scala è così emozionante e con Mozart lo era altrettanto. Alla prima Mussbach non è stato compreso a pieno; la sua regia, non certo conservatrice, ha suscitato qualche disaccordo in platea, ma devo dire che con noi ha lavorato come un vero maestro: ci ha passato energia e passione. Quando ci ha presentato la sua idea avevamo tutti la pelle d'oca. Ha decisamente usato il movimento, forse ne ha anche un po' abusato. La scenografia, in bianco e nero, essenziale, consisteva in tre enormi muri neri che si spostavano creando situazioni spaziali sempre diverse; il nostro intervento era una rottura dello spazio, un'incursione vitale e reale in un luogo sospeso, quasi astratto. Ho incontrato artisti davvero molto bravi e pieni di talento, tra cui il maestro d'orchestra venticinquenne Dudamel, con i quali spero di lavorare ancora.