Intervista ad Elettra Bedon, un'italiana nel Canada letterario
Cominciamo dalla Sua biografia: padovana di nascita, ora
risiede a Montreal. Come è approdata in Canada?
Penso che quando ci si trova in un particolare stato d’animo
si diventi sensibili a possibilità che altrimenti non si sarebbero prese in
considerazione. Nel 1983 il fatto di avere figli già grandi, più tempo a
disposizione, e il desiderio di fare qualcosa di diverso, mi hanno fatto
cogliere l’occasione di accompagnare in Canada due dei miei figli. I ragazzi
erano pronti per l’università ma non avevano idee chiare sulla facoltà cui
iscriversi; avevamo amici a Montreal, sapevamo che il sistema universitario
nordamericano era meno rigido di quello italiano, e decidemmo di fare un anno
di "prova". In Canada ho poi messo radici.
Lei è attiva nel campo dell'intellettualità. Di che cosa si
occupa esattamente?
Mi sento un po’ a disagio con il termine
"intellettualità" … La mia partecipazione a questo mondo è da
amatore, non ho incarichi ufficiali, non svolgo nessuna mansione specifica.
Penso di poter dire che "vivo di parole" (è il verso di una mia
poesia): scrivo poesia, narrativa, prosa; traduco dall’inglese e dal francese
in italiano sia testi letterari che di altro genere; sono in contatto con persone
e associazioni di cui condivido gli interessi culturali… leggo molto, nelle tre
lingue che conosco.
Mi può parlare in particolare dei Suoi studi sulla letteratura
venuta?
Il mio Dottorato di ricerca sulla Letteratura in lingua veneta del XX secolo, conseguito
all’Università McGill di Montreal, è un altro esempio di un risultato
raggiunto… per caso, senza averlo voluto sin dall’inizio. A Montreal ho seguito
dei corsi di letteratura italiana per puro interesse; un paio di professori mi
ha incoraggiato a farlo "sul serio", a inserirmi in un programma. Ho
così ottenuto un master e poi un
Dottorato di ricerca. La scelta della letteratura in lingua veneta è stata
motivata dal fatto che quel campo era più nuovo di altri, e che io ero in grado
di leggere – e tradurre – opere di autori che hanno scritto in questa lingua.
So che Lei ha curato anche la sezione "Veneto" in
un'antologia dedicata alla poesia dialettale del Nord Italia. Com'è nata l'idea
di questa antologia?
L’antologia Dialect
Poetry of Central and Northern Italy, curata da Luigi Bonaffini e Achille
Serrao, pubblicata nel 2001, segue e completa Dialect Poetry of Southern Italy, pubblicata nel 1997. Durante il
mio soggiorno in Italia per la preparazione della mia tesi ho incontrato
diversi poeti che scrivono in dialetto; attraverso uno di loro Achille Serrao
(poeta che scrive in un dialetto della Campania) si è messo in contatto con me,
e mi ha chiesto di curare la sezione Veneto
dell’antologia in preparazione. Dovevo scrivere un breve saggio sulla poesia del
XX secolo in lingua veneta, una introduzione a ciascuno degli otto poeti da me
scelti, e la traduzione in italiano delle loro poesie in dialetto presentate
nell’antologia stessa.
Quali autori sono stati inclusi nell'antologia e secondo quali
criteri?
Nello scegliere i poeti da antologizzare ho seguito gli
stessi due criteri che mi hanno guidato nella ricerca che ha portato alla
redazione della tesi. Da una parte ho escluso i poeti "dialettali" –
coloro che in genere appartengono alla prima metà del XX secolo, che scrivono
secondo schemi ottocenteschi (sia nello stile che nel contenuto) – e,
dall’altra, ho voluto mettere in evidenza poeti che, oltre a usare il dialetto
come lingua "preziosa" (vedi Pasolini), erano meno conosciuti, a
volte per l’esiguità della loro produzione, o perché non molti critici si erano
occupati di loro, e in genere per il numero ristretto di coloro che leggono
poesia. Nell’antologia sono presenti, nell’ordine: Ernesto Calzavara, Sandro
Zanotto, Luigi Bressan, Luciano Caniato, Luciano Cecchinel, Gian Mario
Villalta, Cesare Ruffato, Andrea Zanzotto. (Avevo escluso quest’ultimo perché
ben conosciuto ma, secondo i curatori, non si poteva ometterlo).
Restando in tema di poesia dialettale, quali sono – secondo
Lei – le maggiori difficoltà quando si deve tradurre il vernacolo in lingua
(citerei, nel nostro caso, italiano e inglese)?
La difficoltà principale consiste nel ricreare il ritmo,
l’atmosfera. Dal dialetto all’italiano e – ancor più – dall’inglese
all’italiano – variano gli accenti tonici, il numero delle sillabe dei singoli
lessemi. È escluso di poter fare una traduzione letterale: questa serve come
primo passo, per entrare nel mondo del poeta. Una buona traduzione sarà
un’altra poesia, una che – magari con espressioni diverse – ricrei, come
dicevo, il ritmo e l’atmosfera dell’originale.
Il problema della trascrizione fonetica di un dialetto.
I dialetti, si sa, sono nati come lingue orali, e per molto
tempo nessuno si è preoccupato di trascriverli. Quando si è cominciato a farlo,
ciascun parlante ha seguito propri criteri, che potevano essere anche
notevolmente diversi da quelli di altri parlanti della stessa zona. So che,
abbastanza recentemente, in diverse regioni italiane si è proceduto a una
unificazione; per il Veneto ci si rifà al manuale Grafia Veneta Unitaria pubblicato nel 1995 dalla Regione. Questo
non vuol dire che chiunque scriva in dialetto vi si adegui…
Mi può parlare della Sua attività di scrittrice?
Mi piace scrivere, mi ci trovo a mio agio, più che nei
rapporti interpersonali. Ho cominciato – come penso sia il caso di molti – da
adolescente: tenevo un diario, scrivevo poesie che riflettevano stati d’animo.
Scrivere è sempre stato per me qualcosa che mi veniva naturale, ma non mi sono
mai detta, allora, "da grande farò la scrittrice". In realtà, anche
ora che ho un lungo elenco di pubblicazioni, non mi sento di dirmi
"scrittore", nel senso che si dà in genere a questo termine. Ciò che
ho scritto – poesia, narrativa, saggi critici – ha avuto ridottissima distribuzione,
e altrettanto ridotto è l’ambito in cui sono conosciuta. Se però per
"scrittore" si intende qualcuno che ha espresso in parole, e messo su
carta, un proprio modo di vedere la vita, la propria esperienza umana, nel
desiderio di stabilire un colloquio ideale con un possibile lettore; qualcuno
che ha scritto soltanto su ciò in cui crede, con cura, con affetto (oserei
dire…), allora, sì, mi riconosco in questo termine. Allora ogni raccolta di
poesia, di racconti, ogni saggio critico, ogni romanzo per ragazzi – persino i
manuali per insegnare l’italiano nelle elementari, qui a Montreal – è qualcosa
cui tengo, che mi ha impegnato, che ho cercato – nei limiti del possibile – di
far conoscere. E continuo a farlo.
Tra la Sua produzione letteraria figurano anche novelle e
romanzi per ragazzi. Che tipo di scrittura occorre adottare quando ci si
rivolge ai ragazzi?
Non mi sono mai posta il problema di usare un tipo di
scrittura particolare, per i ragazzi. La fascia di età cui mi rivolgo è quella
dagli 8 ai 10 anni; i bambini mi piacciono, mi trovo a mio agio con loro. In un
certo senso parliamo la stessa lingua, a metà strada tra il mondo della realtà
e quello dell’immaginazione, aperti a guardare intorno con occhi nuovi, pronti
a meravigliarsi di tutto… Mi sembra che – piuttosto che un tipo di scrittura da
adottare – ce ne sia uno da evitare: lo stile "bambinesco",
zuccheroso, gonfio di diminutivi, di vezzeggiativi…
Quali temi tratta nei Suoi scritti per ragazzi?
Nei miei libri per ragazzi ci sono le cose in cui credo:
l’amicizia, la collaborazione, l’attenzione a ciò che di solito non è ritenuto
importante (sia nelle persone che nel mondo in cui si vive). Niente prediche,
però: questi valori sono calati nella vita di tutti i giorni, vissuti dai
personaggi.